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Le leggende del basket: Storie e gesta degli eroi della pallacanestro
Le leggende del basket: Storie e gesta degli eroi della pallacanestro
Le leggende del basket: Storie e gesta degli eroi della pallacanestro
E-book385 pagine6 ore

Le leggende del basket: Storie e gesta degli eroi della pallacanestro

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Info su questo ebook

La storia del basket e delle sue grandi epopee raccontate attraverso le gesta dei campioni della palla a spicchi, tra Stati Uniti, Europa e Italia, dai campetti di periferia alle luci delle arene sommerse dal tifo. Scorrendo le pagine del libro troverete storie di sport e di vita memorabili, di talenti in cerca di riscatto e di “scivolate” fuori dal parquet, spesso accompagnate da vivaci battaglie contro la discriminazione razziale o dai facili eccessi milionari della Nba, grazie alle quali si racconta la crescita e il cambiamento della disciplina, non solo in America. Un racconto entusiasmante di uomini, non solo atleti, come Larry Bird, Michael Jordan, Kobe Bryant, delle loro gesta, del loro pensiero, dei loro capricci e talento, fragilità e orgoglio, i colpi di genio in campo e le battaglie personali. Fra colpi di scena, sfide all'ultimo secondo e record imbattibili, un viaggio nel basket in compagnia dei giganti afroamericani e dei gioielli dell'Est Europa, con adeguato spazio dedicato ai fenomeni di casa nostra. Da Bill Russel a Lebron James, da Drazen Petrovic a Dino Meneghin, tutti con una storia diversa, tutte leggende della pallacanestro
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita28 feb 2020
ISBN9788836160167
Le leggende del basket: Storie e gesta degli eroi della pallacanestro

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    Anteprima del libro

    Le leggende del basket - Giulio Mola

    Introduzione

    Un secolo di pallacanestro. Sia chiaro, nessuna pretesa di scrivere un’enciclopedia sul pallone a spicchi o un manuale di tecnica del basket (ci vorrebbe il quadruplo del cartaceo per non dimenticare nessuno), ma solo il piacere di raccontare, in tutte le sue piccole e grandi sfumature, l’evoluzione di questo sport negli anni, in Europa e soprattutto oltreoceano. E quindi i personaggi (uomini, non solo atleti), le loro gesta, il loro pensiero. Capricci e talento, fragilità e orgoglio. I colpi di genio in campo e le… scivolate fuori dal parquet. Illusioni e delusioni che si intrecciano con le fantastiche imprese di caratteri più o meno ribelli tanto dei campioni quanto dei gregari. Utilissimi, questi ultimi, e spesso decisivi come i primi.

    Storie di basket ma anche di vita, drammi e psicodrammi umani (non solo sportivi), dualismi, ripicche e gelosie di presunte primedonne con i riflettori puntati in particolar modo sul mondo Nba e le sue generazioni di mostruosi fenomeni, senza però dimenticare la preziosa vetrina con i gioielli dell’area balcanica (genio e sregolatezza, giusto per intenderci). E i grandi guru delle panchine. 

    Un lungo viaggio on the road passando fra le varie epoche, costellato di luoghi leggendari e protagonisti unici, con un semplice filo conduttore: l’amore per il basket, la passione per uno degli sport più spettacolari e seguiti al mondo, nato in una grande nazione che a fine Ottocento stava ancora cercando di costruirsi un’identità, degli eroi in cui credere. 

    Storie spesso memorabili, grazie alle quali si racconta la crescita e il cambiamento degli Stati Uniti, attraverso l’incredibile epopea di un gioco nato sui campetti e assurto alla gloria stellare della Nba. Dopo i licei di Kobe Bryant e Wilt Chamberlain, l’infanzia difficile di Bill Russell e le rivalità universitarie più nobili d’America. Fino ad indimenticabili leggende come Magic Johnson e Larry Bird. Prima di Messi e Cristiano Ronaldo erano gli sportivi più famosi del pianeta, quelli che facevano vendere le maglie con il loro nome e il loro numero e le scarpe che indossavano sul parquet. Il basket erano loro e agli inizi degli anni Ottanta anche l’Italia se ne accorse, grazie alle telecronache di Dan Peterson, che fecero conoscere a tutti lo Showtime dei Los Angeles Lakers e il gioco sobrio ed efficace dei Boston Celtics. Rivali fin dai tempi del college, poi nemici, infine amici (ma sempre rivali), protagonisti del grande circo del basket con i vari Kareem Abdul-Jabbar, Doctor J e Michael Jordan. Coloro che hanno anticipato i fuoriclasse del XXI secolo, come Allen Iverson, bandiera dei 76ers, forse il più grande giocatore della storia Nba se rapportato alla sua altezza (180 centimetri generosi). Lottatore, ribelle, spirito indomabile nato da un’infanzia difficile. Oppure Shaquille O’Neal, raro esempio di cestista che trascende lo sport grazie alla straripante personalità, di sicuro il giocatore che passerà alla storia della pallacanestro come uno dei centri più devastanti di sempre e fra i più difficili da marcare della sua era.

    Scorrendo le pagine del libro troverete la narrazione di tante sfide universitarie e imprese sportive, spesso accompagnate da vivaci battaglie per i diritti umani o lotta alla discriminazione nei periodi delle migrazioni di massa. Perché tanti giocatori, soprattutto di colore, sono nati nella povertà assoluta e hanno dovuto saltare gli ostacoli della vita prima di raggiungere grandi palcoscenici e diventare campioni.

    Il libro è un susseguirsi di emozioni e statistiche, di aneddoti e colpi di scena, di dispetti e scaramanzie. Fra lacrime di gioia, rimpianti e record imbattibili. Ci sono giganti di colore e mani caldissime dell’est Europa, con adeguato spazio dedicato ai fenomeni di casa nostra, come Dino Meneghin (del quale l’Olimpia Milano ha appena ritirato la mitica numero 11).

    Tutti con una storia diversa, tutte Leggende della pallacanestro.

    GEORGE MIKAN

    Il pioniere della Nba

    Se c’è un campione con cui la Lega professionistica americana riuscì a identificarsi nell’immediato dopoguerra, questo è certamente il centro George Mikan, vincitore di cinque titoli Nba nei primi anni Cinquanta con la maglia dei Minneapolis Lakers, antica dinastia del pianeta basket.

    Mikan, nato a Joliet, nell’Illinois, il 18 giugno 1924, ebbe il merito di sfruttare nel migliore dei modi le sue enormi potenzialità fisiche: un gigante di 208 centimetri con una massa muscolare di 111 chilogrammi per emergere in una disciplina che, strano a credersi, all’epoca era considerata più adatta ai giocatori di media statura, ritenendo i colossi del calibro di Mikan più adatti a sport di estremo contatto, quali il pugilato e la lotta, in quanto poco agili e sgraziati nei movimenti che il basket viceversa imponeva.

    Logiche e considerazioni cui non sfuggiva neppure il nostro George, il quale, oltretutto, scontava anche una leggera zoppia derivante da un grave incidente a un ginocchio subìto da ragazzo che lo costrinse al riposo forzato per oltre un anno e mezzo, con la conseguente esclusione dalla squadra di basket del proprio liceo prima e dall’Università di Notre Dame poi. Proprio quest’ultima circostanza lo convinse a ripiegare sulla DePaul University, dove incontrò colui che avrebbe dato una svolta alla propria carriera da giocatore.

    Fu infatti il coach Ray Meyer il primo ad accorgersi delle enormi potenzialità di quel ragazzo intelligente e dal fisico tostissimo, ma ancora troppo timido e maldestro nell’esecuzione dei fondamentali, sottoponendolo a dure sedute di allenamento per migliorarne la tecnica di tiro e l’abilità a rimbalzo. In pochi mesi, di fatto, Mikan venne trasformato in un giocatore aggressivo e convinto dei propri mezzi, orgoglioso della sua altezza e non più imbarazzato dalla propria miopia che lo portava a gareggiare con gli occhiali (cosa da cui avrebbe potuto trarre indubbio vantaggio).

    Unendo agli insegnamenti, dopo lunghe sedute sul parquet, anche esercizi tipici del pugilato, lezioni di ballo e salto della corda per migliorarne il più possibile l’agilità e insistendo sui fondamentali affinché fosse in grado di eseguire ganci a canestro con entrambe le mani, Meyer riuscì a costruire un centro dalle potenzialità devastanti, capace di dominare il panorama universitario nel 1944 e nel 1945 e concludere in entrambi i casi quale Top Scorer, con medie rispettivamente di 23,9 e 23,1 punti a partita.

    L’apice al National Invitation Tournament del 1945, che la DePaul si aggiudicò con incredibile facilità: in quell’occasione Mikan venne votato come Mvp (Most Valuable Player, miglior atleta) della rassegna in forza dei 120 punti realizzati nelle tre gare disputate, tra cui spiccano i 53 centri nella semifinale (gli stessi realizzati in totale dagli avversari, visto che l’incontro si concluse sul 97-53).

    Con la propria maglia numero 99, ritirata dalla DePaul University, per Mikan si spalancava finalmente la porta del basket professionistico, in cui entrava nell’estate 1946 firmando per i Chicago American Gears dell’allora denominata National Basketball League, con un impatto alquanto positivo per un esordiente (media di 16,5 punti a partita, incrementata a 19,7 nelle tre gare di playoff che consegnarono il titolo alla squadra di Chicago).

    Mikan bissò il successo anche l’anno successivo, quando però era già passato ai Minneapolis Lakers in modo piuttosto rocambolesco, dato che a Maurice White, proprietario dei Gears, venne in mente l’idea di costituire una propria Lega dal nome altisonante (Professional Basketball League of America), progetto che naufragherà dopo appena un mese con la conseguenza che i suoi giocatori vennero ripartiti tra le altre undici franchigie della NBL, e destino volle che a beneficiare delle prestazioni di Mikan fosse il Club di Minneapolis.

    Indossando la maglietta della Società del Minnesota, Mikan ebbe l’occasione di dividere i compiti in attacco con l’ala grande Jim Pollard, formando un duo devastante che consentì al potente centro di chiudere la regular season con 21,3 punti di media, per poi migliorare, al solito, il proprio livello realizzativo alla quota di 24,4 nei playoff, terminati con il successo per 3-1 sui Rochester Royals.

    L’anno seguente, un’altra scissione avviene all’interno del basket a stelle e strisce, con le franchigie di Minneapolis, Rochester, Fort Wayne e Indianapolis che andarono a formare, assieme alle corrispettive di New York, Boston, Philadelphia e Chicago, la Basketball Association of America (BAA) la quale, a distanza di un anno, inglobò anche le restanti compagini della NBL per dar vita all’attuale Nba.

    Per Mikan nulla cambiava, visto che continuava a imperversare sotto canestro, concludendo la stagione regolare con 28,3 punti di media, pur se i Lakers registravano il secondo miglior record della Lega (44-16) preceduti per una sola vittoria dai Rochester Royals. Questi ultimi vennero però eliminati nei playoff (2-0) grazie al successo di misura (80-79) colto in gara-uno sul parquet avversario, dove Mikan risultò devastante con i suoi 32 punti, cui seguirono i 31 di gara-due in cui i Lakers non ebbero difficoltà a piegare 67-55 la resistenza dei Royals e accedere così alla Finale per il titolo contro i Washington Capitols, al tempo allenato da un certo Red Auerbach che farà la storia di questo sport con i Boston Celtics.

    La serie, al meglio delle sette gare, si aprì con due successi casalinghi per Minneapolis che poi espugnò anche il parquet avversario in gara-tre portandosi ad un passo dal titolo. Ma in gara-quattro, proprio Mikan si ruppe il polso, consentendo ai Capitols di ridurre lo svantaggio assicurandosi i successivi incontri casalinghi e quindi tornare a Minneapolis per gara-sei dove Mikan, sceso in campo con un’abbondante fasciatura alla mano, si confermò ancor più devastante con i suoi 29 punti per il 77-56 finale che consegnò ai Lakers il secondo titolo consecutivo.

    Ormai Mikan è una leggenda, e anche nei primi anni Cinquanta non fece altro che confermare la sua indiscussa supremazia nel panorama del basket americano, tanto che per limitarne il dominio sotto canestro la Nba decise di raddoppiare le dimensioni dell’area dei tre secondi al fine di tenerlo il più possibile lontano dal canestro. Ma ciò che ne accrebbe ancor più la popolarità, esaltando il suo strapotere sul parquet, fu la geniale trovata dei proprietari del Madison Square Garden di New York che, prima di una gara contro i Lakers, esposero la classica insegna luminosa tipica degli impianti americani riportando la scritta «New York Knickerbockers vs. George Mikan».

    Dopo che finalmente si stabilizzò la situazione a livello federale con la creazione della Nba (National Basketball Association), la stagione inaugurale della nuova Lega vide Minneapolis e Rochester concludere a braccetto la regular season con il medesimo, impressionante record di 51-17, e Mikan guidare ancora da par suo la classifica dei realizzatori con 27,4 punti di media a partita, con un record di 51 punti nella gara, peraltro persa per 77-83, in casa dei Royals.

    Mentre Rochester cadeva a sorpresa nel primo turno dei playoff di fronte a Fort Wayne, Minneapolis si presentava esente da sconfitte all’appuntamento con la serie per il titolo contro i Syracuse Nationals, i quali partivano con il vantaggio del fattore campo avendo concluso la stagione regolare con un record di 51-13: primato oscurato dal successo dei Lakers in gara-uno per 68-66 grazie a un’altra straordinaria prestazione di Mikan che, con i suoi 37 punti messi a referto, realizzava, come di consueto, più della metà dei punti per la propria squadra, per poi mettere il sigillo al primo titolo Nba della storia con i suoi 40 punti nel 110-95 di gara-sei che conclude la contesa.

    E se Mikan continuava a giganteggiare sotto canestro, tanto che nel successivo torneo 1950-1951 arrivò a toccare la media di 28,4 punti a partita (la più alta per singola stagione in carriera), per una volta toccò ai Royals avere l’ultima parola: Minneapolis perse 3-1 nella finale della Western Division, nonostante l’immensa prestazione di George, ultimo ad arrendersi con i 32 punti messi a segno nella decisiva gara-quattro. Rochester festeggiò l’unico titolo della sua storia, superando 4-3 in finale i New York Knicks.

    Mai però sottovalutare l’orgoglio di un campione ferito. E anche se dalla successiva stagione la Nba introdusse la già ricordata variazione del limite dell’area sotto canestro, portandolo da sei a dodici piedi, la sostanza non cambiò. Nonostante la media punti di Mikan andasse (ovviamente) calando, i suoi Lakers inanellarono un tris di titoli consecutivi dal 1952 al 1954.

    E, visto che dalla stagione precedente la Nba aveva iniziato a registrare anche le statistiche dei rimbalzi, se Mikan di fatto perdeva la leadership come realizzatore (nel 1952 la classifica premiò Paul Arizin dei Philadelphia Warriors con 25,4 punti di media rispetto ai 23,8 dell’occhialuto centro di Minneapolis) lo stesso si affermava nella graduatoria dei rimbalzisti, portandone a casa 13,5 di media a partita, e confermando detta superiorità anche nel 1953 con 14,4. Statistiche che servono a comprendere lo spessore del personaggio.

    Ma torniamo alle vicende sul parquet, che vedono i Lakers, nel 1952-53, dopo aver chiuso la stagione regolare con un record di 40-26, prendersi una ghiotta rivincita contro i Royals nella finale della Western Division, restituendo loro il 3-1 subito l’anno prima, per poi affrontare per il titolo proprio i New York Knicks, il cui coach era stato il promotore di quella che in America venne ribattezzata come la Mikan Rule (la regola Mikan) per cercare di limitarne il rendimento sotto la retina.

    La serie è di quelle che passano alla storia, conclusa solo nella decisiva gara-sette dopo che New York, affermandosi per 80-72 in gara-due a Minneapolis, aveva portato a proprio favore il fattore campo, salvo perderlo immediatamente quando furono i Lakers ad espugnare il Madison Square Garden per 82-77 in gara-tre.

    Con Mikan leader quanto a rimbalzi in tutti e sette gli incontri disputati, la sfida conclusiva si risolse in un trionfo per i Lakers che dominarono la gara, con il loro centro in grado di mettere a referto 22 punti e 19 rimbalzi per un 82-65 che riportò Minneapolis ai vertici della Nba.

    Fatto intendere a Joe Lapchick, coach di New York, che non poteva essere una variazione regolamentare a ridurre la devastante impronta che Mikan aveva oramai impresso in quello sport che, anche grazie a lui, stava sempre più prendendo piede negli States, non ci fu occasione migliore per ribadire il concetto quando le due squadre si ritrovarono nuovamente di fronte per le finali del 1953.

    Stavolta per i Lakers sembrò quasi di giocare come il gatto fa con il topo: vero, concesse agli avversari di sorprenderli in casa in gara-uno per 96-88 salvo poi, dopo aver pareggiato i conti in gara-due, prendersi la soddisfazione di espugnare il Madison Square Garden con tre successi consecutivi. Mikan fu grande protagonista, in particolare nella gara-quattro che risultò essere quella decisiva: 27 punti nel 71-69 finale. Mentre nel 91-84 di gara-cinque che chiuse la sfida sul 4-1 per Minneapolis il gigante buono si concesse un turno di riposo con appena 14 punti a referto.

    Con il peso degli anni che iniziava a farsi sentire per il quasi trentenne Mikan, la stagione 1953-1954 vide comunque Minneapolis realizzare il miglior record in regular season con 46-26, anche se la media realizzativa del suo poderoso centro scese per l’unica volta al di sotto dei 20 punti, attestandosi a quota 18,1. Ma all’orizzonte ecco un’altra epica sfida, la finale per il titolo proprio contro quei Syracuse Nationals contro cui, nel 1950, si era inaugurata la prima stagione Nba.

    Una serie durissima, in cui il fattore campo saltò come i tappi di spumante a Capodanno, e che vide Syracuse espugnare Minneapolis in gara-due per portarsi sull’1-1 solo per spronare Mikan a dare il meglio di se stesso nella successiva gara-tre, in cui i suoi 30 punti risultarono determinanti nel successo per 81-67 che riportò l’inerzia della serie a favore dei Lakers. I quali, dopo aver vinto anche gara-cinque sul parquet degli avversari portandosi sul 3-2 e con le ultime due sfide davanti al pubblico amico, persero in gara-sei per 63-65 nonostante Mikan giocasse praticamente da solo, con i suoi 30 punti realizzati, rimandando i festeggiamenti a gara-sette in cui la parte del leone, una volta tanto, la fece il collettivo di squadra.

    Per il ragazzo timido, introverso e maldestro che aveva varcato la soglia della DePaul University dieci anni prima, fu comunque la definitiva consacrazione attraverso un percorso che apriva una strada nuova nel basket professionistico e che troverà negli anni altri campioni di successo cresciuti sulla sua scia.

    BOB COUSY

    Il mago del parquet dagli undici anelli

    Il primo pilastro della più grande dinastia che abbia mai calcato un parquet Nba. Un innovatore, un genio della pallacanestro, un idolo incontrastato. Questa è la storia di Bob Cousy, anima dei Celtics più vincenti di sempre.

    Nel film Blue Chips, uscito nel 1994 sotto la regia di William Friedkin, c’è un’indimenticabile scena in cui l’anziano assistant coach Vic Roker parla in palestra con il protagonista, Pete Bell. Cento secondi di dialogo, durante il quale Bell si sfoga con il suo amico e vice, mostrandogli tutte le sue frustrazioni per le vittorie che non arrivano più, mentre Vic tira a canestro dalla linea della carità.

    Ci vogliono sei liberi consecutivi andati a segno prima che Bell chieda «Don’t you ever miss?» Per tutta risposta Vic ridacchia, dice che «It’s the idea of the game, put the ball into the hole». E infila un altro libero. Poi mette nella retina anche l’ottavo, costringendo Bell a chiedergli di sbagliarne almeno uno. Niente da fare: Vic segna anche il nono, e tira il decimo con la sinistra. C’è bisogno di dirlo? Ciuff, canestro. E Bell che, ridendo, recupera la palla e prorompe in un «You can’t even miss left handed!» Scena realizzata in un unico ciak. Vic era interpretato da un uomo canuto, con grossi occhiali. Vale a dire Bob Cousy, che in quei dieci liberi consecutivi ha disegnato il paradigma di tutta una carriera.

    Anno del Signore 1928, siamo sull’Isola di Manhattan, New York City. Qui il poverissimo Joseph Cousy, immigrato francese da poco giunto negli Stati Uniti, tenta di guadagnarsi da vivere scarrozzando per la Big Apple, a bordo del suo yellow cab, americani pettinati e ben vestiti. Aveva vissuto il dramma della Prima guerra mondiale, il signor Joseph; e aveva perso anche la moglie, morta per una polmonite. Nella sfortuna che lo aveva perseguitato, però, c’era un lampo di luce: si chiamava Julie Corlet ed era una maestra di francese originaria di Digione. Sarebbe diventata la seconda sposa di Cousy senior. A Yorkville, dalle parti dell’East Side, cercarono di riprendersi insieme tutto quello che avevano perso in passato. L’oscura esistenza è un ricordo, Joseph sa che diventerà padre e che quel bambino sarà un maschio, sa che quel bambino gli darà infinite soddisfazioni.

    Il piccolo nasce il 9 agosto e Joseph e Julie decidono di chiamarlo Robert. Una grande gioia nel momento più difficile, con il crollo della borsa di Wall Street e una crisi economica senza precedenti. Inizia la Grande depressione. Una vita dura, ma pur sempre vita, rischiarata da quel bambino che cresce sano, anche se fino a cinque anni sa parlare solo francese, la lingua di mamma e papà. Con l’inizio della scuola Robert comincerà a imparare l’inglese e a incontrare gli altri bambini del quartiere, tutti come lui, figli di famiglie in difficoltà, di immigrati e minoranze etniche.

    Così cresce Robert, in arte Bob, con un manico di scopa in mano, a giocare a stickball (la versione homemade del baseball) con ragazzi afroamericani, ebrei, ispanici. Un’infanzia felice, nonostante le difficoltà iniziali. Nel 1940 papà Joseph versa un acconto di 500 dollari per una casa a St. Albans, sempre nel Queens, e si trasferisce di nuovo, con la famiglia al seguito. Bob ha ormai tredici anni e comincia a essere un bambino irrequieto che vuole correre, muoversi, fare sport. E un giorno, alla St. Pascal’s Elementary, incontra lo sport perfetto. Durante l’intervallo di un match di basket, mentre se ne sta a gironzolare intorno a un canestro, qualcuno gli mette un pallone in mano. Per Bob Cousy quel primo incontro con il basket si trasforma in un colpo di fulmine.

    «I had never had a basketball in my hands. Once I did, I was hooked»: con questa frase Bob Cousy descrive, anni dopo, quel faccia a faccia. Hooked, catturato dal basket fin dal primo istante. Passato alla Andrew Jackson High School di St. Albans, Bob prova subito a consumare quella storia d’amore, ma i tempi non sono maturi. È troppo presto per lui, è troppo presto per il basket. Presentatosi ai tryouts con la squadra del liceo viene infatti tagliato in modo poco gentile dal coach, ma non per questo Bob perde le speranze.

    Entra infatti nei St. Albans Lindens, una squadra giovanile della Press League, Lega di basket amatoriale sponsorizzata da un piccolo giornale, il Long Island Press. Ma nonostante l’esperienza, ai tryouts del suo secondo anno di liceo viene nuovamente scartato dalla squadra. Ce ne sarebbe abbastanza per mollare, anche perché il destino sembra mettersi di traverso: Bob cade dal ramo di un albero sul quale si era arrampicato, fratturandosi il polso destro. Un «evento fortunato», lo definisce lui. Perché l’Amore è troppo forte, e per tutta la durata della convalescenza Bob Cousy gioca a basket utilizzando la mano sinistra, divenendo praticamente ambidestro. Alla fine tanta caparbietà viene ripagata. Durante un match della Press League il coach del suo liceo lo vede e rimane impressionato: quel ragazzo sempre tagliato durante i provini è dotato, e soprattutto sa usare entrambe le mani. Il coach decide di offrirgli una chance e lo invita ad unirsi, il giorno successivo, agli allenamenti del junior varsity team della scuola, una sorta di squadra B. Quello che Bob Cousy mette in mostra il giorno successivo in palestra conferma tutte le ottime impressioni che il coach ha avuto, e così l’ingresso all’interno del JV diventa finalmente realtà.

    Dalla squadra B alla squadra A il passo è breve: all’inizio della sua stagione da junior (il terzo anno di liceo) Cousy è ormai una certezza per il coach. L’unico ostacolo che si può frapporre tra lui e il varsity team è il test di cittadinanza che deve sostenere in quanto figlio di immigrati. Bob purtroppo lo fallisce clamorosamente. Così è costretto a saltare un intero semestre di basket giocato e a unirsi al resto della squadra nel bel mezzo della stagione. Il giorno del suo esordio nell’high school basketball, Bob Cousy si presenta mettendo a referto 28 punti: mica male come biglietto da visita per uno che era stato escluso due volte dalla squadra.

    Ma la gloria arriva, improvvisa, l’anno successivo. Bob gioca su livelli eccellenti, si esprime in modo sublime sul parquet e trascina la Andrew Jackson High alla vittoria del campionato divisionale del Queens. Per farlo mette nel sacco più punti di qualsiasi altro giocatore liceale dell’area di New York City, non proprio una cittadina sperduta. Anche se giocare a basket a livello professionistico non è mai stato tra i suoi piani, in questo momento diventa il piano. L’obiettivo numero uno. E il primo passo da compiere in questo senso è la scelta del college.

    Papà Joseph e mamma Julie vorrebbero un’università cattolica, Bob desidera allontanarsi da New York perché non ha mai visto altro. Gli arriva un’offerta dal Boston College, una buonissima università, priva però, all’epoca, di dormitori. Bob non ne vuole sapere di fare la spola perciò declina gentilmente. Sembra tutto finito quando si fa avanti un’altra università, il college of the Holy Cross di Worcester, Massachusetts. Un istituto cattolico, lontano dalla Grande Mela, dotato di strutture all’avanguardia e pronto ad offrirgli una borsa di studio. Bob Cousy non ci pensa due volte e fa fagotto. Comincia così la sua nuova vita.

    È il 1946, il giovane Cousy ha solo diciotto anni, ed è uno dei sei freshman a disposizione del coach di Holy Cross, tale Alvin Doggie Julian, il convinto ideatore di un sistema di gestione del minutaggio che prevede che tutti i ragazzi del suo roster scendano in campo. Bob, in qualità freshman, viene inserito nel second team, e nonostante risulti chiaramente più talentuoso di molti dei suoi compagni, deve sottostare anche lui al rigido sistema di Julian. Il coach del resto è un tradizionalista: gli piace far giocare il basket ragionato e lento in voga all’epoca, e Bob, con tutto il suo repertorio di passaggi no-look e di palleggi behind-the-back sembra non adattarsi a un tale sistema di gioco. Cousy entra così in aperto contrasto con Julian che, nonostante tutto, ligio al suo sistema dei two-teams, lo mette sempre in campo, permettendogli di diventare, nella stagione 1946-1947, il terzo giocatore di Holy Cross per punti segnati (226).

    Meglio di lui solo le due star, George Kaftan e Joe Mullaney.

    La finale del torneo si gioca di fronte a un Madison Square Garden gremito, tra Holy Cross e Oklahoma. Kaftan ne infila 18, ma è abbastanza per vincere 58-47. Anche se Cousy ha dato un apporto minimo a quella vittoria, riceve lo stesso trattamento da eroe al ritorno a Worcester, con diecimila tifosi vocianti ad accogliere la squadra alla Union Station.

    La stagione successiva, però, la frustrazione di Cousy di fronte all’apparente disinteresse di Julian nei suoi confronti non fa che aumentare. Bob si sente le ali tarpate da quel coach che non gli dà i minuti che vorrebbe. Decide di scrivere una lettera a coach Joe Lapchick, che allena la squadra della St. John’s University, New York, dicendogli che sta considerando l’idea di trasferirsi nella sua università. Ma è lo stesso Lapchick a dissuaderlo, dicendogli che le regole Ncaa prevedono un anno di stop dopo un trasferimento, e soprattutto convincendolo che Julian è uno dei migliori coach d’America con il quale lavorare. Così Bob Cousy rimane a Holy Cross, continuando a sfiancarsi in allenamento e a passare poco tempo sul parquet. Fino al suo anno da senior. Durante una partita contro Loyola of Chicago, infatti, con il risultato in bilico a cinque minuti dalla fine, la folla di tifosi comincia a intonare un concorde «We want Cousy» al quale, infine, anche Julian deve piegarsi, facendolo scendere in campo.

    È l’Occasione, e Cousy non stecca. Segna 11 punti, tra i quali il canestro della vittoria sulla sirena, costruito dopo un palleggio dietro la schiena. Il palazzo esplode, Cousy sorride, Julian si illumina. Durante quella stagione Cousy condurrà Holy Cross ad altre 26 vittorie, che significano seed#4 (l’ingresso fra le migliori 4) al torneo Ncaa e tre titoli di All American per lui. Ma non gli riesce lo step successivo, e la sua avventura collegiale si chiude contro North Carolina State, al primo turno del torneo. Un vero peccato.

    Arriva così il momento di di spiccare il volo e scegliere il proprio futuro. Cousy si rende eleggibile per il draft Nba del 1950, dove la prima scelta appartiene ai Boston Celtics di Red Auerbach, detentori del mesto record di 22-46 nella stagione precedente. Sembra un matrimonio già scritto, quello tra l’idolo collegiale locale e la squadra biancoverde, ma Auerbach non è affatto convinto. Ritiene che Cousy sia un fuoco di paglia, pensa che la Lega sia troppo grande, dura e cattiva per lui, crede che per risollevare i destini di Boston serva tonnellaggio e non palleggio. Più forza fisica che qualità. E così Red sceglie il centro Charlie Share, tra le critiche dei tifosi che però non lo scalfiscono minimamente, se il coach arriva anche a dire «Am I supposed to win or please the local yokels?», dove yokels (bifolchi) non è esattamente un epiteto d’apprezzamento. E del resto Red non è nemmeno l’unico a pensare che Cousy sia inconsistente. Viene fuori la relazione di uno scout che lo considera inadatto alla Nba e che scrive: «The first time he tries that fancy Dan stuff in this league, they’ll cram the ball down his throat».

    Il risultato è che Bob Cousy scivola nel draft alla scelta #3, in possesso dei Tri-Cities Blackhawks, non esattamente la squadra dei sogni di ogni bambino.

    Cousy ha i suoi affari da seguire, sta cercando di inaugurare una scuola guida in quel di Worcester, e il trasferimento dalle parti di Moline, Rock Island e Davenport (queste le magnifiche Tri-Cities, sparse tra l’Illinois e l’Iowa) gli causerebbe non pochi problemi. Così il giocatore richiede un improponibile stipendio di 10.000 dollari. Ben Kerner, proprietario dei Blackhawks gliene offre 6.000 e Cousy rifiuta di presentarsi al raduno della squadra. Vista la ghiotta possibilità di accaparrarselo, i Chicago Stags avanzano allora un’offerta che Bob ritiene accettabile.

    Ma l’idillio dura poco. Perché gli Stags stanno vivendo una situazione finanziaria drammatica, e in quella stessa estate 1950 sono costretti a dichiarare bancarotta. Così tutti i loro assets, compresi il loro miglior realizzatore (Max Zaslofsky), la guardia (Andy Phillip) e ovviamente Bob Cousy finiscono in una bella asta fallimentare che la neonata Nba, nella persona del commissioner, Maurice Podoloff, ha la decenza di chiamare dispersal draft (evento che serve per riassegnare giocatori dei club che hanno abbandonato la Lega).

    All’asta si presentano i presidenti delle franchigie Nba, tra cui quello dei Celtics, Walter A. Brown, che non nasconde la sua predilezione per Zaslosfky. In alternativa si accontenterebbe di Phillip. Ma alla fine, nonostante gli scout, nonostante Auerbach, nonostante tutto, deve prendere Cousy: 9.000 dollari di stipendio, e Bob è parte della famiglia biancoverde. Nessuno si rende conto del colpaccio messo a segno dai Celtics.

    Ci vuole poco tempo, però, per capire. Brown e Auerbach sono costretti a guardare quel ragazzino che si prende sulle spalle la squadra e la trascina a un record di 39-30 nella stagione 1950-1951 prima di doversi arrendere ai New York Knicks durante i playoff. La stagione successiva, con l’arrivo di Bill Sharman ad affiancarsi a Cousy, e di Ed Macauley e Bones McKinney, i Celtics vanno ancora meglio, e così il loro leader: medie da capogiro, dai 21,7 punti ai 6,4 rimbalzi difensivi fino ai 6,7 assist. Cousy però, di nuovo, non riesce a sfatare la maledizione New York Knicks, con i bluarancio a sconfiggere i biancoverdi nei playoffplayoff del 1952. Nella stagione successiva le cose migliorano ancora: Cousy mette insieme 7,7 assist a partita, in un epoca in cui ancora non esiste lo shot clock, Auerbach inventa il suo famoso quick fastbreak e i Celtics dominano, vincendo 46 partite.

    Durante i playoff Cousy e i suoi si ritrovano di fronte i Syracuse Nationals, che vengono battuti per 2-0, con una prestazione epica in gara-due. Finisce 111-105, con quattro overtime, e un Cousy che, praticamente su una gamba sola a causa di un infortunio, mette insieme cifre del tipo: 25 punti nei primi quattro quarti, altri 6 (su 9 di squadra) nel primo overtime (compreso un certo libero che rimette in parità la partita sulla sirena), 4 su 4 nel secondo overtime e ancora 6 punti dall’astronomica distanza di 7 metri e 60, nel terzo. Altri 9 punti (su 12) Cousy li segna nel quarto e ultimo overtime, per un totale di 50 punti segnati in 66 minuti e il

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