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Quel Mulino: Profumava di mirto, di farina, di neve
Quel Mulino: Profumava di mirto, di farina, di neve
Quel Mulino: Profumava di mirto, di farina, di neve
E-book354 pagine5 ore

Quel Mulino: Profumava di mirto, di farina, di neve

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Info su questo ebook

“Quel Mulino” è un racconto di carne e di sangue, d’amore e di morte, di riscatto e di speranza ambientato nelle campagne di Rossano calabro prima che i contadini morissero alla loro identità meravigliosa e dolente per l’anonimato nelle grigie fabbriche del nord.

L’autore racconta quell’universo di colori e fragranze, di amori e di vita con gli occhi di un bambino strappato al suo giardino incantato.

Rolando Rizzo lasciò quel mondo nel 1958, quattordicenne, affamato, cencioso e analfabeta, per diventare aiuto giardiniere in una Villa Medicea del ‘400 disegnata da Michelozzo. Animo tendenzialmente ateo si trasformò in uomo di fede, analfabeta sino ai 21 anni fu segnalato come poeta da Mario Luzi. Dopo un lungo girovagare, ritornò alla Villa Medicea come professore di teologia.

Dopo la pubblicazione di numerosi lavori di divulgazione e narrativa teologica, nel 2007 pubblica sotto altro titolo questo primo romanzo salutato come un capolavoro a cui seguiranno Il Viaggiatore, Il Terzo Treno, Cieli Tamarri, Il Nulla e l’Incanto, Il Principino Scomparso...

*** Recensioni

Pierantonio Zavatti, pres. “Oscar Romero” di Forlì
Una poeticità descrittiva e narrativa che incanta.

Rosanna Ricci de Il resto del Carlino
È un libro di avvincente lettura perché nessun episodio risulta banale.

Cataldo Russo, pres. del Gerolamo Cardano di Milano
Rolando Rizzo usa la penna con la stessa abilità con cui i grandi pittori impressionisti francesi usavano i pennelli e dosavano i colori.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2018
ISBN9788828337300
Quel Mulino: Profumava di mirto, di farina, di neve

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    Anteprima del libro

    Quel Mulino - Rolando Rizzo

    Colognati".

    CAPITOLO I

    I Tabbatà

    Era un maggio caldo, assolato e piovoso di burrasche d’estate, corte e violente. Il Colognati scendeva vorticoso dalla Sila, minaccioso e torbido di nevi troppo velocemente discioltesi, umiliando gli oleandri in fiore lungo tutto il suo letto e minacciando gli aranceti sulle sponde già gentili di zagara odorosa. Lungo i costoni gli uliveti grondavano fresco argento. Nelle pause frequenti le grandi nuvole color fumo e cenere, come una pergamena antica, si laceravano in squarci colorati di rosa e di violetto, di indaco e di porpora, lasciando il sole inondare la valle. Intanto comparivano i grumi di fichi d’India dai fiori gialli e bianchi sulle pale verdi, i peschi rosa negli aranceti e soprattutto il biancore virgineo dei peri tra le rocce, negli anfratti incolti.

    – Torniamo al mulino, nonno – implorai. – Ho paura. U Colagnatu continua a ingrossare e tra poco è notte!

    Zu Peppu u mulinaru, alto come una quercia, bianco e vecchio come uscito da una favola, si voltò, mi sorrise e mi tese la mano grande e calda. Mi parlarono prima i suoi occhi sicuri.

    – Non temere – mi disse. – U Colagnatu è amico mio; non ingrosserà oltre, altrimenti mi avvertirebbe tramite le nuvole. Piove solo come quando è agosto, la neve in Sila in questa stagione è poca ed è già quasi tutta scesa.

    – Amico tuo? Ma i fiumi non hanno amici!

    – Sì che li hanno! Sono i mugnai; il fiume è stato amico antico dei miei padri e sarà anche amico tuo se sarai mugnaio. Vedrai, tra un paio di giorni il nostro amico si ritirerà nel suo alveo e ci lascerà, nella sabbia e tra le pietre, tanta legna preziosa che raccoglieremo e porteremo a ru mulinu.

    Con la mia mano nella sua ripresi un po’ di coraggio e salimmo assieme la collinetta dalla cui vetta il Colognati mi appariva come una processione violenta di draghi e di idre dai mille tentacoli in lotta, che rotolavano schiumando verso il vicino mare che non avevo mai visto.

    – Non temere, non temere! – mi disse ancora, sentendo la mia mano tremare. – U Colagnatu è amico mio.

    Lo contemplammo ancora un poco. Io, rassicurato dalle sue parole, ma ancora impaurito, soprattutto quando vidi un pino immenso galleggiare tra i flutti e scendere verso valle come un fuscello, fui comunque deciso a mostrarmi coraggioso. Poi, scendemmo verso il mulino. Aveva smesso di piovere, era già sera, due stelle scintillanti si erano accese all’orizzonte.

    – Passiamo un momento dai Tabbatà – mi disse, sapendo di farmi piacere.

    La cascina dei Tabbatà era una grande casa scura, a due piani, a un tiro di schioppo dal mulino, al centro di un aranceto – il giardino – che lambiva il bosco. Davanti ad essa c’era una grande aia. Il piano terra era diviso da una larga porta centrale mentre una ripida scalinata di pietra conduceva alle quattro stanze del primo piano. La più ampia aveva un grande camino nero sempre acceso, un tavolo pesante di quercia, attorno a cui la famiglia consumava i pasti; alla parete di fronte al camino si trovava un lettone alto, soffice e frusciante di foglie di granturco dove dormivano i genitori di Pinuzzu, l’amico mio. Il tetto di tegole scure era sorretto da una capriata nera di castagno, dal cui tronco centrale pendevano, odorose di agiatezza, salsicce pepate rosse, soppressate, tavole di lardo nere di spezie e trecce di peperoni rossi.

    Il primo stanzone, in basso a destra, davanti all’aia, si estendeva lungo tutto il caseggiato. Era adibito a magazzino quando il tempo era buono, a laboratorio, per affilare arnesi e intrecciare ceste, quando pioveva. Quello a sinistra, invece, era la comoda stalla di due asini e di un cavallo. Attaccata alla casa, sul retro, la porcilaia: quattro o cinque maiali rosa, con la coda arrotolata, grufolavano pasciuti tra le ghiande.

    Amavo i Tabbatà, una grande famiglia laboriosa e pacifica. Amavo quell’aia, regno delle loro donne, le bellissime Ntonetta e Ninuzza, e la madre. Tranne che nelle ore dei pasti, o durante la notte, mai una di quelle donne sorridenti mancava sull’aia: a sistemare i cestoni di nespole e fichi, di fave e pomodori, di lattughe e piselli, che gli uomini avrebbero poi portato ai fruttivendoli nei rioni del paese; a mondare le verdure o a impastare la farina per la loro tavola, a tirar su l’acqua dal pozzo, a preparare le merende per i maschi nei campi; a rimescolare il becchime per i polli, il pastone per i maiali, le carrube per gli asini; a stendere sui graticci di canne i fichi secchi e lo spigo, i pomodori rossi e lo zenzero; a concimare le margherite, le violacciocche e i garofani, rossi come il sangue, che delimitavano l’aia dall’aranceto.

    Avevo sei anni, ma ero perdutamente innamorato delle loro bellissime trecce nere, dei loro sorrisi di perla, del loro continuo cicaleccio, armonioso come quello degli usignoli. Mai uno strillo, mai una scenata, mai un atto di violenza su quell’aia; non appena la voce di qualcuno si alterava, quelle donne la disarmavano con una risata.

    – Zu Peppu, Rolanduzzu, venite, accomodatevi. Abbiamo appena sfornato la focaccia. Sedetevi – ci accolse Ninuzza. – Tra poco arriveranno gli uomini.

    Ci sedemmo su un tronco di castagno adattato a panca, addossato al muro di fronte al forno, in un angolo dell’aia. Ormai era buio, ma era caldo, aveva smesso completamente di piovere, la luna piena illuminava l’aia come a giorno, nella bocca del forno la brace emanava bagliori rosa e la focaccia appena sfornata profumava l’aria di vita. E il sorriso di Ninuzza e quegli occhi neri e profondi che vedevo anche al buio, per averli tante volte sognati, non mi dettero neppure il tempo di pensare all’assenza di Pinuzzu, l’amico del cuore nel mio paradiso incantato.

    – Vi fermate a cena con noi, zu Peppu? – disse Ntonetta, la maggiore delle figlie. – Papà e mamma ne sarebbero felici.

    – No, cummara, grazie. Non possiamo, mi dispiace. Dobbiamo tornare a ru mulinu. Tra poco arriveranno Maria, Totonnu e Lionora che sono dovuti andare urgentemente a Russanu. Con questo tempo si saranno certamente bagnati, voglio che trovino un bel fuoco acceso.

    Mio nonno era veramente dispiaciuto di non rimanere: era la migliore forchetta della valle e a casa Tabbatà si mangiava bene e si beveva meglio.

    Cumparu Luigi, in suo onore, avrebbe certamente stappato un fiasco. Zu Peppu era molto amato in quella famiglia, perché bonario e pacifico. Un colosso di un metro e ottantacinque, quando un metro e sessanta era considerata già una buona statura, che mai era stato coinvolto in una rissa. Senza conoscerlo, mio nonno seguiva il consiglio di san Paolo che ai credenti di Corinto suggeriva di subire qualche torto, piuttosto che provocare liti e rotture. In casa Tabbatà era un eroe buono; al mulino, dai miei, in quel campo di battaglia, era considerato un vigliacco.

    Ntonetta lo conosceva assai bene, capì che non poteva fermarsi.

    – Zu Peppu, non insisto, ma prendete un pezzo di focaccia, lo mangerete dopo e… aspettate un momento!

    Corse svelta al piano di sopra. Tornò con un paniere rettangolare dal quale spuntavano una bottiglia di rosso e una salsiccia, aggiunse la focaccia, coprendo il tutto con un canovaccio a quadretti azzurri.

    – Lo mangerete a casa, zu Peppu – disse Ntonetta, carezzandogli la spalla. – Buona notte… Rolanduzzu, vieni domani, ci sarà Pinuzzu.

    Imboccammo a lato del forno uno stretto sentiero bianco che, attraverso cespi di gramigna e di nipitella, ci avrebbe portati a casa.

    Dal giardino dei Tabbatà il confine della proprietà del mulino era costituito da un ruscello artificiale, l’acquaru, alimentato dal Colognati che attraversava il Pesco, come si chiamava la vallata in prossimità del mulino. Esso era incanalato in una specie di acquedotto romano di mattoni rossi che su archi e colonne innalzava l’acqua ad un’altezza di cinque o sei metri, per poi farla cadere con forza nella saetta, una sorta di grande imbuto il cui getto violento azionava le pale sotto la grande macina. L’acqua, poi, andava ad alimentare le vasche degli aranceti sulla destra del Colognati per circa tre chilometri, sino al ponte sulla statale che veniva da Paludi e andava a Rossano.

    Passammo sotto l’arco di mattoni e fummo al mulino. Una casa di pietra con una grande porta centrale; entrando, a sinistra, c’erano la macina e i suoi attrezzi, bianchi di farina; a destra, invece, due stanze: quella in fondo con un grande tavolo di quercia davanti al camino; più vicino alla porta, l’altra stanza, povera, con un grande letto e una cassapanca. Dalle travi, piene di chiodi sporgenti e arrugginiti, pendevano soltanto trecce di peperoni rossi.

    Durante il nostro breve tragitto il tempo era ancora cambiato; nuvole gonfie di pioggia avevano coperto le stelle e la luna. Era buio fitto e la pioggia ricominciava a cadere. Io, impaurito, non entrai; il nonno cercò il lume alla luce di un fiammifero che accese sfregandolo sullo stipite della porta.

    – Entra e chiudi la porta – mi disse. – Accenderemo un bel fuoco, poi prepareremo qualcosa da mangiare.

    Il fuoco crepitava, la salsiccia spezzettata sfrigolava nella padella che accolse la pasta avanzata di mezzogiorno con un vigoroso sussulto; sul tavolo, tra i due piatti fumanti e grassi, la bottiglia di rosso troneggiava come una regina, ma il nonno era stranamente silenzioso e triste. Mangiava di malavoglia e il nettare rubino che sempre tra le sue dita annunciava la festa e profumava di alba, quella notte non era che un bicchiere di medicina insipida e colorata. A un certo punto, per la prima volta, vidi le sue guance rigarsi di lacrime.

    Fuori, la pioggia batteva violenta; dal rotolare dei massi nel Colognati veniva un rombo regolare di tuono. Mi si chiudevano gli occhi dal sonno ma non volevo dormire; volevo sapere di quelle lacrime e cominciavo anche a temere per i miei che non arrivavano, con quella pioggia, e il torrente che da un momento all’altro poteva invadere la viottola da cui sarebbero dovuti passare. E se l’avesse già invasa?

    E se mio padre, mia madre e Lionora fossero stati già come quel pino in balia delle onde selvagge?

    – Perché piangi, nonno? Proprio stasera che abbiamo cenato con salsiccia, focaccia e il vino che tanto ti rallegra? Forse hai paura che u Colagnatu allaghi u mulinu? Oppure temi che loro siano affogati nella viottola invasa dal fiume?

    Cominciai a singhiozzare.

    Il gigante della favola mi strinse tra le sue braccia forti e vigorose, mi sollevò e mi adagiò sul letto accanto al camino, coprendomi con un vecchio mantello, e mi baciò sulla fronte.

    – Ti ho già detto che u Colagnatu è amico mio e nulla farà a tuo padre, a tua madre e a Lionora. Forse verranno domani.

    «Dormi tranquillo, non è nulla. I vecchi piangono perché vedono gli uomini distruggersi con le loro mani ed essi sono impotenti. L’ho capito chiaramente stasera sull’aia dei Tabbatà.

    – Non capisco, nonno. Cosa vuoi dire? Ntonetta e Ninuzza sono persone buone e sono state gentilissime con noi! Com’è possibile che ti hanno rattristato e fatto piangere?

    – No, non sono loro che si uccidono. Dormi, non puoi capire, capirai un giorno. Io non parlavo a te, parlavo a me stesso; i vecchi parlano spesso da soli. Dormi, tutto è tranquillo, domani verrà il sole e tu andrai a giocare con Pinuzzu.

    – E papà, mamma e Lionora?

    – Tranquillo, hai la mia parola, domani saranno qui, e ci sarà il sole, u Colagnatu è amico mio.

    Non compresi e non ero tranquillo; ma il sonno lentamente mi vinse. L’ultima cosa che vidi furono le larghe spalle di mio nonno e la sua nuca bianca davanti ai chiarori del focolare, unica luce nella stanza buia.

    CAPITOLO II

    Zu Peppu

    Sassi giganteschi, spinti dal fiume, demolirono il mulino. Io nuotavo disperato tra i flutti e gridavo aiuto, ma mio nonno, a cavalcioni sul grande imbuto di mattoni, rideva con il volto rigato di lacrime ripetendo:

    – U Colagnatu è amico mio, u Colagnatu è amico mio.

    Ma nulla faceva per salvarmi, e allora le onde, immense e nere, mi trascinavano nell’aranceto allagato da cui emergevano, come in una piantagione appena seminata, solo le chiome scure degli alberi fioriti. Gridavo aiuto con tutta la mia forza, ma, ormai, ero solo un puntino nella valle diventata un lago vasto e melmoso; del mulino nessuna traccia, né vedevo davanti a me i lati della valle, gli ulivi, i peri in fiore. Nulla, solo acqua e cielo. Stranamente, però, sentivo nelle orecchie la nenia familiare della macina che girava e l’odore della farina; piangevo disperato, nuotavo sempre più stanco e ormai rassegnato a morire quando, con mia grande gioia, mi sentii chiamare per nome:

    – Rolà, Rolà, svegliati, apri!

    Mi svegliai di soprassalto, impiegai un po’ a convincermi che ero nel mio letto. Nel camino il fuoco era spento, la macina girava, la tramoggia tremolava e i colpi al portone si facevano sempre più forti.

    – Rolà, Rolà, svegliati e vieni fuori – urlava Pinuzzu.

    Corsi, scalzo, ad aprire; le pietre del pavimento erano fredde, ma dalla porta m’invase un torrente di luce. Era Pinuzzu, sei anni di pura curiosa energia distribuita in un corpo olivastro, dinoccolato e frizzante, in perpetuo moto, due occhi neri come la notte e un sorriso luminoso come una falce di luna.

    Ancora assonnato e sorpreso non capii cosa diceva. Ero troppo occupato a rassicurarmi osservando il cielo ormai sgombro di nubi, il muro di protezione lungo la viottola in parte coperto dall’immenso noce ombroso e dal grande fico scintillante di sole. Ai confini dell’aia i pomodori fioriti, fiduciosi, si appoggiavano ai pali e i fagioli gocciolavano gemme celesti e rosa.

    Il Colognati russava tranquillo nel suo alveo. L’ultima piena era passata, come aveva preannunciato zu Peppu u mulinaru, suo amico da secoli. Del nonno, però, nessuna traccia, e nemmeno di papà, mamma e Lionora.

    – Ma cosa ti succede? – mi urlò Pinuzzu, scuotendomi un braccio. – Mi vedi? Mi ascolti? Ti sei ubriacato con zu Peppu?

    Mio nonno era un personaggio, nella valle, era lo zio di tutti: per la sua altezza, per la sua bonarietà, per la sua allegria, per la sua generosità, per i suoi racconti di bersagliere a Torino, nella caserma del generale Lamarmora; ma anche per l’amore sconfinato per la buona tavola e, soprattutto, per il vino rosso, buono o cattivo che fosse. Era capace di mangiare quantità enormi di tutto e di bere senza limiti, senza mai perdere il senno o diventare sgradevole.

    Su di lui si sprecavano gli aneddoti, sempre a cavallo tra storia e leggenda. Si raccontava che una volta avesse divorato un’intera capra arrosto, un’altra avesse consumato da solo un orcio di dieci chili di carne salata e che, un ventiquattro dicembre, dopo il pantagruelico cenone, verso le quattro del mattino, quando tutta la famiglia dormiva, zu Peppu, seduto accanto al fuoco, avesse mangiato tutta la carne e i dolci che le donne avevano preparato per Natale e Santo Stefano per quindici persone. Fortuna volle che le tagliatelle e i maccheroni, messi a seccare sulle stuoie, non erano stati cotti.

    Ancora più mitiche erano le sue formidabili ciucche, le pedde, come si chiamavano a Rossano. Ne prendeva di certo una ogni due mesi, da Pagghia ’e lettu, nella cantina di Santa Maria delle Grazie, a metà strada tra Rossano e il Pesco.

    Il giorno del ritiro della pensione per zu Peppu era momento di culto gioioso, scandito da un rituale ricco e preciso, che nulla avrebbe avuto da invidiare a una rigorosa cerimonia bizantina. Si svegliava che ancora era buio fondo; si lavava e radeva con cura alla luce del lume; religiosamente scolpiva i suoi celebri baffoni bianchi prima di indossare l’abito della festa e gli scarponi, lucidati la sera prima con il sego. Si rimirava allo specchio a lungo, e solo in quella occasione; poi si sistemava sulle spalle lo zaino alpino, ricordo di guerra, pulito, rattoppato e logoro, e la pipa ricurva delle grandi occasioni. Almeno un’ora prima dell’alba imboccava la viottola che costeggiava il muro di protezione del mulino per raggiungere la statale sul ponte e, poi, attraverso le ripide scorciatoie arrivare a Rossano.

    Non camminava mai da solo; a quell’ora, la mulattiera che sulla riva destra del Colognati si snodava attraverso un immenso giardino naturale di oleandri rossi, rosa e bianchi, ospitava una processione ininterrotta di pazienti asinelli grigi e pezzati: i più belli avevano una stellina bianca sulla fronte. La maggior parte di loro, ai due lati del basto, sorreggeva due ceste colme di nespole, fichi, pere, angurie verdi, meloni gialli, uva rossa, baccelli di fave, piselli, broccoli, lattuga romana, melanzane viola. Altri portavano un triangolo di legna da ardere, abilmente accatastata e che ricordava il portale triangolare di una cappella romanica; in ottobre, molti asinelli trasportavano mosto rosso negli otri grinzosi di capra.

    Zu Peppu u mulinaru aveva in quel giorno, sei volte all’anno, il suo momento di gloria; lo salutavano tutti e tutti si sentivano onorati di camminare con lui. – Salutamu, zu Peppu, salutamu – gli gridavano. E molti gli offrivano qualcosa: una mela rossa, una fresella croccante, una treccia di fichi secchi, un mezzo toscano. Zu Peppu ringraziava con il largo sorriso dei suoi denti incredibilmente tutti al loro posto.

    Aveva cura, zu Peppu, di cambiare ogni volta compagno di viaggio, e a colui che onorava della sua compagnia raccontava, a richiesta, delle sue avventure di guerra mai vissute: in guerra c’era veramente stato, ma l’aveva fatta sempre nelle salmerie, senza mai sparare un colpo. E raccontava anche delle epiche ciucche, questa volta veramente vissute, quasi tutte prese da Pagghia ’e lettu, di ritorno dal ritiro della pensione.

    Arrivava alla piazza di Penta che albeggiava e i negozianti aprivano al sole le grosse porte di legno dei loro negozi o già travasavano le verdure e la frutta dagli asinelli per sistemarle nelle loro ceste. Zu Peppu attraversava la piazza rasentando la bettola e l’emporio di Tavernise all’angolo, poi percorreva in salita il vicolo sino a ru Muru ’e fosse e, passando davanti alla scuola, arrivava in piazza De Rosis per la prima sosta dal barbiere, per farsi tagliare i capelli. Passando per piazza Steri, la seconda sosta la faceva a Sant’Anargiri per gustarsi una pasta fresca e un caffè al bar Tagliaferri, dove accendeva la pipa della festa. Ritornava poi a piazza Steri, quando l’ufficio postale stava già aprendo, vi entrava e ne usciva ricco come un Re; quattro passi sotto il grande orologio a salutare i vecchi del Pesco trasferitisi in paese, a ognuno dei quali offriva mezzo toscano ricevendone benedizioni sdentate. Poi, scendendo verso la Cattedrale, raggiungeva in basso a ghiazza, ormai gremita di venditori e di massaie vocianti, cariche di tovaglie di cotone annodate che, da negozio a negozio, da bancarella a bancarella, contrattavano cibarie.

    Sempre, come per l’Angelus nei conventi, si dirigeva verso il monumento alla Calabresella che lo attendeva fedele con il suo orcio sul fianco, quasi fosse il sacrario della sua Marateresa che, ormai da molti anni, lo aveva lasciato. Egli, che non era mai andato al cimitero dopo la sua morte, la contemplava lì, a ra ghiazza, a lungo, per almeno un’ora, durante la quale nulla sentiva del caos intorno.

    Nel silenzio della sua anima riviveva la gioia dolorosa del ricordo di lei, di Marateresa, che lo scultore doveva avere sognato per averla ritratta assolutamente uguale a come per la prima volta l’aveva vista lui, diciannovenne, attingere acqua alla sorgente di Vale.

    Quel giorno di un febbraio radioso Peppu era a Sant’Anarigiri con gli amici del Pesco, per la domenica di Carnevale.

    Il Signore – raccontava sicuro zu Peppu – fece venire una gran sete a tutti e assieme decisero di attraversare il Traforo, per andare a bere a poche centinaia di metri, ai piedi della Sila Greca, alla sorgente di Vale, l’acqua migliore di Rossano. Marateresa, appena riempito l’orcio, bevve alla fonte con le mani, poi si fece di lato per asciugarsi la bocca: due trecce bionde sulle spalle, un sorriso di purissimo latte, le labbra di rubino, gli occhi gentili di una Madonna, un corpo dalle forme sinuose e minute in un vestitino leggero che, come la bruma turchese che sale dai tetti, più che vestirla la carezzava delicatamente.

    Sarà questa visione l’amore? si chiese Peppu, sognando di stringerle le ginocchia, sollevarla al cielo e roteare con lei, come le stelle filanti dei fuochi d’artificio alla festa della Madonna di Santa Maria delle Grazie, sino al suo mulino, al Pesco.

    La seguì da solo, discretamente, per una piccola viottola verso il vallone.

    Come ebbe lasciato la strada piena di gente, venne incontro alla fanciulla un grosso cane bianco che la guardò con sguardo complice e, poi, la precedette sino a una cascina povera e linda. Un uomo severo, nerissimo di capelli, un ciuffo di peli neri che gli fuoriusciva dalla camicia, intrecciava vimini sotto il patio. Costui la rimproverò affettuosamente:

    – Come mai così tardi, Marateresa? Ero in pensiero, stavo per venire a cercarti.

    – C’era una gran fila, papà. Oltre alle donne del paese c’era tanta altra gente. E poi, perché ti preoccupi? Sai che Ercole, nascosto dietro i cespugli, faceva la guardia!

    – Hai ragione, Marateresa.

    La ragazza offrì l’orcio al padre che bevve una lunga sorsata, poi entrò in casa. Ma Ercole, che si era accovacciato accanto all’uomo, cominciò a ringhiare e ad abbaiare, pur rimanendo immobile. L’uomo si alzò e gridò:

    – Chi è là? Venite avanti!

    Peppu, che si era nascosto dietro un vecchio castagno, si mostrò e, intanto, maltrattava il cappello nuovo per l’emozione e la paura. Il padre di Marateresa lo fissava duro e minaccioso. Accanto, il cane grosso come un vitello, ringhiava.

    – Chi sei? – gridò. – Cosa vuoi?

    – Ho bisogno di parlarvi, massaro!

    – Non sono un massaro e non so chi sei! Parlarmi di cosa?

    Di fronte a lui la tendina dietro la finestrella si muoveva a tratti. Il suo amore lo sbirciava curiosa.

    Peppu avrebbe voluto parlare, ma rimase muto per qualche secondo, terrorizzato da quel cane mostruoso e da quell’uomo irsuto e duro.

    Il padre di Marateresa capì il suo terrore, lo vide buono e indifeso, con gli occhi chiari, i capelli biondi acconciati come quelli di uno scolaretto timido. Ne ebbe tenerezza, ma non la diede a vedere.

    – Non avere paura del cane, è ai miei ordini. Non vedi che è immobile? Piuttosto, preoccupati di me, cosa vuoi?

    – Parlarvi, solo parlarvi di un cosa importante, molto importante!

    – Allora vieni, siediti su quello sgabello e parla… Ercole, a cuccia!

    Ercole diventò un cucciolo, raggiunse la cuccia con la coda tra le gambe. Peppu si sedette.

    – Ecco, insomma, io sono qui, con intenzioni serissime, per chiedere a vossiria la mano di vostra figlia Marateresa.

    L’uomo lo scrutò esterrefatto, gli veniva da ridere ma si trattenne; non avrebbe mai immaginato di ricevere una simile proposta da qualcuno che appariva come un bambino al primo giorno di scuola. Lo guardava, intenerito, tormentare con le mani il suo primo cappello.

    – La mano di Marateresa? Ma sei impazzito? Lo sai che ha solo quindici anni? E tu ne hai forse solo uno di più! Dove l’hai conosciuta? Quando l’hai vista? Quando le hai parlato? E poi, si viene di persona a porre queste domande? Perché non hai mandato i tuoi genitori?

    Un gatto un po’ suonato, di passaggio davanti alla cuccia di Ercole, addestrato a non aggredire gli uomini ma non i gatti, lo salvò, almeno per il momento, da quelle terribili domande.

    Ercole, infatti, rincorse il felino come un lampo sin nel pollaio di fronte, da dove uscirono, terrorizzate, avvolte in una nuvola di piume, una diecina di malcapitate galline e una coppia di tacchini.

    – Ercole, Ercole – tuonò l’uomo. – A cuccia!

    Ercole, come prima, ma con assai più fatica e a malincuore, ritornò nella cuccia.

    Ristabilitasi la calma, Peppu ringraziò in cuor suo l’intervento provvidenziale del gatto e rispose con maggior sangue freddo a tutte le domande dell’uomo.

    – Non ho genitori – disse Peppu. – Sono orfano. Sono stato allevato dai nonni; mia nonna è morta e mio nonno è troppo vecchio per poter venire, e non ho sedici anni, ma ne compio diciannove il prossimo mese.

    – Chi è tuo nonno e dove abita?

    – Mio nonno si chiama Francesco, Cicciu u mulinaru, e vive con me a ru mulinu, a ru Pescu, accanto a ru jardinu ’e Tabbatà.

    – Tu sei il nipote di Cicciu u mulinaru? Peppu?

    Peppu avrebbe voluto gridare dalla gioia: conosceva suo nonno e perfino il suo nome! L’uomo continuò:

    – Ho conosciuto molto bene i tuoi nonni; è gente per bene. Ma u mulinu? Funziona ancora? Chi lo manda avanti?

    – Io lo mando avanti. E ho tantissimi clienti!

    – Vuoi dire che i tamarri affidano a te il grano per macinarlo? Non ci credo, sei solo un ragazzino.

    – Vossiria venga a vedere. È vero, sono giovane, ma sono nato mulinaru e ho imparato tutti i segreti del mestiere. Conoscete i Tabbatà? Sono gente seria, chiedete a loro.

    – Conosco i Tabbatà. Hai ragione, è gente seria. Ma tu conosci me? Sai come ho conosciuto i tuoi nonni? Io sono Fronzu Pignataru.

    Fronzu Pignataru? Sentire quel nome, sapendo che era il padre della sua visione, lo scosse nelle viscere, per la soggezione e per la fierezza. Era il bracciante che aveva ucciso Giovanni Corallo, un colosso malavitoso che aveva cercato di sedurre sua moglie con le lusinghe, con le minacce e con un tentativo di violenza carnale.

    Fronzu, una sera, tornato dal lavoro – costruiva briglie a secco sul fiume Cino che divide Rossano da Corigliano – trovò la moglie contusa e in lacrime. Alle sue domande ella rispose evasivamente e mai gli avrebbe riferito del malavitoso che già si era macchiato di almeno due assassini. Tutti sapevano, ma nessuno lo aveva mai denunciato, nemmeno i parenti degli uccisi. Solo Marateresa, che allora aveva cinque anni, disse poche parole attraverso le quali Fronzu capì tutto.

    Immediatamente uscì di casa, nella tasca il coltello di sempre, e si diresse alla cantina del Magaru, a pochi metri da palazzo Amantea. Giovanni Corallo lo vide entrare. Come Golia, fece l’errore di sottovalutare quel piccolo e fiero Davide, anzi lo insultò. Mezzo brillo, dall’alto del suo metro e novanta, gli andò incontro sicuro, colpendolo sulla fronte con il palmo della mano. Fronzu, che a malapena gli arrivava allo sterno, indietreggiò cadendo all’indietro, ma, agilmente, si rialzò subito e con il coltello aperto ritornò alla carica. Corallo, spavaldo, nemmeno vide il coltello. Riaprì nuovamente la mano per beffarlo alla stessa maniera, ma Fronzu, abbassandosi quasi sino a tetra, schivò il colpo e, inginocchiandosi, gli piantò il coltello poco sopra l’inguine. La leggenda popolare racconta che il gigante, ferito, cadde in una pozza di sangue nero come la pece. Non lo soccorse nessuno, perché il timore che suscitava era pari all’odio nei suoi confronti. Morì dissanguato.

    Fronzu fuggì tra le montagne. Lo arrestarono per caso due carabinieri che perlustravano la zona in cerca di un altro pregiudicato alla macchia e, vedendolo fuggire, lo scambiarono per quello. Era un agosto terribilmente caldo e i due carabinieri e Fronzu, di ritorno alla caserma, fecero sosta al mulino. Spossati, si sedettero sul muro di protezione dal Colognati, sotto l’immenso noce. Il nonno di Peppu li vide, andò loro incontro e, com’era abitudine dei mugnai, corse subito in casa e portò pane, formaggio, acqua fresca e vino rosso per tutti.

    – Fronzu? – esclamò sorpreso e ammirato il nonno di Peppu. – Tu sei Fronzu?

    – Sono io. Sì, sono io.

    I carabinieri rimasero sorpresi. Anche per loro Fronzu era un eroe e Corallo un delinquente. Lo avessero saputo prima, avrebbero fatto finta di non vederlo. Così,

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