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Muhammad Ali: Il guerriero che sapeva volare
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E-book251 pagine3 ore

Muhammad Ali: Il guerriero che sapeva volare

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Info su questo ebook

Una biografia di pugni, pupe e parole. Un viaggio da predestinato nella cultura popolare a cavallo tra due millenni. Un personaggio che seppe perdere tutto per guadagnare l’immortalità. Se la vita di ognuno di noi finisce per essere un combattimento contro il mondo ed anche contro fantasmi strettamente privati, quella di Cassius Clay - l’uomo che volle diventare Muhammad Ali - può essere raccontata in otto capitoli. Tanti quanti i round che gli furono necessari per battere George Foreman - nel match forse più importante della sua carriera sportiva - e per cucire vittoriosamente la storia della boxe alle istanze politico-ideologiche di un’America alla ricerca di una identità comune. Dalla Louisville dei primi passi a quella delle esequie planetarie, il suo finisce per essere il racconto vincente e doloroso della storia recente degli Stati Uniti e di un percorso culturale che riguarda, in fondo, anche tutti noi.Ma talento e ideologia non bastano per spiegare la genesi di un campione grande e imperfetto, diventato però totem di diverse generazioni. Dietro c’è anche altro, probabilmente quello che, nel giorno del funerale, Belinda, una delle sue ex mogli, ha sintetizzato cosi: “Aveva un disperato bisogno di essere amato”. Quanto basta perché milioni di persone, da quel giorno, abbiano potuto dire: “Anche io sono Muhammad Ali”.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita12 giu 2020
ISBN9788836160334
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    Anteprima del libro

    Muhammad Ali - Massimo Cecchini

    Il guerriero che sapeva volare

    Pensieri tra le corde

    Sento in bocca il sapore del sangue. Eppure, se il paradenti non mi stringesse così tanto, potrei sorridere.

    Tutto procede come avevo immaginato.

    Intorno a me gridano da giorni: «Ali, uccidilo», ma si vede che ormai sembrano non crederci più nemmeno loro. Staranno pensando: dov’è finito l’uomo che volava come una farfalla e pungeva come un’ape? Perché è fermo alle corde? Perché si lascia colpire senza quasi provare una reazione? Dopo capiranno. D’altronde, che cosa ne sanno loro della mia strategia, degli anni che mi hanno rubato, del corpo che non è più quello di prima, del fatto che questo gigante davanti a me ha un pugno che squassa l’anima?

    Tutto procede come avevo immaginato.

    Va bene, ho le ali mozzate, ma la mia lingua è sempre sciolta. Lo vedo. Quando lo insulto, barcolla come se lo colpissi con un montante. Raddoppia gli sforzi, certo, picchia più forte che può, ed è proprio quello che voglio: fargli perdere energie. Scoprirà presto che, se è vero che la farfalla non può più volare come prima, il pungiglione dell’ape resta lo stesso. Mortale.

    Tutto procede come avevo immaginato.

    Fra poco il calvario avrà fine. Non posso distrarmi, non posso guardarmi attorno, ma mi piacerebbe scrutare gli occhi di tutti quelli che mi osservano. Non lo sanno, eppure stanno per essere spettatori di una notte leggendaria, di cui si parlerà per sempre, o almeno fin quando due uomini non decideranno di prendersi a pugni per decidere chi dei due sia il migliore.

    E allora possono esserci dubbi? Qualcuno, tra voi che state osservando questo match a bordo ring oppure davanti a un televisore sintonizzato sull’Africa nera, può avere dei dubbi su chi sia il migliore tra me e Foreman? Qualcuno, tra voi che vivete nel futuro, quando vedrete queste immagini scorrere davanti ai vostri occhi, potrà mai avere la sensazione che io possa perdere? Che la storia – quella minuscola dei giorni in cui ero Cassius e quella maiuscola di quando divenni Muhammad – non debba risarcirmi qui e ora?

    Tutta la mia vita è davanti a voi. Squaderno il mio passato per vincere per sempre.

    Tutto procede come avevo immaginato.

    Primo round

    «Il mio trisavolo era uno schiavo»

    La riproduzione della sua bicicletta bianca e rossa che adesso fa da cimelio – incagliata com’è sul fronte della palestra di Louisville, l’attuale Spalding University Center – racconta il cuore di uno stato d’animo che forse ci riguarda tutti: la voglia di andare veloci. Cassius Marcellus Clay Junior, però, lo ha fatto davvero. Prima con la lingua, poi con gambe e braccia, in seguito con tutto quello che il successo, con lo sgranarsi degli anni, gli ha portato in dote.

    La Cadillac rosa decappottabile, ad esempio. Che acquistò appena tornato a casa dopo la vittoria della medaglia d’oro all’Olimpiade di Roma, nel 1960, quando la vita gli sembrava semplicemente una scala di cristallo da percorrere soltanto in un senso, a dispetto di una pelle nera che lui sentiva come un privilegio, eppure gli veniva addebitata come zavorra.

    D’altronde, a diciotto anni, è giusto che pensieri e parole possano coincidere in un cerchio pressoché perfetto, liberando un mantra che resterà sempre uguale, se non per la declinazione temporale e per quella onomastica, che in realtà provocherà sempre una sorta di sdoppiamento, perché nessuno – neppure il più grande – può cancellare ciò che è stato. «Sono il più grande. Sono il futuro campione dei pesi massimi. Sono Cassius Clay».

    La circolarità dei concetti, in fondo, è rimasta sempre la stessa, a dispetto di un’apparenza che diventava speculare al suo divenire. Il ragazzo che fu Cassius e divenne Muhammad ha continuato sempre a giocare d’anticipo, persino quando quella velocità – che era stata il suo marchio di fabbrica – si è trasformata nell’invincibile lentezza che solo il morbo di Parkinson sa regalare, senza fare sconti a nessuno. Un contrappasso simbolico, ovviamente, ma che diventa tale solo perché c’è la certezza che nella vita si è coltivato l’opposto.

    Così ha un senso tornare alla bicicletta, una Schiwinn, su cui senza saperlo ha viaggiato la storia del pugilato.

    Ci pedalava sopra un dodicenne chiacchierone, che non voleva perdersi la fiera di Louisville. Ma una bici bianca e rossa, nel 1954, evidentemente faceva gola e così un ladro – forse incaricato dagli dèi della boxe – decise che quella Schwinn doveva essere sua. Che cosa si fa, allora? A dodici anni si piange, si strepita, si cerca giustizia. Cassius Clay Jr. fece proprio così, incontrando sulla sua strada un poliziotto. Si chiamava Joe Martin, ed era soprannominato il Sergente. A colpirlo fu innanzitutto la valanga di parole – «mi hanno rubato la bici, me la ritrovi subito, altrimenti prenderò a pugni quel maledetto che me l’ha portata via» –, poi gli occhi spalancati del ragazzo. Caso? Intuito? Che cosa importa. «Senti, da come muovi le braccia ho l’impressione che tu non sappia neppure come si danno i pugni. Io provo a ritrovarti la bici, ma tu domani vieni in palestra che ti insegno la boxe».

    Martin non lo sapeva, ma da quel momento era diventato il secondo padre – quello sportivo – del più grande pugile di tutti i tempi, soprattutto se consideriamo l’aggettivo grande, riempito di tutte le accezioni possibili, pronte a mettere k.o. ogni ragionevole statistica e dotta valutazione tecnica.

    Ma è giusto cominciare dalla famiglia, o meglio ancora dalle radici. E così nella storia di Muhammad Ali c’è prima un’ascendenza irlandese, Abe Grady, che nel 1860 si era trasferito in Kentucky. Quanto basta perché, in un giorno del 2009, a The Greatest venisse voglia di prendere un aereo e andare visitare la cittadina di Ennis, nella zona occidentale dell’Irlanda, per rendere omaggio a quel passato.

    A proposito, quando il futuro Muhammad Ali decollerà nella storia universale, gli fu scoperto anche un lontano avo veneziano, tale Bartolomeo Taliaferro, che nel Cinquecento era cittadino della Repubblica del Leone di San Marco prima di emigrare in Inghilterra. Vero? Ci piace pensarlo, anche perché un cognome del genere sembra essere particolarmente evocativo per uno che con la forza, e con tutte le relative declinazioni pugilistiche, avrebbe avuto parecchio a che fare.

    Il Kentucky, però, è un’altra storia. Una storia di uno Stato che nella Guerra civile aveva scelto di stare con la Confederazione del Sud e per questo motivo farà più fatica di altri a liberarsi dal retaggio del segregazionismo.

    Ma l’abbiamo detto, chiamarsi Clay, da un certo punto in poi, è indizio di velocità, e così non sorprende che, in pieno XIX secolo, apparisse un Cassius Marcellus Clay VI molto avanti rispetto ai tempi. Era un politico e un soldato, ma anche proprietario terriero, eppure aveva idee anticonformiste e pericolose per quei tempi: era contro la schiavitù. Inutile dire che il battersi per una posizione del genere gli fece rischiare anche la vita, ma la Storia – quella con la S maiuscola – gli dette ragione, tant’è che il presidente Abraham Lincoln lo volle nella sua squadra (come si direbbe adesso) e lo inviò a San Pietroburgo come suo rappresentante alla corte degli Zar.

    Coerentemente alle idee professate, comunque, Cassius Marcellus affrancò i suoi schiavi che, secondo i dettami legislativi dell’epoca, presero il suo cognome. Da quel momento, una lunga teoria di Cassius Marcellus Clay di pelle nera cominciò a calpestare il terreno degli Stati Uniti, fino ad arrivare al padre di quello che diventerà Muhammad Ali.

    I tratti in comune erano parecchi. Quella frase «Io sono il più grande», infatti, pare che fosse il grido di battaglia anche di Clay Senior, così come la bravura nel disegno che lo aveva spinto a diventare vetrinista, anche se raccontava a tutti di avere un animo da artista. «Se non fossi stato nero, i miei quadri sarebbero esposti a New York, a Chicago, in tutta l’America. Persino in Europa», era la sua litania nelle notti (frequenti) ad alto tasso alcolico.

    Era anche un appassionato di musica, che studiò sommariamente, imparando comunque a strimpellare il piano per comporre qualche canzone. Suo figlio disse di lui: «Era il ballerino più elegante di tutta Louisville».

    Clay Sr. è nato nella contea di Jefferson, nel Kentucky, da Herman ed Edith Greathouse. I suoi nonni paterni furono John e Sallie Anne, e sua sorella Eva spiegò come Sallie fosse originaria del Madagascar. Il colpo di scena, però, venne a galla alla fine degli anni Settanta. Secondo una ricerca sul dna del campione, infatti, la nonna paterna era la pronipote di Archer Alexander.

    Chi era Alexander? L’avo del campione fu un ex schiavo, nato in Virginia fra 1810 e il 1813 – la data di nascita è incerta – e morto a St. Louis nel 1880. L’uomo è venuto alla ribalta della storia per il ruolo che ebbe durante il terribile periodo della Guerra civile americana. Sebbene il Missouri – dove era stato portato successivamente alla sua vendita – avesse scelto di essere neutrale durante il conflitto, Alexander era di proprietà di un simpatizzante confederato. Così nel 1863 apprese che le truppe del Sud avevano segato un ponte ferroviario che i soldati dell’Unione stavano progettando di attraversare. Saputa la notizia, a rischio della propria vita camminò per cinque miglia per avvertire l’esercito nordista, salvando potenzialmente centinaia di uomini. Accusato di fornire informazioni al nemico, Alexander decise di scappare, riuscendo abilmente a sfuggire ai cacciatori di schiavi che erano sulle sue tracce. Raggiunta St. Louis, in seguito organizzò la fuga di sua moglie e dei suoi figli, mentre nel frattempo aveva trovato lavoro come giardiniere presso William Greenleaf Eliot, cofondatore della Washington University e nonno del poeta T. S. Eliot. Il cattedratico fu decisivo nel salvare la vita di Archer, perché riuscì a ottenere un ordine di protezione nei suoi confronti, visto che i cacciatori di schiavi nel frattempo lo avevano trovato e catturato. Anni dopo lo stesso Eliot pubblicò una biografia di Alexander, corredata da una fotografia che fu inviata in Italia, dove fu usata dallo scultore Thomas Ball come modello per la statua dello schiavo dell’Emancipation Memorial, presso il Lincoln Park, a Washington. Il malinconico paradosso, però, fu che all’inaugurazione del monumento nel 1876 dinanzi al presidente Ulysses S. Grant e a tante altre autorità, né Alexander né Eliot erano presenti. Quattro anni più tardi l’ex schiavo lasciò questo mondo e le sue ultime parole furono queste: «Ringrazio Dio per essere morto in libertà».

    Una storia molto bella e, se volessimo credere al potere della genetica sulle idee, quasi perfetta per orientare la vita e le idee portate avanti un paio di secoli più tardi da Muhammad Ali.

    La scoperta del legame fu fatta dal terzo cugino del campione, Keith Winstead, che si è ritirato a vita privata dopo una carriera spesa nel mondo dei computer. Winstead era una specie di genealogista dilettante e scoprì la connessione tra Ali e Alexander mentre conduceva alcune ricerche. La rivelazione fu poi supportata dalla prova del dna, così la figlia di Ali, Maryum, disse che suo padre sarebbe stato orgoglioso di mettersi in contatto la famiglia di Alexander. «Gli piaceva sapere che era collegato a un personaggio del genere» ha detto. «D’altronde lui davanti a tutti nel capire che c’era una connessione che risaliva alla schiavitù con i re e le regine in Africa».

    Nel 1980, il «New York Times» pubblicò la storia e il campione uscì allo scoperto. «Finora non ho mai saputo molto dei miei antenati» disse, «ma quando me ne sarò andato voglio che i miei nipoti e pronipoti mi diano merito per quello che ho fatto, così, allo stesso modo, sono felice di sapere dei miei antenati in modo da poter dare loro merito. Un giorno», concluse, «mi piacerebbe indagare su tutto ciò che può essere trovato per sapere tutto sulle persone da cui sono disceso».

    Tanta storia e tanta fame di libertà, quindi, c’era nella storia di Ali, che tuttavia non apprese queste nozioni dai libri. In effetti, il futuro campione dei pesi massimi non fu uno studente modello – le pagelle sono impietose – ma eccelleva proprio con una matita in mano. Forse era anche il suo modo di rilassarsi e concentrarsi, visto che prima di ogni match non saliva sul ring senza aver completato un disegno.

    Narra la leggenda aurea che lo circonda, infatti, che prima di sfidare Sonny Liston per il titolo che sognava da tutta la vita, Clay Junior avesse disegnato e arabescato un grande otto, cioè il round a cui il suo avversario non sarebbe arrivato. C’è bisogno di ricordare che, alla fine della settima ripresa, Liston si ritirò per un problema alla spalla? A proposito, non dimentichiamo quel numero otto. Ci tornerà utile anche quando il futuro Muhammad Ali andrà a conquistare il titolo dei pesi massimi per la seconda volta, contro un detentore del titolo ancora più potente di Liston. Sì, proprio il fantasma di questo libro, George Foreman. Otto capitoli come gli otto round di quell’incontro.

    Chi per noi non è un fantasma, invece, è Cassius Clay Senior, il papà di The Greatest, di origine malgascia e nativo statunitense di terza generazione. Lo hanno raccontato allegro, a volte litigioso, di sicuro con un debole per le donne, tanto che il 17 gennaio 1942, quando a Louisville nacque il suo primogenito, voleva chiamarlo Rudolph Valentino, il playboy per antonomasia della storia del cinema di quegli anni. Ad opporsi fu sua moglie Odessa Lee Grady, che lo ricondusse alla tradizione: «Si chiamerà come te. Punto e basta». Andò così, ma il nome mancato sarebbe scivolato sulle spalle del secondogenito, quel Rudy che fu a lungo ombra discreta del fratello, ma a cui dobbiamo forse i primi allenamenti sulla velocità. «Cassius mi chiedeva di tirargli dei sassi perché voleva imparare a non farsi colpire. Io ci provavo a prenderlo, ma non ci riuscivo mai», ha raccontato.

    Restarono legati per tutta la vita, e lo si capisce leggendo l’autobiografia che Rudy scrisse col nome preso dopo la conversione all’Islam, Rahaman Ali: Mio fratello Muhammad Ali. Ci sono tanti episodi divertenti e tante pagine toccanti della loro vita insieme. Ci piace però ricordare questo, che accadde dopo l’ultimo combattimento contro Norton, vinto ai punti dal campione di Louisville.

    Gli chiedemmo perché non smettesse, perché si facesse del male così. Era esausto, e si vedeva. Ali rispose: «Io sono il volto più famoso del mondo. La lotta, il ring, sono il mio palcoscenico. Se lascio la boxe nessuno saprà chi sono e nessuno si ricorderà di me, quindi devo continuare. Non posso preoccuparmi adesso della mia salute. Devo solo andare avanti e le mie azioni devono essere di pubblico dominio». Non assomigliava alla persona invincibile che era sempre stato. Era triste guardarlo in quel modo, il deterioramento era in atto non aveva più il suo solito aspetto potente. Lo rallegravano solo gli applausi. Da quelli lui traeva linfa vitale e quindi noi coltivavamo una inutile speranza.

    Eppure, negli anni belli, il pugilato ha avuto una parte importante nella vita di Rahaman, che per un periodo è stato anche lui un pugile professionista nella categoria dei pesi massimi, provando a partecipare alla spedizione statunitense per l’Olimpiade di Roma del 1960, senza però riuscirvi. Dopo circa un centinaio di combattimenti fra i dilettanti, divenne professionista il 25 febbraio 1964, proprio il giorno in cui suo fratello Cassius sconfisse Sonny Liston nel primo match tra i due valido per il titolo mondiale. Rahman si convertì all’Islam prima del fratello e si dice che abbia dato il suo contributo perché Cassius lo seguisse. Da professionista, Rahaman ha combattuto diciassette volte, con un bilancio di tredici vittorie (sei per k. o.), tre sconfitte e un pareggio, rimanendo imbattuto per i primi sei anni della sua carriera. Tuttavia, nel 1972, dopo due sconfitte consecutive contro Roy Dean Wallace e Jack O’Halloran, si ritirò dalla boxe. In ogni caso, Rahaman continuò indossare i guantoni ancora a lungo, perché con suo fratello fu protagonista di tanti match di esibizione, che lo portarono a dire: «Nessuno ha subito tanti pugni da Muhammad Ali quanto me».

    Ma la mamma è la mamma, ovvio, e di lei torneremo a parlare. Il suo soprannome può aiutare a capire qualcosa di più del destino di Clay Jr., visto che era chiamata dal figlio Lady Bird. Ecco, l’uomo destinato a spiegare al mondo di saper «volare come una farfalla e pungere come un’ape» era cresciuto nel grembo di una donna che – a dispetto del corpo pesante – aveva la capacità di spiegare le ali in modo misterioso e, nello stesso tempo, di graffiare quando occorreva. Chissà poi se la passione per gli uccelli avrà affinato il senso del bello nel suo bambino, che avrebbe raccontato: «Mamma si alzava presto per andare a fare la domestica, ma la prima cosa che faceva la mattina appena sveglia era mettere fuori la porta di casa le gabbiette con i nostri uccellini. Così tutto il quartiere si svegliava al loro cinguettio».

    A dispetto delle ruggini provocate dalla conversione all’Islam, il feeling tra Muhammad Ali e sua madre durò tutta la vita. E forse non è un caso che Mama Bird fosse la prima a vivere sulla propria pelle le due principali caratteristiche di quel figlio così fuori dal comune: la parola e la forza. Cassius, infatti, cominciò a parlare e camminare molto presto. Non basta. A due anni, dinanzi al rimprovero per un capriccio più insistente di altri, Odessa si vide recapitare dal bambino un destro tanto fortuito quanto potente, che le fece cadere un incisivo. «Aveva una forza che mi lasciò senza fiato», raccontava anni dopo ridendo.

    Eppure per tanti anni Odessa aveva poco da ridere, perché le condizioni economiche in cui versava la famiglia Clay non erano certo di quelle che autorizzavano sorrisi. In fondo, per capirlo, basterebbe vedere le traversie che ha attraversato la casa di Louisville in cui era cresciuto The Greatest.

    Col passare degli anni è diventata un luogo di culto, ma si capisce facilmente come chi vi avesse abitato non navigasse certo nell’oro. Anzi. Così, a un certo punto, fu acquistata da tale Steve Stephenson, che però nel 2012 piantò in giardino un cartello con su scritto In vendita e il prezzo: cinquantamila dollari. Probabilmente fu sovrastimata, perché in quei giorni il suo valore reale – secondo quanto risultava dal sito del Jefferson County Property Value Administrator – non avrebbe dovuto superare i ventitremila. L’edificio, del resto, era piuttosto mal messo: la veranda pendeva da un lato, il tetto era gibboso come la schiena di un cammello, i muri parevano storti e il giardino sembrava un campo di battaglia. Il sindaco di Louisville dell’epoca, Greg Fischer, aveva comunque affermato che era interesse della città conservare la casa del più celebre cittadino. Anche perché il Muhammad Ali Center, un museo e centro educativo sorto in centro, in fondo rimane perennemente una delle prime attrazioni turistiche di Louisville.

    «Vogliamo fare qualunque cosa per conservare l’eredità del campione» aveva detto Fisher. «Questa casa infatti dovrebbe servire di ispirazione per chiunque la guardi e possa poi pensare: Se c’è l’ha fatta lui, perché non io? Tutti noi dimostriamo la nostra età, ma penso che alla fine saremmo in grado di darle una bella sistematina».

    L’ultimo proprietario è stato George Bochetto, un avvocato di fama, che è stato tra l’altro commissioner di pugilato per la Pennsylvania. «Adesso la casa è diventata un museo, e visitarlo è una specie di esperienza spirituale» ha detto. «Dopo averla salvata mentre cadeva su stessa, il mio obiettivo è rimetterla nelle stesse condizioni in cui era quando Muhammad Ali viveva lì con la sua famiglia viveva lì».

    Da tempo Bochetto e la sua squadra sono impegnati in questa battaglia, ma si rifiutano di gettare la spugna. «Non stiamo cercando di farci soldi. Stiamo solo cercando di raccogliere alcuni fondi per il personale, in modo che possiamo tenerlo aperto il maggior numero di ore possibile».

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