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Sassi! Le disavventure di un collezionista di minerali
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E-book374 pagine4 ore

Sassi! Le disavventure di un collezionista di minerali

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Info su questo ebook

"Sassi!" è un'antologia di racconti sulle piccole disavventure che possono capitare a un collezionista e cercatore di minerali. Non un'opera tecnica, ma una raccolta leggera, fra il serio e il faceto, che si rivolge a collezionisti, appassionati, neofiti e semplici curiosi.
LinguaItaliano
Data di uscita25 nov 2022
ISBN9791221429626
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    Anteprima del libro

    Sassi! Le disavventure di un collezionista di minerali - Corrado Gamucci

    Parte prima

    I racconti

    SASSI!

    Giugno 1971.

    «Sassi! Sono soltanto sassi!»

    Il vocione baritonale di quell'uomo mi rimbombava nelle orecchie nemmeno fosse stato un rombo di tuono. Dall'alto della sua statura imponente mi sovrastava di perlomeno venti centimetri.

    Gli occhi iniettati di sangue, le vene del collo rigonfie, era agitato da un'ira che non prometteva niente di buono per il sottoscritto. Dall'altra parte della cucina Marco C. stava ingozzandosi con le mani di avanzi ormai freddi di pollo lesso.

    Sembrava indifferente, e forse lo era, agli urli di suo padre, continuava a mangiare sgranocchiando gli ossi dell'ala di quel povero pollo, mentre io, dal basso del mio metro e settanta scarso, incominciavo mio malgrado a misurare la distanza fra me e la porta di ingresso di quel dimesso appartamento popolare di Shangai.

    Non sto parlando della Cina, ovviamente, ma dell'omonimo quartiere popolare dove all'inizio degli anni '70 del XX secolo convivevano schiere di operai delle tante industrie livornesi.

    Mai come in quel momento mi sono sentito come un pesce fuor d'acqua; per me ultimo figlio di una florida famiglia, della così detta piccola borghesia.

    Mio padre aveva un ottimo incarico impiegatizio presso un'amministrazione locale, per me era impensabile che un genitore si permettesse, anche se a casa sua, di dare in escandescenze in quel modo davanti a un estraneo.

    Tutto era scaturito da un mio errore di percorso, diciamo; il padre di Marco era ritornato a casa dal lavoro quando noi due si delineava il progetto che avevamo in mente con la sua mamma. Era questa una dolce signora che stravedeva per il suo unico figlio.

    Le avevamo spiegato a grandi linee il nostro progetto, andare ad esplorare la zona di Murlo nel sud della Toscana alla ricerca di bei campioni mineralogici.

    Questo piccolo villaggio minerario era conosciuto più per la miniera di carbon fossile che altro, ma nei dintorni vi erano altri siti dove era possibile trovare diversi minerali in belle cristallizzazioni.

    All'improvviso era apparso l'altro genitore. La sua espressione assente, un po' severa mi avrebbe dovuto mettere in guardia, era chiaro che non aveva avuto una buona giornata di lavoro, ma forse sarebbe passato sopra, se non mi fosse scappato un sorriso di condiscendenza alle sue dubbiose perplessità sull'utilità pratica di questa gita.

    Un uomo che si spezza la schiena tutti i giorni per la famiglia può anche non avere in simpatia un ragazzotto come me che scalda le panche all'università, invece di andare a lavorare; tantomeno, quando - secondo lui - il medesimo fuorviava il suo unico figlio.

    Anche Marco si era iscritto all'Università di Pisa, facoltà di Economia e Commercio e se all'inizio il suo genitore lo aveva considerato un segno di prestigio per un figlio d'operaio, ora si stava chiedendo cosa c'entravo io collezionista di stupidi sassi.

    Il pollo era ormai definitivamente scomparso nell'ingordo stomaco di Marco, procedendo di sghimbescio sotto la minacciosa ombra del di lui padre, con una vaga scusa a proposito dell'ora mi dileguai lestamente dopo aver rivolto un sorriso alla signora.

    «Poi ti telefono!»

    Mi urlò dietro il mio amico. Finalmente in strada! Dopo quattro piani a piedi, all'epoca era impensabile perdere tempo a costruire ascensori nell'edilizia popolare, mi diressi verso il Maggiolino che mi aspettava sonnacchioso dall'altra parte della via.

    Marco lo avevo conosciuto molti mesi prima. Veniva dall'Istituto tecnico per ragionieri, nello stesso stabile nel quale, distaccati al 3° piano, in un'ala a sé stante, studiavamo noi geometri.

    Le sue nette prese di posizione contro quella che all'epoca era considerata una società costrittiva gli avevano permesso di entrare nel Collettivo studentesco della Sinistra.

    Amico di un altro amico che anche lui aveva la passione dei minerali, la prima volta che lo conobbi ci eravamo dati appuntamento a Calafuria sotto la vecchia torre medicea. L'amico comune era Carlo G., anche lui della mia età, grande cercatore di sassi con il quale avevo convenuto di effettuare una ricerca sulla parte interna della vecchia cava al di là della ferrovia.

    Calafuria in una cartolina degli anni '60 del XX secolo (mia collezione personale). Il fronte di cava rammentato nel racconto dove Carlo e Marco effettuarono la discesa in corda doppia, è perfettamente visibile, a sinistra nella foto, al di là della ferrovia.

    La prima volta che vidi Marco rimasi colpito dalla sua bruttezza, si, certo aveva un bel fisico, ve lo dice uno che all'epoca era un ragazzo mingherlino, ma quel che colpiva in Marco era la faccia, tutta una serie di bitorzoli piantati a caso, una chioma fluente fino alle spalle e sotto un sorriso simpatico.

    Legammo subito; essendo io, inoltre, più grande di una quindicina di mesi mi faceva piacere poter fare sfoggio delle mie conoscenze scientifiche.

    Poveraccio, pensai fra me e me, brutto come è avrà delle difficoltà con le ragazze.

    Non avrei potuto essere più lontano dal vero. Le ragazze stravedevano per lui.

    Ricordo che cinque anni dopo, mentre ero in centro con una mia cara amica, si incontrò per caso Marco e noi maschi ci salutammo con grande cordialità. Lei rimase a bocca aperta e disse testualmente:

    «Come, conosci Marco C.?»

    Immediatamente salii di qualche gradino nella sua stima.

    Era in parole povere un brutto-bello tipo l'attore americano Charles Bronson.

    Giunti a Calafuria lasciammo le auto sotto la torre medicea, attraversammo la strada, scavalcammo il muretto che impediva l'accesso alla vecchia cava, in disuso ormai da prima della Seconda guerra mondiale, e ci inoltrammo fra la vegetazione.

    Per un sentiero impervio arrivammo fino ai resti del vecchio ponte stradale realizzato in ferro dagli Alleati che ancora scavalcava la forra sottostante e si sbucò infine nella cava sud.

    Come succede sempre in queste occasioni, specie se è la prima volta che si esplora una zona nuova, procedemmo un po' a caso cercando alla base del fronte di cava, fra cespugli e massi caduti, il minerale per cui questa cava in arenaria è famosa: la Barite. Questo solfato di bario è molto comune in natura, frequentemente i suoi cristalli presentano un abito tabulare secondo la base.

    La barite di Calafuria si presenta in belle cristallizzazioni, con cristalli centimetrici, nelle fessure della roccia incassante, l'arenaria, appunto.

    A Calafuria le cave di arenaria hanno fornito per secoli blocchi di materiale che, opportunatamente tagliati sul posto, sono stati usati nell'industria delle costruzioni per ornare palazzi nella città di Livorno.

    Alla base del fronte di cava trovammo qualche campione con cristalli di dubbio valore estetico; ma alzando gli occhi individuammo subito il filone da cui potevano essersi staccati. A metà del costone si intravedeva una buchetta che sembrava interessante. Il problema, naturalmente, era come arrivarci: troppo in alto per salire dal basso, era perlomeno a 10 metri d'altezza, troppo in basso per arrivarci dall'alto.

    Non vedevo soluzioni, finché Marco disse testualmente a Carlo:

    «L'hai portata la corda?»

    Carlo emise un grugnito di risposta, dal capace zaino di origine militare che si portava appresso tirò fuori una lunga corda da roccia.

    «Si va su e ci si cala.»

    Disse con indifferenza.

    Be', non era male come idea, bastava fare un lungo giro per aggirare il fronte di cava, salire al gradone superiore, trovare uno spunzone di roccia o, in alternativa un albero dalle radici forti, avvolgerci la corda e lasciarla cadere oltre il dirupo fino a che i due capi non fossero stati al livello del terreno.

    Calarsi in corda doppia fino alla vena del minerale, prelevare - si sperava - dei bei campioni e poi finire di calarsi al livello sottostante, tirare con forza un solo capo della corda, in modo da recuperarla tutta, avvolgerla e tornare alle auto; semplice, no?

    Sia Carlo che Marco avevano già avuto esperienze similari.... il sottoscritto non ancora. Quindi loro compirono tutte le fasi sopra descritte mentre io rimasi a fare sicurezza, si fa per dire, nel piano sottostante. Inutile aggiungere che trovarono delle belle cristallizzazioni di Barite, mentre a me toccarono solo le briciole che mi concessero.

    Qualche giorno dopo la mia ritirata dalla casa di Marco, si riuscì a partire per Murlo.

    Maggiolino stipato come al solito di attrezzi da scavo, canadese, sacchi a pelo di provenienza militare, chiaramente comprati a Livorno in piazza XX Settembre, all'allora famoso Mercatino americano. In questa bella piazza alberata nel centro storico era possibile trovare di tutto e di più, proveniente dai dismessi magazzini dell'esercito USA, quasi tutta roba di contrabbando sui cui l'autorità preposta, perlomeno a Livorno, chiudeva spesso e volentieri un occhio interessato.

    Murlo, la nostra meta; un paesino di poche anime in provincia di Siena, non lontano da Buonconvento. Agli inizi degli anni '70 del XX secolo, il turismo di massa era ai precordi e, nelle zone interne della Toscana le strade esistenti seguivano, quando vi erano, dei percorsi sinuosi con curve improvvise. Non esistevano varianti o tangenziali; si doveva rigorosamente attraversare città e paesini. Di conseguenza non si poteva poi pretendere di avere una velocità di crociera elevata.

    Prima tappa: Livorno - San Vincenzo, 60 km, 1 ora e 10' (non male per il vecchio Maggiolino del '62). Seconda tappa: San Vincenzo - Massa Marittima, 50 km, 1 ora e mezza (quando trovavi la fila dei camion sull'Aurelia potevi anche raccomandarti a Belzebù, ma la fila la tenevi fino a Roma). Terza tappa: Massa Marittima - Monticiano, 44 km, 1 ora di marcia su una strada di curve e controcurve, attraverso una bella zona di boschi e miniere.

    All'epoca erano ancora operanti la Miniera di Niccioleta e quella di Boccheggiano, non lontano vi era Montieri, famoso nel periodo medioevale per le sue miniere d'argento, alle quali si era approvvigionata notevolmente la dinastia dei Medici.

    E' il territorio sud delle cosiddette Colline metallifere, una zona vasta ricca di solfuri misti, sfruttata a più riprese prima dagli Etruschi e dai Romani, per giungere poi fino ai tempi nostri.

    Anche se l'accesso alle miniere era interdetto (e sorvegliato), potevi sempre arrivare sulle discariche facendo dei larghi giri, attraversando spesso boschi impervi ed altri ostacoli naturali.

    Qui il materiale di scarto che non interessava l'industria mineraria veniva gettato in zone scoscese dove sarebbe rimasto nei secoli a venire, se la pazienza dei numerosi cercatori di minerali non l'avesse salvato dalla trasformazione in altre sostanze chimiche per l'azione combinata dell'acqua piovana e della esposizione all'aria.

    Quarta tappa: Monticiano - Murlo, 25 km, circa 40 minuti. Superammo Monticiano, senza degnare di uno sguardo la vicina Abbazia di San Galgano, uno dei luoghi più incantevoli della Toscana. Nemmeno ci interessava il vicino santuario di Montesiepi, dove secondo la tradizione visse gli ultimi anni della sua breve vita il santo pregando davanti alla sua spada da cavaliere conficcata a forza nel terreno.

    Vi viene in mente qualcosa? Stai a vedere che la tanto decantata leggenda della spada nella roccia di Re Artù ha origini toscane!

    Dieci chilometri di strada sterrata ed a tratti spettacolari ti portavano nella Valle del Merse per poi risalire, dopo un brevissimo tratto sulla SS 223, su un'altra stradaccia poco battuta che arrivava - finalmente - al paesino di Murlo.

    Quattro ore e rotte per fare 180 km!!!!

    Impensabile in questo primo quarto del XXI secolo. Una media di poco superiore a 40 kmh. Tutto sommato non male per un'auto popolare di quasi 10 anni, progettata venti anni prima per divorare chilometri con un modesto quattro cilindri, 1.200 di cilindrata, raffreddato ad aria, la cui velocità massima toccava, in discesa, i 115 kmh (se avessimo avuto un cinquantino moderno avremmo fatto prima!).

    Passammo il tempo a chiacchierare, di miniere, di minerali, di ragazze e di quanto altro poteva interessare a noi ragazzi dell'epoca. Eravamo giovani, spensierati e, come qualsiasi ragazzo del mondo, pensavamo di cambiare tutto solo con la forza della nostra gioventù.

    A Murlo, ci giungemmo a metà del pomeriggio. A giudicare dagli addobbi floreali vi era in corso una funzione religiosa. La via principale, perché senz'altro vi erano altre vie, anche se non mi ricordo di averne viste, era moderatamente gremita di villici.

    Tutti rigorosamente con l'abito della festa, bambini e bambine inghirlandati seguivano una modesta processione capitanata da un prete in pompa magna coi paramenti del caso.

    Le donne rigorosamente con la pezzola, come allora chiamavamo quel pezzo di stoffa quadrato che veniva piegato a triangolo e poi appoggiato in testa, fissandolo poi sotto il mento con un nodo. Aveva una duplice funzione, proteggeva la testa dal caldo o dal freddo e dichiarava al mondo intero lo status sociale della proprietaria. Le donne che non lo avevano non erano considerate persone per bene. A vederle così conciate con gli occhi di adesso, con abiti sobri e scarpe informi, avrebbero potuto essere scambiate per abitanti di un paese islamico moderato.

    E noi ci si stupisce - oggi - per gli atteggiamenti composti degli abitanti di tali paesi. Solo il grosso crocifisso in legno antico, in testa alla colonna, ci ricordava che eravamo in un paese devotamente cattolico osservante.

    Noi invece eravamo i classici intrusi.

    La macchina l'avevo lasciata all'inizio della via, quasi parcheggiata in seconda fila, parallela a un barroccio² con tanto di cavallo attaccato.

    I nostri abiti erano i classici abiti rivoluzionari dell'epoca; una sorta di uniforme per tutti i ragazzi che inneggiavano apertamente alle imprese del Che, il mitico Comandante Guevara che spadroneggiava in America latina. Camicia sbrindellata informe, pantaloni a zampa di elefante, eschimo di dubbia pulizia ed ai piedi i classici anfibi militari degli eserciti di tutto il mondo.

    Ci guardarono tutti storti. Il prete, di sottecchi, mentre continuava a salmodiare nel suo latino scolastico; i villici, dalle mani enormi, cotte dal sole e con le unghie sudicie e spezzate da una dura vita dedicata alla terra o sotto la terra; le donne - non riesco a dire signore - con le sopracciglia cespugliose che mai avevano conosciuto una pinzetta.

    Infine quello che ci guardò più storto di tutti: un tizio basso e dai baffi imponenti, nella classica uniforme di gala della Benemerita³, che teneva strettamente al braccio - forse per paura che scappasse? - una donna enorme, con tanto di collana di perle finte al collo, che guardava il mondo con sussiego, dall'alto della sua imponenza fisica e sociale.

    Il suo sguardo si posò perplesso su Marco e poi su di me, mentre un'espressione di disgusto si disegnava nel suo volto. Era lo sguardo con il quale Hercul Poirot avrebbe incenerito il suo sodale, il povero Capitano Hastings se lo avesse sorpreso a spostare un'altra volta i soprammobili sulla mensola del caminetto senza espressa autorizzazione.

    In una parola: eravamo stati inquadrati e riconosciuti come potenti sovversivi.

    Senz'altro, il Maresciallo della miserabile stazione di Murlo, mai avrà realizzato in quel momento, nè nei lunghi anni a venire della sua esistenza, che se fossimo stati veramente dei sovversivi non saremmo andati a romperci le scatole in quell'insulso paesello, giungendo tanto più durante una funzione religiosa.

    Nè le nostre espressioni poterono mitigare l'acredine palpabile che si stava formando nel substrato della popolazione residente.

    Marco aveva assunto la sua classica espressione imbronciata da Bello-dalle-sette-ciglia-che-tutte-lo-vogliono-e-nessuno-lo-piglia, che stava provocando furiosi e continui segni della croce a ripetizione da parte del minuscolo gruppo di Figlie di Maria, intruppate da una smilza suorina baffuta che stentava a mantenere l'ordine.

    Io mi guardavo intorno con un sorriso che avrebbe voluto essere gioviale, ma appariva solo ebete dopo una giornata passata al volante. Quando entrammo nel modesto locale pubblico che fungeva da bar, osteria e spaccio (il termine supermercato era ancora lontano da venire) le nostre suole rimbombarono sull'impiantito in legno consumato dall'incuria.

    Alcune facce sbigottite si girarono verso di noi, inquadrando in un attimo il nostro portamento e le chiome fluenti che incorniciavano i volti.

    Anzi, non sono nemmeno sicuro, dato il tempo trascorso, se il giocatore di carte nell'angolo più appartato, che stava per abbassare con forza la carta in mano col braccio sollevato, non si sia impappinato nell'urlare Scopa!

    In un'assoluta assenza di rumori avanzai con fare che avrebbe voluto essere indifferente, fino al bancone di mescita, mentre Marco, deviando leggermente la sua traiettoria, apriva destramente una piccola teca in vetro e afferrava il lurido e unico cornetto che sembrava esser lì dal paleolitico superiore.

    Il gestore, dopo un attimo di stupore, aveva ripreso ad asciugare con uno straccio un bicchiere dal vetro spesso, mentre continuava a valutarci di sottecchi.

    Guardai la parete oltre a lui chiedendomi dove fosse la macchina del caffè. Niente. Dietro di me avvertivo lo sgranocchiare di Marco che in pochi secondi aveva fatto fuori il povero cornetto.

    Per darmi un contegno mi rivolsi al mio compagno d'avventure:

    «Cosa prendi Marco?»

    Non mi rispose era tutto preso a cercare con gli occhi qualcos'altro da inghiottire.

    Ma gli davano mangiare a sufficienza a casa? Durante il giorno aveva fatto fuori una pagnotta di rispettabili proporzioni, riempita di insaccati vari, ed ora eccolo lì, allupato come un indigeno del Pakistan Orientale dopo quattro mesi di digiuno.

    Con un suono gutturale rivolto al barista ne richiamava l'attenzione sulla sua prossima vittima: un Buondì Motta abbandonato su uno scaffale vuoto.

    Il gestore si grattò il naso; i lunghi baffi spioventi sotto di esso mi impedivano di capirne l'espressione, gli occhi erano freddi, inespressivi, perfetti per un giocatore di tressette come senz'altro era.

    «E tu che vuoi?»

    Non era arroganza la sua, la domanda rivolta a me scaturiva dalla abitudine di rivolgersi a tutti i potenziali clienti con quella familiarità in uso nelle campagne.

    Mi guardai intorno, la fame atavica di Marco non mi riguardava; avevo una sete del diavolo, avevo bisogno di bere qualcosa che mi calmasse l'arsura di quel caldo inizio giugno.

    Di bibite nemmeno l'ombra, caffè idem, l'acqua che scaturiva dal rubinetto sembrava marrone, optai per la richiesta classica:

    «Un bicchiere di vino.»

    Tre pezzi dolci e due bicchieri dopo uscimmo dallo spaccio. Avevo provato a chiedere al barman se poteva indicarci la strada per il Fosso della chiesa, amena località presso la quale, secondo le nostre fonti, doveva esserci una vecchia miniera abbandonata dove iniziare la nostra ricerca, ma quello si limitò a scuotere il capo in segno di diniego.

    Una volta fuori percorremmo a ritroso la strada principale per ritornare all'auto. Alzando il capo mentre parlottavamo tra noi mi accorsi che la folla si era in parte diradata, non tutta, però.

    Rimaneva un gruppuscolo di persone in fondo alla strada, vicino al barroccio dove avevamo lasciato l'auto.

    Guardando con più attenzione riconobbi il graduato con signora allegata, il prete e un altro paio di tipi che confabulavano guardandoci di sottecchi. Sembravano tutti interessati al povero Maggiolino, ne guardavano l'interno come se l'avessimo riempito, male, di letame.

    E si che vi erano altre auto in quel paese. Avevo notato un vecchio 1100 Fiat dal muso lungo ed i parafanghi esterni secondo la moda degli anni '50, una Topolino Belvedere e in lontananza una NSU Prinz 4, la cui sagoma caratteristica ricordava tanto una scatola di sardine.

    «Abbiamo visite.»

    Mormorai. Nessuno fiatò; né loro, né, tantomeno, noi.

    Con indifferenza rimontammo sul Maggiolino, misi in moto, feci inversione a U sulla stretta strada ed uscimmo dal paese in parata, schivando con destrezza un paio di galline, mentre il mitico motore tedesco lanciava il suo caratteristico suono, una sorta di scurreggina persistente all'indirizzo di chi non ci apprezzava.

    Ricordo perfettamente cosa successe e cosa avremmo potuto trovare come minerali a Murlo, anche se non si trovò niente.

    Nei dintorni, come si può leggere sulle varie pubblicazioni del settore, sono citati alcuni minerali interessanti, come a La Befa, alla Miniera del Fosso della Chiesa, ecc. Su tutti capeggia la rodocrosite, carbonato di manganese, che si presenta in un bel rosa con cristalli romboedrici ed è facilmente solubile negli acidi. Questo ha fatto sì che fino alla fine degli anni '70 del XX secolo venisse ricercato quale minerale utile per ottenerne il manganese.

    Inoltre nella zona di Murlo è facile trovare analcime, laumontite e prehnite, nonché altri minerali appartenenti al gruppo delle zeoliti.

    Un lettore attento potrebbe chiedersi, ma allora perché ricordare proprio questa escursione? Questa piccola avventura da un'idea delle difficoltà che all'epoca si incontravano nel fare ricerca. La gente, gli abitanti dei piccoli paesi sperduti fra colline e montagne, al di là delle grandi vie di comunicazione, vivevano una vita chiusa nel loro ristretto mondo.

    In un paese come Murlo, in cui le uniche fonti di sostentamento erano le attività primarie, sopra e sotto la terra, gli echi del mondo normale arrivavano distorti e confusi.

    Non si era ancora sviluppata quella motorizzazione di massa che, unita ad una maggiore presa di coscienza del territorio, ai salari un po' più alti e al susseguente avvento del tempo libero, avrebbero portato allo sviluppo di quelle forme di turismo spicciolo a cui ora siamo abituati.

    In una parola l'arrivo di due estranei nella comunità era vissuto come un attacco frontale al proprio vivere quotidiano.

    Seguendo la carta proseguimmo verso sud in direzione di La Befa. Fu presto chiaro che rischiavamo di inoltrarci su una strada secondaria, nei boschi, di notte, senza punti di riferimento.

    Al boschetto successivo decidemmo di piantare il campo.

    Era alla fine di un lungo rettilineo che attraversava campi coltivati, poi una leggera curva a sinistra, questa parte del viaggio mi è rimasta scolpita nella memoria, pur non avendo, purtroppo, alcuna foto di questa gita. Seguiva un accenno di bosco, una radura sulla destra, piuttosto ampia e, nel mezzo di essa, diverse balle di fieno lasciate lì in apparente confusione.

    Il sole ormai al crepuscolo tingeva il cielo di mille colori, le ombre si allungavano ed il nostro Maggiolino, accortamente appoggiato su uno stradello al di là del mucchio di fieno, con il suo inconfondibile colore beige, si mimetizzava con il panorama delle balle di fieno.

    Sia io che Marco eravamo entusiasti del luogo. Mangiammo quel che rimaneva dei panini e del formaggio che era avanzato, bevemmo l'acqua dalle borracce di metallo che portavamo con noi, finimmo un fiasco di vino comprato al famoso bar di Murlo, poi il buio della notte ci avvolse.

    Fu allora che Marco esclamò:

    «Perché montare la tenda? Guarda che bellissima notte! Il cielo è tutto stellato. Dormiamo qui, sulle balle di fieno.»

    Non ero d'accordo. Il

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