Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le leggende della boxe: Storie di campioni dentro e fuori il ring
Le leggende della boxe: Storie di campioni dentro e fuori il ring
Le leggende della boxe: Storie di campioni dentro e fuori il ring
E-book473 pagine6 ore

Le leggende della boxe: Storie di campioni dentro e fuori il ring

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La boxe è lo sport cinematografico per eccellenza, simbolo di violenza e riscatto, dramma e trionfo. Ma è anche quello che più si addice a una raccolta di vicende reali entrate nella leggenda. Trentasei storie, ma potevano essere molte di più, di vite fuori e dentro il ring: non potevano mancare Muhammad Ali e Mike Tyson, il Buono e il Cattivo, ma anche miti di casa nostra come Primo Carnera e Nino Benvenuti. Da Jack Johnson, primo campione nero dei pesi massimi di inizio Novecento riabilitato dal presidente “amico dei bianchi” Donald Trump, a Floyd Mayweather, l’imbattuto campione mondiale di cinque categorie risultato nelle classifiche di «Forbes» lo sportivo più ricco dello scorso decennio. Per finire con Canelo Álvarez, la leggenda proiettata nel futuro. Un pugile ha sempre una storia incredibile da raccontare, e ripercorrere le vicende di questi eroi popolari, a volte maledetti, fa assumere al libro di Fausto Narducci i contorni di un vero e proprio romanzo.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita16 nov 2022
ISBN9788836162512
Le leggende della boxe: Storie di campioni dentro e fuori il ring

Correlato a Le leggende della boxe

Ebook correlati

Sport e tempo libero per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Le leggende della boxe

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le leggende della boxe - Fausto Narducci

    LEGGENDEBOXE_FRONTE.jpg

    Fausto Narducci

    Le leggende della boxe

    Storie di campioni dentro e fuori il ring

    A Daniele Redaelli,

    compagno di tante avventure pugilistiche

    che più di tutti mi ha insegnato ad amare il mondo del ring.

    Prefazione.

    di Franco Falcinelli*

    Per chi ha seguito e segue tuttora le gesta dei leggendari campioni del ring, e vuole conoscere e approfondire le vicende della loro vita sportiva e privata, il libro di Fausto Narducci è una preziosa fonte di informazioni in grado di trasmettere gli ideali e il ruolo del pugilato come palestra di vita per avere successo e per coltivare valori umani, sociali e spirituali.

    Le leggende della boxe è un’avvincente e puntuale documentazione delle affascinanti sfide dei più famosi campioni del ring, e offre agli appassionati della noble art le storie, i sogni, i successi, le delusioni, le vicissitudini e gli stili di vita che hanno accompagnato le loro memorabili imprese sportive. Aver selezionato trentasei grandi campioni nel panorama pugilistico mondiale e italiano (ricco di grandi talenti) è già una sfida che denota coraggio e fine competenza. Il ranking dei valori tecnici e spettacolari stilato da Narducci non può che essere largamente condiviso, perché i trentasei campioni hanno risultati tecnici di assoluto valore e le loro odissee fuori dal ring – i clamorosi stili di vita che in qualche caso hanno abbondantemente superato, nel bene e nel male, i meriti delle loro imprese sportive – li hanno resi comunque fuoriclasse di universale popolarità.

    La vasta risonanza mediatica li ha trasformati in icone miste di talento, sregolatezza e spesso vittime di interessi economici, sociali e anche politico-religiosi. Le motivazioni intrinseche che li hanno sostenuti, le circostanze ambientali e sociali che hanno contribuito a renderli unici, il fascino delle borse e della popolarità che ne hanno condizionato tutto l’arco esistenziale meritano una riflessione più approfondita sul fine di uno sport tanto duro quanto attraente, che spesso è reputato come una metafora della vita.

    In questo pregevole libro è evidente lo spirito di riconoscere al pugilato un ruolo educativo e formativo che consente di favorire l’inclusione sociale, l’integrazione razziale e le pari opportunità.

    Tutti coloro che salgono sul ring si mettono in gioco per crescere e migliorare la propria identità come atleta e come persona, al di là del ceto sociale, del colore della pelle e dell’appartenenza ideologica, politica e religiosa.

    Ringrazio Fausto Narducci, che considero uno dei più attenti cronisti del pugilato contemporaneo, per aver saputo coniugare, con piacevole capacità descrittiva, le vicende sportive e umane dei miti del ring, realizzando trentasei biografie di rilevante valore sportivo, culturale ed etico sociale.

    *Franco Falcinelli è stato direttore tecnico della nazionale italiana e presidente della Federazione italiana pugilato (Fpi). Già vicepresidente della Federazione pugilistica mondiale, il 30 aprile 2022 ha lasciato la carica di presidente della Eubc (European Boxing Confederation) dopo dieci anni. Attualmente è presidente onorario della Fpi ed Eubc e presidente della European Boxing Academy.

    Introduzione.

    Chiamiamola Nobel art

    Thirty-six Incredible Tales from the Ring è il sottotitolo della più celebre raccolta di racconti d’autore sulla boxe, lo sport letterario per eccellenza. In The Greatest Boxing Stories Ever Told, edito da Jeff Silverman nel 2004, troverete i cimenti pugilistici di miti della letteratura come Jack London, Sir Arthur Conan Doyle, Irvin Shaw, Dashiell Hammett, Norman Mailer e tanti altri. Per questo ho deciso di scegliere anche io trentasei leggende del pugilato: una leggenda delle leggende (Muhammad Ali), venticinque leggende straniere e dieci leggende italiane.

    Nella Prima lettera ai Corinzi (1 Cor 9, 25-27), san Paolo fa esplicito riferimento allo sport, e cita anche il pugilato. L’apostolo delle genti paragona il suo percorso di vita cristiana a un combattimento sportivo: non semplice teoria, ma regole che applica a se stesso ogni giorno. Per questo ci esorta a essere allenati, a praticare la disciplina, a essere temperati in ogni cosa.

    Io dunque corro, ma non come chi è senza meta. Faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria. Anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato.

    Un messaggio di grande modernità: «Non si può pensare di affrontare un combattimento sportivo, in particolare nel pugilato, senza allenamento… Eppure sono fermamente convinto che nella nostra vita spirituale non ci preoccupiamo quasi mai di andare in palestra ad allenarci» (cfr. G. Marinuzzi, Meditazioni bibliche, Cristianiinnole.it).

    Dunque, la boxe ha radici antiche e profonde, addirittura bibliche, tanto da essere citata nel Nuovo Testamento, e smentisce i luoghi comuni che la considerano un’attività violenta, riservata alle categorie più disagiate della società. Chi pratica il pugilato è una persona ben diversa rispetto ai protagonisti di episodi di aggressione nelle cronache di tutti i giorni, che impropriamente tanti organi di informazione definiscono pugili. Non basta tirare un pugno per strada per essere un pugile. «Io non ho niente da riscattare» è la risposta più frequente che sentirete da un pugile quando cercate di scavare nel suo passato: proviamo a considerare la boxe semplicemente una disciplina sportiva, l’unica a cui può essere aggiunta la definizione di noble art per il valore artistico del gesto. Rino Tommasi – che è stato uno dei più grandi organizzatori pugilistici italiani, prima di diventare il maestro del giornalismo sportivo (tennis e pugilato) che tutti conosciamo – ha partorito la più lucida definizione riguardo gli effetti benefici del pugilato: «Sono più quelli che il pugilato ha salvato dalla rovina, di quelli che il pugilato ha rovinato».

    Certo non si può dire che la boxe di oggi non sia in crisi, al punto che rischia di sparire dal panorama olimpico dopo i Giochi di Parigi 2024. Ma, a giudicare dagli investimenti economici – che permettono ad alcuni pugili di svettare nelle classifiche degli sportivi più ricchi del mondo elaborate ogni anno dal magazine Forbes – e anche dagli ascolti sulle tv a pagamento di tutto il mondo, la boxe rimane ancora una sport popolare. Non è giustificato dire che sopravviva solo nella sua dimensione letteraria e cinematografica, ma è sicuramente vero che è la disciplina più premiata con gli Oscar di Hollywood e con i premi Nobel per la scrittura. Eppure ci voleva Bob Dylan, il più grande menestrello del rock e attivissimo praticante del pugilato – a cui ha dedicato la celebre Hurricane – per sdoganare il valore letterario della boxe, dopo il suo Nobel per la letteratura del 2016.

    Sostenevano un po’ audacemente Arthur Cravan ed Ernest Hemingway che «la prima condizione per un artista è battersi sul ring». La boxe è stata sicuramente la disciplina più decantata dagli scrittori, e alcuni di essi sono arrivati anche al premio Nobel, istituito nel 1901. Non ci arrivarono i boxofili George Bernard Shaw, Arthur Conan Doyle e neanche Jack London, che era stato un vero interprete e reporter di pugilato ma, nelle sei storie che gli dedicò (spiccano A Piece of Steak e The Mexican), non ottenne grandi riconoscimenti. Non meritò il Nobel neanche l’inglese Arthur Cravan (1887-1918), grande ispiratore del dadaismo e autonominatosi poeta e pugile quando, nel 1916, nella Plaza Monumental di Barcellona sfidò sul ring Jack Johnson, primo nero campione mondiale dei massimi. Il primo a sfiorare il Nobel fu Vladimir Nabokov, ispiratosi al padre pugile e all’odore dei guantoni in alcune sue opere, ma nel 1974 fu battuto da due svedesi che giocavano in casa.

    Così, per il primo premio Nobel della letteratura ispirato dalla boxe dobbiamo arrivare al 1911, quando il prestigioso riconoscimento fu vinto dal belga Maurice Maeterlinck, autore del saggio Praise of Boxing. Secondo le sue teorie darwiniane, la boxe era – metaforicamente – l’unica forma di combattimento per salvaguardare la specie umana. Ma il massimo dell’esaltazione fu raggiunto dall’austriaco Robert Musil, arrivato alle nomination per il Nobel negli anni Trenta, che considerava lo sport che lui stesso praticava una specie di teologia, capace di sostituirsi alla religione. Nel dopoguerra, la boxe è stata cantata da grandi autori come Joyce Carol Oates, Gerald Early e Vernon Scannell, ma a raggiungere il Nobel fu William Faulkner (1897-1962) che si sentiva debitore della boxing narrative del Fronte popolare degli anni Trenta, e compare mentre fuma la pipa su un modello di pantaloncini pugilistici venduti online. Siamo arrivati a Francis Scott Fitzgerald, l’autore de Il Grande Gatsby, che fu arbitro della sfida pugilistica più letteraria fra Ernest Hemingway e il canadese Morley Callaghan. Sull’esito del match, tenutosi nel 1929 a Parigi e disputato perché il premio Nobel americano aveva disapprovato un racconto pugilistico dell’ex amico, esistono varie versioni: quella più accreditata attribuisce la vittoria al più giovane Callaghan per k.o. al secondo round sul sanguinante Hemingway. Ma oggi, quando si parla di boxe e letteratura, non si può che pensare al grande Ernest, anche se in Per chi suona la campana non pensava esattamente al gong del ring. È evidente che nessun altro sport ha un coté letterario come quello della boxe. Aggiungo che anche il celebre giallista Ellery Queen ha dedicato alla boxe capolavori del mistery come The Adventure of the Sunday Punch (1947) e A Matter of Seconds (1953), per non parlare dei fumetti e delle canzoni come Carmine degli Avion Travel. Tutte le arti si sono cimentate col pugilato.

    I criteri del libro

    Non ho nessuna pretesa di avvicinarmi a questi modelli letterari ma, da giornalista che ha dedicato alla boxe quarant’anni di «Gazzetta dello Sport», devo ammettere che, mentre mi addentravo nelle carriere leggendarie dei suoi interpreti, la noble art mi è sembrata molto vicina a una Nobel art. Come è immaginabile in uno sport ultracentenario, non è stato facile scegliere venticinque super-campioni stranieri e dieci italiani da aggiungere alla leggenda delle leggende, Muhammad Ali. Ogni criterio sarebbe stato opinabile, ma io mi sono affidato a poche linee guida: il valore e la mia personale familiarità con i personaggi, quello che nel pugilato si chiama record (cioè i match disputati e i titoli conquistati) e la distribuzione temporale. Avrebbe sicuramente meritato di esserci Thomas Hearns, uno dei Fabolous Four degli anni Ottanta-Novanta, che è stato escluso semplicemente perché di lui si parla già molto nei ritratti di Duran, Hagler e Leonard. Così come scegliere solo uno dei pesi massimi dell’epoca più recente (Tyson Fury il migliore) avrebbe fatto torto agli altri: per l’epoca attuale ho preferito puntare su Canelo Álvarez. Anche le donne, che ormai hanno raggiunto pari dignità con gli uomini, meritano una trattazione a parte.

    Tanti campioni mancano, molti altri avrebbero meritato, ma si tratta di scelte personali che – soprattutto nel caso degli italiani – voglio spiegare: ho considerato innanzitutto i quattro italiani (Benvenuti, Oliva, Stecca e Parisi) che hanno conquistato sia il titolo olimpico sia quello mondiale professionistico, e poi l’importanza delle corone. Sostanzialmente, a livello italiano mi sono fermato a Giovanni Parisi, tralasciando il pugilato delle ultime decadi. I campioni più recenti potranno essere oggetto di una nuova trattazione. Ovviamente si potevano fare scelte diverse e le critiche non mancheranno. Riguardo all’impostazione ho cercato di inquadrare innanzitutto la collocazione di ogni pugile nella gerarchia della categoria, ma ne ho voluto raccontare sempre anche la storia pugilistica e le origini perché è da lì che si può capire la dedizione a uno sport fatto di sacrifici indicibili. Ci sono tante assenze che giustificherebbero una seconda puntata della serie. Cito cinque nomi in rappresentanza di tutti gli esclusi dell’epoca d’oro: Vito Antuofermo, Ray "Boom Boom" Mancini, Vinny Pazienza, Rocky Mattioli e Sumbu Kalambay.

    Da frequentatore dell’ambiente pugilistico, non potevano mancare le mie esperienze personali all’interno delle trentasei biografie. Tranne Carnera, ho conosciuto da vicino tutti i pugili italiani che ho descritto, quelli stranieri ho cominciato a seguirli in trasferta dai primi anni Ottanta in poi. Per me è stato un bellissimo viaggio nel passato, ma anche nel futuro, sperando che questa galleria di figure nobili possa aiutare i lettori a capire il valore di una disciplina oggi ingiustamente deprezzata.

    La legenda delle leggende

    Alcuni termini e definizioni vanno spiegate. Nelle classifiche c’è un modo originale per definire quelle che riguardano tutte le categorie di peso: pound per pound. Nei verdetti spiccano due definizioni: split decision, quando i tre giudici hanno visto vincitori diversi (vince chi ha avuto due cartellini favorevoli) e majority decision, quando uno dei tre giudici ha visto il pari (vince anche qui chi ha avuto due cartellini favorevoli). Soprattutto in America, la boxe è spesso trasmessa in pay-per-view, un sistema di pagamento delle televisioni per singolo evento. Nc ("No Contest) è il risultato che considera un incontro non avvenuto a causa di abbandoni e squalifiche contemporanei, scarsa combattività, verdetti dubbi o fatti accidentali. «Boxrec» non inserisce nel record i No Contest: io li ho inseriti come tali, seguendo le consuetudini italiane. Il k.o. (knock out) è il fuori combattimento definitivo decretato dall’arbitro, ma va distinto dal knock down", che è il semplice atterramento dal quale il pugile si è poi rialzato. Il verdetto può essere per ferita, abbandono, getto della spugna, ma si tende ad assimilare tutto nel k.o. tecnico.

    Per risultati e classifiche ho seguito principalmente il sito «Boxrec», che è il portale di boxe più riconosciuto in tutto il mondo. Fra i compilatori di classifiche ho privilegiato Rino Tommasi per l’Italia e Bert Sugar per il resto del mondo. Ma sono particolarmente grato a Giuseppe Ballarati che, con la sua Bibbia del pugilato – sia Campioni del passato sia le edizioni annuali fino al 1994 – è stato il più autorevole catalogatore di risultati e record a livello mondiale prima dell’avvento di internet.

    Parte prima.

    La leggenda delle leggende

    Muhammad Ali.

    Nessuno come lui

    All’anagrafe: Cassius Marcellus Clay

    Soprannome: The Greatest (il Più grande)

    Nato a Louisville (Usa), il 17 gennaio 1942

    Morto a Scottsdale (Usa), il 3 giugno 2016

    Record: 56+ 5-

    Olimpiadi: oro mediomassimi Roma 1960

    Campione mondiale massimi Wba 1964-1965

    Campione mondiale massimi Wbc 1964-1967

    Campione mondiale massimi Wba 1967-1967

    Campione mondiale massimi Wbc-Wba 1974-1978

    Campione mondiale massimi Wba 1978-1979

    La leggenda delle leggende: non solo nella boxe e non solo nello sport. Muhammad Ali è sinonimo di mito, la prova tangibile che alcuni uomini non trascorrono l’esistenza terrena invano, rappresentazione della memoria che conserviamo di alcuni avvenimenti del passato, metafora dello sport che si fa sogno. Lo stile di Ali-pugile, il campione universale che sapeva irretire gli avversari più con lo sguardo che con i pugni, ha scandito il tempo sul ring e ne ha cambiato la storia. L’esempio di Ali-pugile ha influenzato le scelte di capi di Stato e magnati della finanza, ma anche di uomini umili che si ispirano a lui nella vita di tutti i giorni.

    Quando il mondo si trova a compilare la classifica delle grandi emozioni del XX secolo, si ricorre a uno dei suoi due nomi (Cassius Clay e Muhammad Ali), al fermo immagine della sua mano – prima devastante e poi tremolante – che ha rappresentato prima la forza e poi la paura dell’uomo di fronte al mistero infinito della vita.

    Quando si tratta di scegliere una foto simbolo, il poster che possa incorniciare la nostra vita di appassionati di sport sulle pareti di casa, non si può prescindere dallo scatto che immortalò l’atterramento inflitto da Muhammad Ali a Sonny Liston nella rivincita del Mondiale dei massimi del 25 maggio 1965 a Lewiston. Quel gesto, entrato nella galleria dei momenti immortali dello sport come il pugno fantasma, fu consegnato ai posteri da un fotografo dilettante di ventidue anni, Neil Leifer, che per caso si trovava con la sua Rolleiflex dalla visuale migliore del ring, dalla parte giusta dalla storia.

    Nell’aprile 2021 – per celebrare i 125 anni della «Gazzetta dello Sport» – ho intervistato quello che oggi, a quasi ottant’anni, è riconosciuto da tutti come il più famoso fotografo sportivo vivente, autore di 170 copertine per «Sports Illustrated» e 40 per «Times Magazine». Lui stesso mi ha raccontato al telefono come anche la fotografia sportiva abbia vissuto nella luce riflessa di Ali: Leifer, mito della fotografia, vive nel mito di un pugile. Questo può succedere solo con Muhammad Ali.

    E c’è anche un mito nel mito, il match più famoso della storia, The Rumble in the Jungle, immortalato dal film premio Oscar When We Were Kings (Quando eravamo re). Nel 1974, a Kinshasa, in nome di Ali si scatenò l’urlo ancestrale Ali, boma ye che, davanti al dittatore Mobutu Sese Seko, accompagnò alla sconfitta, come una litania, George Foreman. Con una sapiente narrazione a uso della folla, Ali fece credere che il campione nero fosse in realtà un amico dei bianchi e lui, nel ruolo di ex schiavo africano, il simbolo di un continente. Ali, in tempi diversi da quelli di oggi, fu il primo a sdoganare il concetto stesso di islamismo, la rivoluzione spirituale da lui maturata nel freddo del 1961 in una chiesa di Miami, ma rivelata solo dopo la conquista del primo titolo mondiale con Liston. Non c’è dubbio che, per la diffusione della parola di Allah nel mondo, l’esempio di Ali abbia avuto un’influenza pari a quella di Malcom X (almeno in certi ambienti). Ma in realtà, Ali sdoganò anche il concetto di uomo libero, la possibilità che un campione dell’America belligerante degli anni Sessanta potesse dire no alla guerra, a prezzo della sua libertà personale.

    Il campione del secolo

    L’uomo che volava come una farfalla e pungeva come un’ape, rinchiuso nell’involucro invisibile di una malattia che aveva commosso il mondo, vinse nel 2016 il referendum redazionale della «Gazzetta» sul più grande campione dei 120 anni di storia del più letto quotidiano d’Italia, battendo in finale nientemeno che Maradona: la boxe che batte il calcio, mai visto.

    Un ricordo che si fa angoscia se pensiamo a quel brusco risveglio di sei anni fa, quell’alba italiana del 3 giugno 2016 sferzata dal dolore per le notizie che arrivavano dall’America: alle 21.10 locali (le 6.10 italiane) nei dintorni di Phoenix (Arizona) si era spenta a settantaquattro anni l’esistenza di Muhammad Ali, semplicemente Il più grande di tutti i tempi. Il più grande di cosa? Ed è qui che ogni spiegazione diventa restrittiva, visto che neanche lo stesso Ali riusciva a immaginare la dimensione di quell’appellativo (The Greatest) con cui si autodefiniva. L’acronimo che lo stesso ex pugile aveva riportato sulla targa della porta del suo ultimo ufficio divenne di colpo, in quel tragico 3 giugno, una tragica epigrafe: Goat, Greatest of all Time, nelle intenzioni del suo ideatore era però l’equivalente della parola capra (appunto, goat in inglese) e un richiamo al suo Dio musulmano. «Io, nell’universo, ho l’importanza di una capra»: sorrideva pronunciando quella parola, che lo metteva a confronto col gradino più alto dell’universo, Dio, ma anche con quello più basso del regno animale, la capra.

    Il mio Ali italiano

    Personalmente ho dedicato a Muhammad Ali due libri, due volumi illustrati, interventi e articoli. È stato il mio più importante compagno di viaggio nella professione giornalistica, fin da quando ebbi la fortuna di intervistarlo per la prima volta in una circostanza che mi è servita da insegnamento per tutta la vita. L’occasione fu la terza sfida mondiale fra Ray Sugar Leonard e Roberto Duran, il 7 dicembre 1989 al Mirage di Las Vegas, e il mio difetto l’inesperienza. Quando scoprii che il clan del Più grande era sbarcato nel mio stesso albergo per un giro promozionale in sostegno dell’amico Leonard, giocai le mie carte. Dal telefono della mia camera – all’epoca le regole della privacy erano meno restrittive di oggi – chiamai il centralino per farmi passare il fotografo-ombra di Ali, Howard Bingham. Ma nel fissare l’appuntamento per l’intervista, preso dall’emozione, commisi il più grave errore professionale della mia carriera, dicendo: «Vorrei parlare con Cassius Clay». Come è noto, questo era il nome con cui il re del pugilato aveva conquistato l’oro olimpico a Roma 1960, ma che poi aveva rinnegato dopo la conquista del primo Mondiale professionistico. La risposta dall’altro capo del telefono mi gelò, anche perché scoprii che il fotografo era balbuziente e arrabbiato, o almeno fingeva di esserlo. Ricordo le esatte parole con cui mi rispose: «Qui non conosciamo nessun Cassius Clay». Insomma, diventai balbuziente anch’io, ma per la vergogna, e faticai a capire il significato di quella frase che continuava ad arrivarmi come risposta. Per farla breve, fu mister Bingham – un barbuto e anziano signore di colore di cui avrei imparato ad apprezzare la simpatia – a commuoversi per la mia ingenuità e a svelarmi dove avevo sbagliato. «Noi lo chiamiamo Muhammad Ali. Cassius Clay è morto tanti anni fa».

    Mi sentii come Ernie Terrell e Floyd Patterson, che si erano rifiutati di pronunciare il nome musulmano di Ali e ne avevano pagato le conseguenze sul ring. Solo che io non sapevo fare a pugni. Nella hall dell’albergo capii invece che – purtroppo – dal nuovo Ali non avevo nulla da temere quando lo vidi firmare gli autografi con la mano tremolante e i movimenti già rallentati dal morbo di Parkinson. Più che un’intervista, da parte mia fu la descrizione di un attimo. L’emozione di incontrare Ali sulla «Gazzetta» si tradusse così: «Ma che aspetto ha la leggenda? Cos’ha quella mano? Perché trema mentre scrive per l’ennesima volta il suo nome? La leggenda ha qualcosa di strano: si muove al rallentatore e non parla…»

    L’amabile prestigiatore

    Avrei visto e intervistato – si fa per dire – Ali un’altra decina di volte: a bordo ring dei match di Holyfield e Tyson, all’Olimpiade di Atlanta 1996, in occasione di due delle cinque visite che fece in Italia e, infine, nelle premiazioni dei Campioni del Secolo che si tennero nel 2000 a Vienna, dove la «Gazzetta» era media partner. Ogni volta l’ex campione malato mi è sembrato la fotocopia sempre più sbiadita del mito incontrato nel 1989. La stessa impressione deve averla avuta chi lo ha incontrato in Italia, dove è stato cinque volte dopo l’oro olimpico di Roma 1960.

    La prima nell’ottobre 1971, durante una tournée europea successiva alla sconfitta con Frazier per tenere tre incontri di esibizione con una borsa di 6 milioni di lire a show: a Genova, Milano e Roma. La seconda nel 1978, per partecipare al festival cinematografico di Saint Vincent: con la moglie Veronica si fermò a Roma e Milano. Tornò nel 1982 per incontrare Papa Paolo Giovanni II in un colloquio di un quarto d’ora. Poi altre due volte quando era già malato di Parkinson: nel 1991, per una raccolta fondi di Telethon, e nel 1999, in occasione di un convegno sulla pace a Comiso, quando non perse l’occasione per incontrare ancora a Roma papa Wojtyla.

    Quello del dicembre 1991 (domenica 9, per l’esattezza) è un ricordo che rimane ancora tenerissimo. Invitato dall’Uisp per la consegna del premio Sport e Solidarietà, Ali – accompagnato dalla quarta moglie Lonnie e dalla figlia diciannovenne Miwa – ricevette le targhe a lui dedicate nella palazzina di caccia di Stupinigi, vicino a Torino. Le sue mani tremolanti erano ancora in grado di stringere non solo i premi, ma anche decine di altre mani; di firmare un centinaio di autografi; perfino di distribuire gli opuscoli personalizzati sul culto musulmano di Maometto, che uscivano come per incanto da una valigetta ventiquattrore. Davanti ai cronisti – fintamente compiaciuti delle sue condizioni fisiche, che ci avevano aperto una breccia nel cuore – l’ex campione si trasformò in un prestigiatore alla Sylvan, numeri di levitazione compresi.

    Da tempo era questo il fuori programma che Ali aveva scelto per dimostrare che il suo cervello era ancora vivo. C’era un piccolo fazzoletto rosso che scompariva e ricompariva più volte fra le sue mani, solo che – da non-prestigiatore di professione – Ali svelò subito il trucco: un dito di plastica in cui il fazzoletto veniva nascosto. Scoprimmo che nel suo mondo alla moviola Ali era ancora in grado di mangiare tranquillamente da solo, di mettersi e togliersi la giacca e di trasferirsi da un posto all’altro. Mentre il solito Howard Bingham ci raccontava di tanti investimenti falliti e di come il principale mezzo di sostentamento della famiglia fossero proprio cerimonie promozionali come quella, concordai dieci domande da lasciargli scritte, con la speranza che ci arrivasse la risposta il giorno dopo.

    «Sono io che manco alla boxe»

    Il giorno dopo l’ex campione, prima di ripartire per gli Usa, si fermò proprio a Milano in un ristorante vicino alla «Gazzetta», per poi visitare la moschea musulmana. Così, durante un indimenticabile pranzo al ristorante Giallo, Muhammad sussurrò alla moglie Lonnie – che fungeva da amplificatore più che da interprete – le risposte alle mie domande. Vennero fuori i pentimenti («Non mi sono preparato adeguatamente per il primo Mondiale con Frazier») e l’amore incondizionato per Roma, dove, all’Olimpiade, una signora gli aveva rivolto un complimento indimenticabile: «Bello, bello bambino». Muhammad ribadì che non c’erano stati trucchi nelle due vittorie con Liston, ma tutto era dipeso solo dalla sua velocità e dal fatto che la fede in Allah aveva giovato sia alla sua mente sia al suo fisico. Ma, più materialmente, molto di più facevano per la sua forma fisica la rinuncia alla carne di maiale e agli alcolici (più quattro pillolette che prendeva regolarmente per il suo male). La moglie tradusse anche la sua frase più bella, fuori programma: «Ovunque io vada mi chiedono la stessa cosa: Ali, ti manca la boxe? No – rispondo – sono io che manco a lei».

    Poi, poco prima che lo salutassimo con le lacrime agli occhi, trovò la forza per farci lui una domanda, quasi surreale, che mi arrivò con un filo di voce: «Ma in Italia sono più famoso io o Bill Cosby?» Ci misi poco a rassicurarlo sulla sua indiscutibile maggiore popolarità, anche se I Robinson – la serie tv incentrata sul celebre attore di colore – stava spopolando in quel momento. «Hai visto», disse Ali alla moglie con enfasi esagerata, «in Italia sono io il più famoso». Non avrebbe fatto in tempo ad assistere in vita alla condanna per molestie di Bill Cosby, arrivata nel 2018 quando Ali era morto da ormai due anni. Ma il suo mito era ancora… popolarissimo.

    Vince sempre Ali

    Ci sarà un motivo se, quando si fa un referendum sul più grande sportivo di sempre, in ogni angolo del mondo vince sempre Ali, con poche eccezioni. Era successo anche in quel 3 aprile 2016, quando in «Gazzetta» scegliemmo la leggenda delle leggende: la giuria dei giornalisti della Rosa votò a larga maggioranza Muhammad Ali, e quello storico numero in verde – sotto la scritta 120 – mostra l’immancabile pugno dell’ex pugile che, attraverso la moglie Lonnie, ci inviò un memorabile messaggio di ringraziamento. L’altra parte della storia (quella meno bella) rivela che già nell’ultima parte della carriera, alla fine degli anni Settanta, quest’uomo baciato dal talento e dalla vita aveva cominciato a soffrire di un progressivo rallentamento della parola e dei gesti (sicuramente conseguenza dei troppi pugni), che dopo il ritiro sarebbero stati diagnosticati come sindrome del morbo di Parkinson.

    Il mondo scoprì drammaticamente i sintomi della malattia all’Olimpiade di Atlanta 1996, quando la mano tremolante del Più grande, grazie a un marchingegno meccanico, accese il fuoco di Olimpia. Non ho dubbi nel considerare la sua salita al tripode, lenta ma sontuosa, uno dei momenti più emozionanti di tutta la storia olimpica.

    Tre volte campione

    Il campione olimpico dei mediomassimi di Roma 1960 (col nome Cassius Clay) e campione mondiale dei massimi (col nome Muhammad Ali) ha saputo far parlare i pugni ma ancora di più la bocca, che muoveva con altrettanta velocità, meritandosi l’appellativo di Labbro di Louisville. Al di là dell’importante curriculum professionistico (56 vittorie e 5 sconfitte, con soli quattro atterramenti in tutta la carriera), va però fatta una precisazione: se leggerete che Muhammad Ali è stato l’unico pugile a conquistare tre volte il titolo mondiale dei massimi (con Sonny Liston nella versione Wba e Wbc nel 1964, con George Foreman sempre nella versione Wba e Wbc nel 1974 e con Leon Spinks nella versione Wba nel 1978), non è esattamente così.

    Muhammad Ali è stato sicuramente il primo a conquistare tre volte la corona dei massimi, ma non l’unico. Dopo di lui, la moltiplicazione delle sigle (la cosiddetta guerra dell’alfabeto) ha consentito un’impresa ancora superiore (ben quattro volte) a Evander Holyfield, e una analoga a Lennox Lewis e Vitali Klitschko, l’attuale sindaco ucraino di Kiev diventato un eroe durante la guerra con Mosca. La stampa americana si è così inventata il lineal championship, la cui corona simbolica si conquista battendo l’ultimo titolare undisputed (cioè detentore della corona di tutte le sigle) della propria categoria di peso. In questo senso sì, Muhammad Ali può considerarsi l’unico peso massimo della storia ad aver conquistato tre volte il titolo lineare. Ma questa precisazione nulla aggiunge alla sua leggenda.

    Una bugia… olimpica

    Un altro episodio che fa sorridere per come è stato divulgato (anche dalla cinematografia ufficiale) è quello celebre della medaglia d’oro di Roma 1960, che fu gettata per protesta nel fiume Ohio dopo la rissa con i bulli fuori dal ristorante dove non era stato accolto perché nero. Un episodio di cui i suoi amici più intimi, a cominciare dall’autore dei suoi discorsi Bundini Brown e il fotografo Howard Bingham, avevano sempre contestato la veridicità e che – in realtà – era stato inventato per lanciare l’autobiografia Il più grande, scritta con Richard Durham nel 1975, alla vigilia del terzo incontro con Joe Frazier.

    C’erano voluti quindici anni dall’oro di Roma 1960 perché Ali rivelasse in un libro l’episodio inedito sulla medaglia gettata, ma ci volle solo qualche mese perché, in un’intervista a un giornale inglese, pressato dalle domande, Ali ammettesse che si trattava di un ricamo del co-autore Durham di cui «non aveva letto l’ultima stesura del libro». «La medaglia di Roma? In realtà non so che fine abbia fatto, forse l’ho persa in un trasloco». Ma, intanto, la storia della medaglia gettata nel fiume aveva già fatto il giro del mondo e si era imposta come autentica, al punto che prima il Cio (nel 1996) e poi il Coni (nel 1999) avevano solennemente consegnato all’ex pugile una copia della decorazione. E continuerete a leggerla ovunque perché, come è noto, la verità finta è più credibile della verità vera.

    Mito anche al cinema

    Non passa anno che un nuovo film non arricchisca la ricca documentazione cinematografica su Muhammad Ali, che conta una decina di pellicole fra biopic e fiction. Cinque le produzioni più importanti: Io sono il più grande del 1977, Quando eravamo re del 1996 (vincitore dell’Oscar nella sezione documentari), Ali: An American Hero (2000), Alì (2001) e Muhammad Ali’s Greatest Fight (2013). In piena pandemia, al Festival di Venezia del 2020, è stato presentato l’ultimo, One Night in Miami di Regina King. Tratto dall’omonima pièce teatrale di Kemp Powers, si riferisce al 25 febbraio 1964 e racconta la notte trascorsa da Cassius Clay all’Hampton House Motel dopo aver conquistato il titolo contro Sonny Liston.

    «Il mio nome è Ali»

    La conversione all’Islam è un altro degli episodi controversi della storia di Ali. Molti biografi fanno risalire la conversione al 28 febbraio 1968, data del clamoroso annuncio avvenuto tre giorni dopo la conquista del Mondiale contro Liston. Ma era stato nel 1959 che Cassius Clay, a soli diciassette anni, aveva scoperto l’esistenza dei musulmani dell’onorevole Elijah Muhammad e fu nel febbraio 1961, mentre preparava a Miami il quinto incontro da professionista con Donnie Fleeman, che ascoltò per la prima volta in una moschea l’orazione che lo folgorò. Ali rimase sempre fedele

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1