Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'alienista
L'alienista
L'alienista
E-book673 pagine9 ore

L'alienista

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Su Netflix la serie più attesa dell'anno

Bestseller del New York Times
Un successo internazionale pubblicato in oltre 24 Paesi

NEW YORK 1896. Il reporter John Schuyler Moore riceve la chiamata inaspettata di Laszlo Kreizler – psicologo e “alienista” –, un suo amico di vecchio corso. Il dottore lo prega di raggiungerlo al più presto per assistere al ritrovamento di un cadavere. Il corpo è stato orrendamente mutilato e poi abbandonato nelle vicinanze di un ponte ancora in costruzione. La vista di quel macabro spettacolo fa nascere nei due amici un proposito ambizioso: è possibile creare il profilo psicologico di un assassino basandosi sui dettagli dei suoi delitti? In un’epoca in cui la società considera i criminali geneticamente predisposti, il giornalista e il dottore dovranno fare i conti con poliziotti corrotti, gangster senza scrupoli e varia umanità. Scopriranno, a loro spese, che cercare di infilarsi nella mente contorta di un assassino può significare trovarsi di fronte all’orrore di un passato mai cancellato. Un passato pronto a tornare a galla di nuovo, per uccidere ancora.

Bestseller internazionale pubblicato in oltre 24 Paesi
Su Netflix la serie TV più attesa dell'anno 

«Un thriller coraggioso, appassionante e imperdibile.»
Los Angeles Times

«Una storia con un intreccio che terrà i lettori con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.»
Entertainment Weekly

«Appassionante, intelligente e divertente.»
USA Today

«Tiene i lettori avvinti come pochi altri romanzi.»
San Francisco Chronicle

«Avvincente.»
Newsweek
Caleb Carr
È un autore americano e uno storico militare. Ha scritto in tutto dieci libri, tra cui L’alienista, vincitore di numerosi premi e diventato un bestseller internazionale tradotto in oltre 24 Paesi, diventato presto una serie.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2017
ISBN9788822717290
L'alienista

Correlato a L'alienista

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'alienista

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'alienista - Caleb Carr

    1838

    Titolo originale: The Alienist

    Copyright © 1994 by Caleb Carr

    Afterword copyright © 2006 by Caleb Carr

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Annamaria Biavasco e Valentina Guani

    Prima edizione: novembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1729-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Caleb Carr

    L’alienista

    Questo libro è dedicato a Ellen Blain,

    Meghann Haldeman,

    Jack Evans e Eugene Byrd

    Coloro che son giovani da vecchi, non posson che esser vecchi da giovani.

    JOHN RAY, 1670

    Nota

    Fino al ventesimo secolo coloro che soffrivano di disturbi mentali venivano definiti alienati, e non solo dal resto della società degli uomini, bensì dalla loro stessa natura. Gli esperti che studiavano le patologie mentali erano dunque noti con il nome di alienisti.

    Indice

    PARTE PRIMA. PERCEZIONE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    PARTE SECONDA. ASSOCIAZIONE

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    PARTE TERZA. VOLONTÀ

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Ringraziamenti

    Parte prima

    PERCEZIONE

    Mentre una parte di ciò che noi percepiamo viene dagli oggetti che ci stanno dinanzi, attraverso i nostri organi di senso, un’altra parte (ed è possibile sia la parte maggiore) proviene sempre dal nostro proprio cervello.

    WILLIAM JAMES, Principii di psicologia

    Pensier di sangue, d’onde sei nato?

    FRANCESCO MARIA PIAVE,

    dal Macbeth di GIUSEPPE VERDI

    1

    8 gennaio 1919

    Theodore è sottoterra.

    Scrivo queste parole e mi sembrano senza senso, così come l’immagine della sua bara calata in una fossa di terra sabbiosa vicino a Sagamore Hill, il luogo che più amò nella vita. Lì, oggi pomeriggio, nel freddo vento di gennaio che soffiava dal Long Island Sound, pensavo fra me che doveva essere uno scherzo, che di lì a poco avrebbe forzato il coperchio e ci avrebbe folgorati con il suo straordinario sorriso, assordandoci con un’acuta risata. Avrebbe senz’altro esclamato che c’era da fare – «Al lavoro!» – ordinandoci di proteggere qualche oscura specie di tritone dagli attacchi di un avido colosso industriale deciso a costruire una fetida fabbrica sul luogo di cova del piccolo rettile. Non ero l’unico a nutrire simili fantasie: tutti, al funerale, si aspettavano qualcosa del genere, glielo si leggeva chiaro in faccia. Sembra proprio che il Paese intero, forse addirittura il mondo intero, non riesca a farsene una ragione: l’idea che Theodore Roosevelt se ne sia andato è semplicemente inaccettabile.

    In realtà il suo declino era cominciato da più di quanto si volesse ammettere, perlomeno dall’epoca della morte di suo figlio Quentin, negli ultimi giorni della grande guerra. Una volta Cecil Spring Rice fece notare, con un misto di affetto e ironia tutto britannico, che nella vita Roosevelt era sempre stato «un bambino di sei anni»; e Herm Hagedorn sottolineò che, da quando l’aereo di Quentin era stato abbattuto nell’estate del 1918, «il bambino che era in Theodore si era spento». Stasera ho cenato con Laszlo Kreizler da Delmonico’s e gli ho ricordato il commento di Hagedorn, ottenendo in cambio la tipica spiegazione appassionata, durata le due portate successive, sul perché la morte di Quentin non si fosse limitata a spezzare il cuore a Theodore: egli si era sentito in colpa, profondamente in colpa, per avere instillato nei figli la filosofia della vita ardimentosa, tanto che questi si lanciavano deliberatamente in imprese spericolate sapendo che il padre sarebbe stato fiero di loro. La sofferenza del lutto era quasi intollerabile per Theodore, questo lo sapevo: ogni qualvolta aveva dovuto affrontare la morte di una persona cara, mi aveva dato l’impressione di non essere in grado di reggere al dolore. Ma fino a stasera e al discorso di Kreizler non mi ero mai reso conto di quanto anche l’incertezza morale costituisse un peso intollerabile per il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti, il quale pareva a volte considerarsi la Giustizia fatta persona.

    Kreizler… Non è voluto venire al funerale, anche se a Edith Roosevelt avrebbe fatto piacere. Ha sempre avuto un debole per colui che chiama l’enigma, il brillante medico i cui studi sulla mente umana hanno tanto turbato l’opinione pubblica negli ultimi quarant’anni. Kreizler le ha scritto un biglietto spiegandole che l’idea di un mondo senza Theodore lo rattristava e che, all’età di sessantaquattro anni, avendo passato la vita a guardare negli occhi le realtà più cupe, aveva intenzione di concedersi una deroga e di fingere che l’amico non fosse scomparso. Oggi Edith mi ha detto che le parole di Kreizler l’hanno commossa fino alle lacrime, facendole comprendere come lo sconfinato affetto ed entusiasmo di Theodore, che tanto infastidiva i cinici e, devo ammetterlo per correttezza professionale di giornalista, talvolta era difficile da digerire anche per gli amici, fosse riuscito a colpire un uomo il cui distacco dall’umana società sembrava a tutti o quasi insuperabile.

    Alcuni colleghi del «Times» mi avrebbero voluto a una cena in suo onore, ma una serata tranquilla con Kreizler mi è parsa più appropriata. Se abbiamo brindato, non è stato per nostalgia di una giovinezza trascorsa insieme a New York, perché Laszlo e Theodore si conobbero soltanto ad Harvard. No, i nostri ricordi sono semmai riandati alla primavera del 1896 – quasi un quarto di secolo fa! – e a una serie di avvenimenti che ancora oggi paiono troppo bizzarri per essere veramente accaduti, persino in questa città. Finito il dessert e il Madeira (ed è significativo che per la cena abbiamo scelto Delmonico’s, che ora è sul viale del tramonto come tutti noi, ma che in quei giorni frenetici ospitò alcune fra le nostre riunioni più importanti) abbiamo riso scuotendo il capo, stupiti di essere usciti vivi da quella storia e tuttora mesti, l’ho letto negli occhi di Kreizler e l’ho sentito dentro di me, al pensiero di chi non aveva avuto altrettanta fortuna.

    Non è semplice da spiegare. Con il senno di poi potrei dire che le nostre tre vite, così come quelle di molti altri, sembravano inevitabilmente destinate a passare attraverso quell’esperienza, ma così facendo infrangerei la regola del determinismo psicologico e metterei in dubbio la funzione della volontà, riaprendo, in altre parole, il dilemma filosofico che, come l’unico motivo orecchiabile in un’opera difficile, informò tutte le nostre azioni in quei giorni d’incubo. Oppure potrei dire che in quei mesi Roosevelt, Kreizler e io, assistiti da persone fra le migliori che abbia mai conosciuto, dando la caccia a un mostro assassino ci ritrovammo faccia a faccia con un bambino spaventato; ma sarebbe un’affermazione troppo vaga, troppo intrisa di quell’ambiguità che tanto affascina i romanzieri moderni e che ultimamente mi tiene lontano dalle librerie e dentro ai cinematografi. No, c’è una sola cosa da fare: raccontare tutta la storia, sin dalla prima raccapricciante notte e dal primo corpo orrendamente mutilato; anzi, ancor prima, sin dai tempi del professor James ad Harvard. L’unico modo è scavare nel passato e raccontare alla gente tutto quel che successe.

    Forse a molti non piacerà: è stato proprio il timore della reazione dell’opinione pubblica, infatti, a costringerci a mantenere il segreto per tanti anni. Nemmeno i necrologi di Theodore hanno accennato alla vicenda. Nell’elencare le sue imprese di presidente della Commissione di Polizia della città di New York dal 1895 al 1897, solo l’«Herald», oggi di scarsissima diffusione, citava con un certo disagio «e, naturalmente, la soluzione della catena di efferati omicidi che nel 1896 terrorizzò la città». Eppure, Theodore non si attribuì mai il merito di quella soluzione. Vero è che, nonostante le preoccupazioni, fu abbastanza aperto di mente da affidare l’indagine all’unico uomo realmente in grado di risolvere il mistero; ma, come sempre riconobbe in privato, quell’uomo era Kreizler.

    Pubblicamente non avrebbe potuto dichiararlo. Theodore sapeva bene che a quell’epoca gli americani non erano pronti a credergli, e neppure ad ascoltare spiegazioni. E oggi? Lo sarebbero? Kreizler ne dubita. Quando gli ho detto che avevo intenzione di scrivere questa storia, mi ha rivolto una delle sue risatine sarcastiche e mi ha risposto che servirebbe solo a spaventare e a orripilare la gente, niente di più. Il Paese, ha dichiarato stasera, non è cambiato granché dal 1896, nonostante gli sforzi compiuti da Theodore e da altri, come Jake Riis, Lincoln Steffens e da tutti gli uomini e le donne del loro stampo. Secondo Kreizler, noi americani siamo ancora in fuga. Nel privato, fuggiamo veloci e spaventati come allora, fuggiamo dall’oscurità che intuiamo nascosta dietro le porte di case apparentemente tranquille come le nostre, fuggiamo dagli incubi instillati nei bambini da coloro nei quali per natura dovrebbero trovare amore e fiducia; fuggiamo, sempre più veloci e numerosi, verso pozioni, polverine, preti e filosofie che promettono di cancellare tali paure e tali incubi chiedendo in cambio solo una servile devozione. Che abbia davvero ragione?

    Ma anche questa è ambiguità. Meglio cominciare dal principio.

    2

    Il rumore di qualcuno che bussava con tutte le sue forze alla porta di casa di mia nonna, al 19 di Washington Square nord, fece uscire sulla soglia delle rispettive camere prima la cameriera e poi mia nonna in persona, alle due del mattino del 3 marzo 1896. Io mi trovavo a letto, in quello stato non più di ubriachezza ma non ancora di lucidità che di solito si allevia con il sonno, e sapevo che, chiunque fosse, probabilmente cercava me e non mia nonna. Nascosi la testa sotto i cuscini foderati di lino, sperando che si arrendesse e se ne andasse.

    «Signora Moore!», chiamava intanto la cameriera. «Fa un baccano infernale, devo andare ad aprire?»

    «Nient’affatto», replicò mia nonna nel suo tono secco e grave. «Piuttosto, sveglia mio nipote, Harriet. Avrà senz’altro dimenticato di pagare un debito di gioco!».

    A quel punto sentii dei passi che si dirigevano verso camera mia e decisi che mi conveniva prepararmi. Vivevo con mia nonna dalla rottura del fidanzamento con Julia Pratt, di Washington, avvenuta circa due anni prima, e col passare dei mesi l’anziana signora era diventata sempre più scettica riguardo al modo in cui trascorrevo il mio tempo libero. Le avevo ripetutamente spiegato che, in quanto cronista giudiziario del «New York Times», era mio dovere visitare le zone e i locali più malfamati della città e frequentare personaggi non proprio esemplari, ma lei conservava un ricordo troppo chiaro dei miei trascorsi giovanili per accettare quella storia evidentemente poco plausibile. Il mio contegno abituale al rientro a casa contribuiva inoltre a rafforzare la sua idea che fosse per indole, e non per dovere professionale, che mi recavo ogni sera nelle sale da ballo e ai tavoli da gioco del Tenderloin. Avendo dunque udito l’ultimo commento rivolto alla cameriera, mi resi conto che dovevo assolutamente dare l’impressione di essere un uomo sobrio, con cose serie per la testa. Mi infilai in fretta e furia una vestaglia di seta nera, mi ravviai i capelli corti e arruffati e aprii altezzosamente la porta proprio nel momento in cui Harriet sopraggiungeva.

    «Ah, Harriet», dissi calmo, una mano nascosta sotto la vestaglia. «Niente paura, stavo rivedendo alcuni appunti per un articolo e mi sono accorto di aver lasciato del materiale in ufficio. Dev’essere il fattorino che è venuto a portarmelo».

    «John!», strillò in quel momento mia nonna, mentre Harriet annuiva confusa. «Sei tu?»

    «No, nonna», risposi scendendo in fretta le scale coperte da una spessa passatoia persiana. «È il dottor Holmes». Il dottor H.H. Holmes era un truffatore e assassino di straordinario sadismo, a quell’epoca in attesa di essere giustiziato mediante impiccagione a Philadelphia. La possibilità che riuscisse a evadere prima dell’appuntamento con il boia e a venire a New York per farla fuori era, per qualche motivo inspiegabile, l’incubo più spaventoso di mia nonna. Arrivato alla porta della sua camera le diedi un bacio sulla guancia, che lei accettò senza sorridere, pur essendone compiaciuta.

    «Non essere insolente, John. È la tua qualità meno attraente. E non credere di rabbonirmi con il tuo fascino». Alla porta intanto avevano ripreso a bussare e una voce di ragazzo gridava il mio nome. Mia nonna si fece ancor più corrucciata. «Chi diamine è e che cosa diamine vuole?»

    «Credo sia un fattorino dell’ufficio», dissi, continuando a mentire e chiedendomi io stesso con un certo turbamento chi fosse a mettere a tanto dura prova il portone.

    «L’ufficio?», ripeté mia nonna incredula. «Be’, va’ ad aprire, allora».

    A passi rapidi ma prudenti arrivai in fondo alle scale, dove mi accorsi che in effetti conoscevo quella voce, anche se non riuscivo a identificarla con precisione. Né mi rassicurava il fatto che si trattasse di una voce giovane: alcuni dei ladri e degli assassini più spietati che avevo conosciuto nella New York del 1896 erano appena adolescenti.

    «Signor Moore!». Il giovanotto continuava a invocare il mio nome, accompagnando i pugni che dava sulla porta con qualche energica pedata.

    «Devo parlare con il signor John Schuyler Moore!».

    Mi fermai nell’atrio dal pavimento di marmo bianco e nero. «Chi è?», chiesi, con una mano sul chiavistello.

    «Sono io, signore! Stevie!».

    Con un sospiro di sollievo aprii il pesante portone di legno. Fuori, alla luce fioca di una lampada a gas, l’unica che mia nonna si fosse rifiutata di sostituire con una lampadina elettrica, c’era Stevie Taggert, soprannominato Stevepipe. Nei primi undici anni della sua vita Stevie era riuscito a diventare la maledizione di ben quindici distretti di polizia, ma in seguito era stato riportato sulla retta via da un famoso medico e alienista, il mio amico Laszlo Kreizler, di cui era adesso cocchiere e galoppino. Stevie si appoggiò a una delle colonne bianche davanti alla porta, cercando di riprendere fiato; era chiaramente terrorizzato.

    «Stevie!», esclamai, notando che la sua lunga chioma di capelli castani e dritti era arruffata e bagnata di sudore. «Che cosa è successo?». Alle sue spalle riconobbi il piccolo calesse di Kreizler. La vettura nera aveva il mantice abbassato ed era tirata da un cavallo castrato anch’esso nero, di nome Frederick. Come Stevie, l’animale era madido di sudore e fumava nell’aria fredda della notte. «Il dottor Kreizler è qui?»

    «Il dottore mi manda a chiederle di venire con me!», rispose di slancio Stevie, che aveva ormai ripreso fiato. «Subito!».

    «Ma dove? Sono le due del mattino…».

    «Subito!». Evidentemente non era in grado di fornire spiegazioni, per cui gli dissi di attendere che mi vestissi. Mentre mi infilavo qualcosa, mia nonna mi gridò da dietro la porta chiusa della camera che qualunque cosa «quell’originale del dottor Kreizler» e io avessimo intenzione di fare alle due del mattino, era certa non fosse nulla di rispettabile. Facendo del mio meglio per ignorarla, mi precipitai fuori mentre ancora finivo di indossare il cappotto di tweed, e saltai in carrozza.

    Non ebbi neppure il tempo di sedermi che già Stevie incitava Frederick con un lungo frustino. Lasciandomi cadere sul sedile di pelle bordeaux, fui tentato di rimproverare il ragazzo, ma la sua espressione spaventata mi colpì nuovamente. Mi tenni forte mentre la carrozza sbandava a velocità allarmante sul selciato di Washington Square. Sobbalzi e scossoni si attenuarono solo in parte sui lastroni che pavimentavano Broadway. Eravamo diretti downtown, verso est, in quella parte di Manhattan in cui Laszlo Kreizler esercitava la sua attività e in cui la vita diventava, quanto più ci si addentrava nella zona, sempre meno cara e sempre più squallida: il Lower East Side.

    Per un attimo pensai che gli fosse successo qualcosa. Ciò avrebbe certamente giustificato il nervosismo con cui Stevie frustava e conduceva Frederick, un animale che gli avevo sempre visto trattare con la massima gentilezza. Kreizler era il primo essere umano che fosse mai riuscito a ottenere da Stevie altro che morsi o pugni, ed era indubbiamente l’unico motivo per cui il ragazzo non si trovava più in quell’istituto di Randalls Island che andava sotto l’eufemistico nome di Rifugio del Fanciullo. Oltre a essere, secondo la descrizione del dipartimento di polizia, «un ladro, un borsaiolo, un ubriacone, un tabagista, un feeler» – ovvero uno che procaccia clienti per le bische – «e un soggetto socialmente pericoloso dalla nascita» e tutto questo già all’età di dieci anni, Stevie aveva assalito e gravemente menomato una delle guardie di Randalls Island, che a suo dire aveva tentato di aggredirlo. (Aggressione nel linguaggio giornalistico di una ventina di anni fa significava quasi invariabilmente violenza carnale). Dal momento che la guardia aveva moglie e figli, la sincerità e in ultima analisi anche la sanità di mente del ragazzo erano state messe in discussione. A quel punto era entrato in scena uno dei massimi esperti di psichiatria legale dell’epoca: Kreizler. All’udienza in cui si doveva decidere della sanità mentale di Stevie, Kreizler aveva magistralmente dipinto un quadro della vita di strada condotta dal ragazzo fin dall’età di tre anni, quando era stato abbandonato dalla madre, la quale aveva preferito l’oppio al figlio ed era poi diventata l’amante di un trafficante cinese. Il giudice era rimasto colpito dalla perorazione di Kreizler e non era del tutto convinto della testimonianza della guardia, ma aveva acconsentito a rilasciare Stevie solo quando Kreizler si era offerto di prendersi cura del ragazzo e di farsi garante della sua condotta futura. A quell’epoca la considerai una follia da parte di Laszlo, ma nel giro di poco più di un anno Stevie cambiò moltissimo. Come quasi tutti coloro che lavoravano per Laszlo, era affezionatissimo al suo benefattore, a dispetto del caratteristico distacco emotivo che lo rendeva tanto sconcertante agli occhi di molti.

    «Stevie», gridai per farmi sentire al di sopra del frastuono prodotto dalle ruote della carrozza sulle lastre consunte di granito, «dov’è il dottor Kreizler? Sta bene?»

    «All’istituto!», esclamò Stevie, gli occhi azzurri spalancati. Laszlo svolgeva la sua attività al Kreizler Institute for Children, una via di mezzo fra una scuola e un centro di ricerca da lui fondato una decina di anni prima.

    Stavo per chiedere che cosa ci facesse là a quell’ora, ma mi trattenni vedendo che la carrozza attraversava a tutta velocità l’incrocio ancora affollato fra Broadway e Houston Street. Come era stato acutamente osservato una volta, da quelle parti si poteva sparare un colpo di fucile in qualsiasi direzione senza il timore di colpire un solo uomo onesto; Stevie si accontentò di far balzare sul marciapiede ubriachi, giocatori d’azzardo, morfinomani e cocainomani, prostitute che abbordavano i marinai e semplici vagabondi che, una volta al sicuro, ci gridarono dietro una quantità di insulti.

    «Allora siamo diretti all’istituto?», urlai. Ma Stevie tirò bruscamente le redini per far girare il cavallo a sinistra, in Spring Street, dove gettammo lo scompiglio tra gli avventori di due o tre cosiddetti saloon, locali in cui prostitute che si spacciavano per ballerine prendevano accordi per incontrarsi in alberghi da quattro soldi con sventurati sempliciotti, in genere provenienti da fuori città. Da lì Stevie svoltò in Delancey Street, dov’erano in corso i lavori di ampliamento che le avrebbero permesso di smaltire l’aumentato afflusso di traffico dal nuovo Williamsburg Bridge, e sfrecciammo davanti ai teatri dalle luci ormai spente. A ogni angolo di strada riecheggiava il baccano disperato e frenetico delle bettole, antri sudici in cui, per un nichelino al bicchiere e su un tavolaccio lurido che fungeva da bancone, si vendevano liquori scadenti e adulterati con ogni possibile sostanza, dalla benzina alla canfora. Stevie non rallentò l’andatura: evidentemente eravamo diretti alla punta estrema dell’isola.

    Feci un ultimo tentativo di comunicare con lui: «Non andiamo all’istituto?».

    Per tutta risposta Stevie scosse la testa, poi fece schioccare nuovamente la sua lunga frusta. Alzai le spalle e tornai ad appoggiarmi allo schienale, puntellandomi con le mani contro i fianchi della carrozza e chiedendomi cosa potesse avere tanto spaventato quel ragazzo, che nella sua breve vita aveva già conosciuto la maggior parte degli orrori che una città come New York poteva offrire.

    Delancey Street ci portò, oltre le bancarelle chiuse di frutta e di vestiti, in uno dei peggiori ghetti del Lower East Side, il quartiere vicino al porto, subito sopra Corlears Hook. La strada correva in mezzo a una pietosa distesa di tuguri e di nuovi casamenti malandati: quella zona era un calderone di culture e lingue diverse, popolata in prevalenza da immigrati irlandesi a sud di Delancey Street e da ungheresi a nord, verso Houston Street.

    Qua e là, tra file e file di squallide abitazioni con il bucato steso ad asciugare anche in quella mattina freddissima, sorgeva una chiesa di qualche confessione. Alcuni capi di vestiario o di biancheria, induriti dal gelo, sbattevano rigidi al vento assumendo angolazioni apparentemente innaturali; ma, in realtà, in quel luogo dove sagome circospette, spesso vestite di stracci, passavano frettolose da portoni oscuri a vicoli ancor più bui camminando scalze sullo strato gelato di sterco di cavallo e di fuliggine che copriva le strade, non c’era nulla che si potesse veramente definire innaturale. Eravamo in una zona in cui non esistevano leggi, né umane né di ordine diverso, una zona che immancabilmente ci si lasciava alle spalle con sollievo.

    Verso il fondo di Delancey Street l’odore di acqua salmastra e il tanfo dei rifiuti che quotidianamente la gente scaricava oltre la riva di Manhattan si fondevano, creando l’aroma caratteristico di quella pozza che siamo soliti chiamare East River. Ben presto davanti a noi comparve una grande struttura inclinata: la rampa d’accesso al nascente Williamsburg Bridge.

    Senza fermarsi, e con mio grande sgomento, Stevie affrontò la salita di assi sulle quali gli zoccoli del cavallo e le ruote della carrozza producevano un fracasso ancora più assordante che sulla pietra.

    La rampa, sorretta da un complicato intrico di pali d’acciaio, si levava a circa tre metri di altezza nel buio e, mentre mi chiedevo dove potessimo mai essere diretti, dato che le torri erano tutt’altro che finite e mancavano anni all’inaugurazione del ponte, cominciai a distinguere in lontananza qualcosa che assomigliava a una grande pagoda. Realizzata con enormi blocchi di granito e coronata da due tozze torri di guardia circondate da un’esile passerella di metallo, quella strana costruzione era il pilone del ponte dalla parte di Manhattan, a cui in seguito sarebbero stati fissati gli enormi cavi di acciaio che reggono la campata centrale. In un certo senso, però, l’impressione che si trattasse di un tempio non era completamente ingiustificata: come il ponte di Brooklyn, di cui scorgevo gli archi gotici stagliarsi contro il cielo notturno a meridione, quel nuovo collegamento con l’altra sponda dell’East River avrebbe richiesto il sacrificio di innumerevoli vite di operai al culto dell’Ingegneria, che negli ultimi quindici anni aveva prodotto meraviglie troneggianti su tutta Manhattan. Ciò che non sapevo era però che il sangue versato quella notte in cima al pilone occidentale del Williamsburg Bridge era di natura assai diversa.

    Vicino all’ingresso delle torri, alla sommità del pilone, stazionavano numerosi poliziotti illuminati dalla luce tenue di alcune lampadine e delle loro lanterne portatili. A giudicare dalle mostrine in ottone, appartenevano al Tredicesimo Distretto (eravamo passati davanti alla stazione in Delancey Street pochi minuti prima). C’era anche un sergente del Quindicesimo, cosa che mi parve subito strana: nei due anni in cui mi ero occupato di cronaca nera per conto del «Times», per non parlare dell’intera infanzia trascorsa a New York, avevo imparato che i distretti di polizia difendevano gelosamente il proprio territorio, e verso la metà del secolo le varie fazioni avevano addirittura guerreggiato apertamente fra loro. Se il Tredicesimo aveva convocato un uomo del Quindicesimo, significava dunque che si trattava di qualcosa di grosso.

    Finalmente Stevie si fermò vicino al gruppetto di uomini vestiti di blu, balzò a terra e prese per il morso il cavallo ansimante, conducendolo verso un enorme mucchio di materiali da costruzione e di attrezzi. Il ragazzo guardò i poliziotti con la consueta diffidenza. Il sergente del Quindicesimo Distretto, un irlandese alto con una faccia pallida in cui brillava l’assenza dei grossi baffi tipici della categoria, si fece avanti e scrutò Stevie sorridendo minacciosamente.

    «Mi sbaglio o sei il piccolo Stevie Taggert?», disse con forte accento irlandese. «Non penserai che il commissario mi abbia mandato fin qui per prenderti a schiaffi, eh, piccolo farabutto?».

    Scesi dalla carrozza e mi avvicinai a Stevie, che lo guardava torvo. «Non dargli retta», dissi nel tono più comprensivo che potevo. «La stupidità si accompagna spesso alla divisa». Il ragazzo abbozzò un sorriso. «Ma non mi dispiacerebbe sapere perché mi hai portato qui».

    Stevie indicò con un cenno del capo la torre nord, quindi estrasse dalla tasca una sigaretta malconcia. «Lassù. Il dottore ha detto di salire lassù».

    Mi avviai verso la porta nel muro di granito, ma Stevie rimase accanto al cavallo. «Tu non vieni?».

    Il ragazzo rabbrividì e si voltò dall’altra parte, accendendo la sigaretta.

    «L’ho già visto una volta, e anche se non lo vedo mai più, mi basta e avanza. Quando vuole tornare a casa, signor Moore, io sono qui. Istruzioni del dottore».

    Con una certa apprensione mi voltai e andai verso la porta, dove il sergente mi bloccò sollevando un braccio. «E lei chi è, accompagnato dal piccolo Stevepipe a un’ora simile? C’è stato un delitto, lo sa?». Gli dissi come mi chiamavo e che lavoro facevo, al che sorrise scoprendo un impressionante dente d’oro. «Ah, un gentiluomo della stampa e del Times, nientemeno! Bene, signor Moore, sono appena arrivato anch’io. Chiamata urgente, pare che non si fidassero di nessun altro. Il mio nome si scrive Flynn, signore, se non le dispiace, e non dica che ero di ronda: sono sergente a tutti gli effetti. Venga, saliamo insieme. E tu comportati come si deve, Stevie, o ti rispedisco a Randalls Island in men che non si dica!».

    Stevie si voltò di nuovo verso il cavallo e borbottò: «Vai all’inferno», abbastanza forte perché il sergente sentisse. Flynn si voltò di scatto con espressione furibonda ma, ricordandosi della mia presenza, si controllò.

    «Incorreggibile, quello, signor Moore. Non riesco a immaginare che cosa ci faccia una persona come lei con uno così. Le serve come contatto con la mala, probabilmente. Venga, andiamo su. E stia attento, che è nero come la pece qui dentro!».

    E lo era davvero. Inciampando e incespicando arrivai in cima a una sconnessa rampa di scale, dove riconobbi la sagoma di un altro poliziotto, un agente di ronda del Tredicesimo Distretto, che sentendoci arrivare si voltò e poi gridò a qualcun altro: «È Flynn, signore, è arrivato».

    Le scale conducevano in un piccolo vano ingombro di cavalletti, assi, cavi, secchi di chiodi e pezzi di metallo. Dalle ampie finestre la vista spaziava in tutte le direzioni fino all’orizzonte, abbracciando la città alle nostre spalle, il fiume e le torri ancora incomplete sull’altra sponda. Accanto a una porta che dava sulla passerella sospesa intorno alla struttura c’era un ispettore barbuto, con gli occhi a mandorla, che rispondeva al nome di Patrick Connor e che riconobbi per averlo già visto al comando di polizia in Mulberry Street. Al suo fianco, c’era una figura assai più familiare, che oscillava da un piede all’altro guardando il fiume con le mani intrecciate dietro la schiena: Theodore.

    «Sergente Flynn», disse Roosevelt senza voltarsi, «è un lavoro agghiacciante quello che ci ha spinto a chiamarla, purtroppo. Agghiacciante».

    Il mio senso di disagio si acuì ulteriormente quando Theodore si girò verso di noi. Il suo aspetto non era diverso dal solito: indossava un bel completo a quadri, un po’ troppo elegante, del taglio che prediligeva in quel periodo, e gli occhiali, che come gli occhi erano troppo piccoli rispetto alla testa tozza e robusta, mentre i folti baffi ispidi mettevano in risalto il naso largo. Ciononostante, in lui vi era qualcosa di estremamente inconsueto. All’improvviso capii di cosa si trattava: i denti. I suoi denti sempre scintillanti sembravano scomparsi dietro la mascella serrata e un’espressione che pareva di intensa rabbia, o di rimorso. Qualcosa doveva averlo scosso profondamente.

    Il suo sgomento parve crescere quando mi vide. «Cosa? Moore! Che cosa diavolo ci fai qui?»

    «Piacere di vederti», gli farfugliai nervoso, tendendogli la mano.

    Me la strinse, ma con meno energia del solito. «Che cosa… Oh, scusami. Sono… sono lieto di vederti, naturalmente, lietissimo. Ma chi ti ha detto…?»

    «Detto cosa? Sono stato rapito e trascinato fin qui dal cocchiere di Kreizler. Per suo ordine, senza la benché minima spiegazione».

    «Kreizler!», mormorò Theodore preoccupato, guardando fuori della finestra con un’espressione sconcertata e quasi timorosa, assolutamente atipica per lui. «Sì, Kreizler è stato qui».

    «Vuol dire che se n’è andato?»

    «Prima che arrivassi io. Ha lasciato un biglietto. E un referto». Theodore mi mostrò il foglio che stringeva nella sinistra. «Preliminare, in ogni caso. È stato il primo medico che siano riusciti a trovare. Anche se non c’era speranza…».

    Gli posai una mano sulla spalla. «Di che cosa si tratta?»

    «Anche a me piacerebbe saperlo, signor commissario», incalzò il sergente Flynn, con un’ossequiosità disgustosa. «Dormiamo già abbastanza poco, al Quindicesimo, e preferirei…».

    «Benissimo», disse Theodore in tono duro. «Siete robusti di stomaco, signori?».

    Non risposi, e Flynn fece una battuta stupida sulla grande varietà di spettacoli macabri che aveva visto in vita sua, ma lo sguardo di Theodore rimase professionale e impassibile. Ci indicò la porta che conduceva sulla passerella esterna. L’ispettore Connor si fece da parte e Flynn uscì per primo.

    Nonostante l’apprensione, una volta all’aperto la prima cosa che notai fu il panorama ancor più straordinario che dalle finestre della torre. Oltre il fiume si scorgeva Williamsburg, un tranquillo paese di campagna progressivamente fagocitato dalla metropoli che nel giro di qualche mese sarebbe ufficialmente diventata Greater New York. A sud si stagliava il ponte di Brooklyn, e a sudovest, in lontananza, i nuovi grattacieli di Printing House Square. Sotto di noi scorrevano le acque nere del fiume…

    Fu allora che lo vidi.

    3

    È strano quanto tempo sia occorso alla mia mente per dare un senso a quell’immagine. O forse non è strano, dato che era così sbagliata, così fuori posto, così… aberrante. Come potevo aspettarmi di capire subito?

    Sulla passerella giaceva il corpo di una persona giovane. Dico persona perché, sebbene avesse gli attributi fisici di un adolescente, gli abiti (poco più di una camiciola senza una manica) e il trucco sul viso erano da ragazza. Anzi, da donna, e per giunta di dubbia reputazione. La sfortunata creatura aveva i polsi legati dietro la schiena e le ginocchia piegate in maniera tale che il viso poggiava contro la passerella di acciaio. Di calzoni o scarpe non vi era traccia; soltanto un calzino penzolava patetico da un piede. Ma quello che non gli era stato fatto…

    Il viso non sembrava contuso né livido (cipria e belletto erano ancora intatti), ma al posto degli occhi restavano solo orbite cavernose e sanguinolente. Dalla bocca spuntava un brandello di carne di incerta provenienza.

    Sulla gola vi era un enorme squarcio, anche se i lembi della ferita sanguinavano molto poco, e l’addome era solcato da tagli incrociati che lasciavano intravedere gli organi interni. La mano destra era stata tranciata di netto. La ferita in corrispondenza del pube chiariva il problema della bocca: i genitali erano stati mutilati e inseriti fra le mascelle. Anche le natiche erano state asportate, con tagli netti e profondi.

    Nel minuto o due che mi occorsero per notare questi particolari, mi parve di sprofondare in un mare di impenetrabile oscurità; poi mi accorsi che quella che in un primo momento mi era sembrata una nave che si avvicinava spumeggiando era in realtà il mio stesso sangue che affluiva alle orecchie. Temendo di sentirmi male mi voltai di scatto per aggrapparmi alla ringhiera e mi sporsi verso i flutti.

    «Commissario», chiamò Connor, uscendo dalla torre. Ma fu Theodore, con la sua corporatura asciutta e robusta da pugile, a raggiungermi per primo con un balzo.

    «Calma, John», sentii che diceva sostenendomi. «Respira a fondo».

    Seguii il suo consiglio e udii il fischio lungo, insistente, di Flynn che stava ancora osservando il cadavere. «Be’», disse, rivolgendosi al corpo senza particolare emozione. «Qualcuno ti ha conciato per bene, piccolo Giorgio alias Gloria, eh? Proprio conciato per le feste».

    «Allora conosce quel bambino, Flynn?», domandò Theodore aiutandomi ad appoggiarmi contro il muro. Iniziavo a sentirmi più saldo sulle gambe.

    «Già, commissario». Alla fievole luce mi parve che Flynn sorridesse.

    «Ma non era un bambino, proprio per niente, a giudicare da come si comportava. Cognome: Santorelli. Avrà avuto… mah, tredici anni o giù di lì. Di nome si chiamava Giorgio, ma da quando aveva cominciato a lavorare al Paresis Hall, quell’essere si faceva chiamare Gloria».

    «Quell’essere?», esclamai, asciugandomi con la manica il sudore freddo dalla fronte. «Perché dice così?».

    Il sorriso di Flynn si fece più largo. «E come lo dovrei chiamare, signor Moore? Maschio non era, per come si atteggiava, ma Dio non l’aveva creato neanche femmina. Un essere indefinito, ecco cos’era secondo me: lui e tutti quelli come lui».

    Con un gesto deciso, Theodore si portò le mani sui fianchi e strinse i pugni: aveva capito di che pasta era Flynn. «La sua analisi filosofica della situazione non mi interessa, sergente. Rimane il fatto che era solo un bambino, e che è stato assassinato».

    Flynn ridacchiò e lanciò un’altra occhiata al cadavere. «Su questo non si discute».

    «Sergente!». La voce di Theodore, sempre un po’ troppo stridula e aspra rispetto al suo fisico, risuonò ancora più acuta e Flynn scattò sull’attenti.

    «Non un’altra parola, se non per rispondere alle mie domande, intesi?».

    Il sergente assentì, ma il rancore un po’ cinico e un po’ divertito che tutti gli ufficiali di lunga data nutrivano nei confronti del commissario, che nel giro di un anno soltanto aveva raggiunto i vertici e il comando di tutto il dipartimento di polizia, continuò a trasparire dalla leggera piega che gli increspava il labbro superiore. Un particolare che a Theodore non sfuggì certamente.

    «Allora», riprese Roosevelt digrignando i denti come suo solito, quasi tranciando le parole che pronunciava. «Ha detto che il ragazzo si chiamava Giorgio Santorelli e che lavorava al Paresis Hall, il locale di Biff Ellison in Cooper Square, giusto?»

    «Sì, commissario».

    «E dove pensa che sia il signor Ellison, in questo momento?»

    «In questo momento? Be’, sarà là, signore».

    «Allora ci vada e gli comunichi che desidero vederlo domattina in Mulberry Street».

    Per la prima volta Flynn parve turbato. «Domattina. Mi perdoni, commissario, ma il signor Ellison non è tipo da prendere bene un ordine di questo genere».

    «Allora lo arresti», disse Theodore, voltandosi a guardare in direzione di Williamsburg.

    «Arrestarlo? Se arrestassimo tutti i proprietari di bar o di bordelli frequentati da ragazzi dediti alla prostituzione solo perché uno di questi viene percosso o assassinato, signore, non…».

    «Forse vorrà spiegarmi il vero motivo di tanta resistenza», disse Theodore, iniziando a flettere le dita dietro la schiena. Si avvicinò a Flynn per scrutarlo bene in faccia. «Non sarà forse che Ellison è una delle sue principali fonti di guadagno illecito?».

    Flynn sgranò gli occhi, ma riuscì a raddrizzarsi gonfiando il petto, con aria profondamente ferita. «Signor Roosevelt, sono nelle forze dell’ordine da quindici anni e ritengo di sapere come vanno le cose in questa città. Non si disturba un uomo come il signor Ellison solo perché un misero immigrato fa la fine che gli toccava in sorte».

    Era troppo, lo sapevo. E fu una fortuna per Roosevelt che lo sapessi, perché se non mi fossi lanciato a bloccarlo in quel preciso istante, avrebbe fatto a pezzi Flynn. Ma non fu facile trattenere le sue braccia possenti.

    «No, Theodore, no», gli bisbigliai all’orecchio. «È proprio quello che vuole! Se aggredisci un uomo in divisa, chiederanno la tua testa e il sindaco non potrà farci niente».

    Roosevelt ansimava, Flynn aveva ritrovato il sorriso e l’ispettore Connor e i poliziotti di ronda non accennavano a intervenire. Sapevano perfettamente che in quel momento la loro posizione era resa precaria dall’ondata di riforme che stava spazzando New York da quando la commissione Lexow, di cui Roosevelt era un esponente di rilievo, un anno prima aveva portato alla luce la corruzione in seno alla polizia, nonché l’enorme potere dei corrotti; categoria, questa, che esisteva dal giorno in cui erano nate le forze dell’ordine, e che stava semplicemente aspettando il momento buono, non appena l’opinione pubblica si fosse stancata della passeggera moda riformista, per ritornare attiva come sempre.

    «Scelga pure, Flynn», disse Roosevelt, con una dignità che la rabbia non era riuscita a scalfire. «O Ellison nel mio ufficio, o il suo distintivo sulla mia scrivania. Domattina».

    Flynn si arrese, imbronciato. «Certamente, commissario». Fece dietrofront e si avviò alla scala, borbottando qualcosa tipo: «Maledetto rampollo di buona famiglia che gioca a fare il poliziotto». Uno degli agenti di guardia ai piedi della torre venne ad annunciare che era arrivato il carro del patologo legale e che era pronto a portare via il corpo. Roosevelt disse di attendere qualche minuto, quindi congedò Connor e gli uomini della pattuglia. Rimanemmo soli sulla passerella, a parte i poveri resti di uno dei tanti giovani disperati che ogni stagione venivano vomitati dall’oceano di miseria e ignoranza del ghetto. Costretti a ricorrere a qualsiasi espediente pur di sopravvivere – e Giorgio Santorelli aveva scelto il più antico del mondo – questi ragazzi erano più soli di quanto possa immaginare chi non sappia com’erano i quartieri poveri di New York nel 1896.

    «Kreizler ritiene che il ragazzo sia stato ucciso questa sera», mi disse Theodore, guardando il foglio di carta che aveva in mano, «a giudicare dalla temperatura corporea. Pertanto l’assassino potrebbe trovarsi ancora nei paraggi. Sto facendo setacciare la zona. Ci sono altri dettagli medici e poi questo messaggio».

    Mi porse il foglio, su cui Kreizler aveva scarabocchiato in stampatello:

    ROOSEVELT: SONO STATI COMMESSI ERRORI TERRIBILI. SARÒ DISPONIBILE DOMATTINA O A PRANZO. DOBBIAMO METTERCI AL LAVORO: C’È UN PIANO.

    Cercai per un attimo di capire cosa avesse voluto dirci.

    «È seccante che sia tanto indecifrabile», fu l’unica conclusione cui giunsi.

    Theodore fece una risatina. «Sì, l’ho pensato anch’io. Ma adesso credo di aver capito. Ci sono arrivato esaminando il cadavere. Hai idea, John, di quante persone vengono assassinate a New York in un anno?»

    «Veramente no». Lanciai un’altra occhiata al corpo, ma subito mi voltai, incapace di reggere la vista della crudeltà con cui la faccia era stata premuta contro la passerella di acciaio, la mascella inferiore a un’angolazione grottesca rispetto a quella superiore. E quei buchi rossi e scuri al posto degli occhi… «Tirando a indovinare, direi centinaia. Forse anche mille, duemila».

    «Anch’io direi lo stesso», rispose Roosevelt. «E anch’io tirando a indovinare. Perché perlopiù non ci si fa nemmeno caso. Le forze dell’ordine si impegnano al massimo se la vittima è rispettabile e benestante, ma un ragazzo come questo, un immigrato dedito al meretricio… Mi vergogno ad ammettere che non abbiamo mai investigato in un caso simile. E l’atteggiamento di Flynn lo dimostra». Si portò di nuovo le mani ai fianchi. «Ma sono stanco. In questi sordidi quartieri mariti e mogli si uccidono fra loro, alcolizzati e tossicomani ammazzano gente perbene, le prostitute vengono massacrate e si suicidano a decine e tutto questo al massimo viene considerato uno spettacolo sinistro da chi lo osserva dal di fuori. È già abbastanza brutto così, ma che poi accada a un bambino e la reazione generale sia quella di Flynn… perdio, mi viene voglia di dichiarare guerra ai miei stessi uomini. Quest’anno abbiamo avuto già tre casi del genere, e la polizia non ha mosso un dito».

    «Tre?», domandai. «Sapevo solo della ragazza del Draper’s». Shang Draper gestiva un bordello tristemente famoso all’angolo fra Sixth Avenue e la Ventiquattresima strada, dove i clienti potevano comprare i favori di ragazzini (solitamente femmine, ma talvolta anche maschi) fra i nove e i quattordici anni. In gennaio una bambina di dieci anni era stata trovata morta, uccisa a percosse, in una delle stanzette del postribolo.

    «Sì, e ne sei venuto a conoscenza solo perché Draper era in ritardo con i pagamenti», commentò Roosevelt. L’amara battaglia contro la corruzione intrapresa dall’allora sindaco, il colonnello William L. Strong, e da luogotenenti come Roosevelt era stata coraggiosa, ma non sufficiente a sradicare l’attività più antica e lucrosa per i poliziotti: la raccolta di bustarelle dai gestori di saloon, sale da concerto, bordelli, fumerie di oppio e locali di vizio di ogni genere. «Uno del Sedicesimo Distretto, non so ancora chi, raccontò tutto alla stampa, sperando di riuscire a dare un giro di vite. Ma le altre due vittime erano ragazzi come questo, trovati per strada e quindi inutili come mezzi di pressione sugli sfruttatori. Quindi non se ne è mai fatta parola…».

    La sua voce si spense, coperta dallo sciabordio dell’acqua giù in basso e dal continuo sibilo del vento sul fiume. «Ed erano tutti e due ridotti così?», domandai allora, guardando Theodore che a sua volta osservava il ragazzo.

    «Più o meno. Con la gola tagliata ed entrambi rosicchiati dai ratti e dagli uccelli, come questo. Non certo un bello spettacolo».

    «Ratti e uccelli?»

    «Gli occhi», replicò Roosevelt. «Secondo l’ispettore Connor sono stati i ratti o altri necrofagi. Ma tutto il resto…».

    Nessuna sorpresa, dunque, se i giornali non avevano mai accennato agli altri due omicidi. Come aveva detto Roosevelt, i delitti apparentemente irresolubili e che colpivano i poveri e gli emarginati venivano a malapena registrati dalla polizia, e le indagini erano ridotte al minimo; quando poi le vittime appartenevano a quei settori della società di cui generalmente non si riconosceva neppure l’esistenza, le possibilità che la vicenda venisse resa nota si assottigliavano ancora di più. Mi chiesi per un attimo come avrebbero reagito i miei superiori del «Times» se avessi proposto di pubblicare un servizio su un bambino che si guadagnava da vivere dipingendosi la faccia come una prostituta e vendendo il proprio corpo a uomini più vecchi (molti dei quali in apparenza rispettabili), e che era stato orribilmente martoriato in un angolo buio della città. Sarebbe stata già una fortuna ottenere un rifiuto, credo, perché era assai più probabile finire internati d’autorità nel manicomio di Bloomingdale.

    «Sono anni che non parlo con Kreizler», riprese a riflettere Roosevelt.

    «Mi mandò una missiva molto gentile allorché…». Per un istante non trovò le parole. «In un momento particolarmente difficile della mia vita».

    Capii. Theodore si riferiva alla morte della sua prima moglie, Alice, scomparsa nel 1884 dando alla luce la figlia che ne portava il nome. Quella perdita era stata doppiamente dolorosa, in quanto seguita a poche ore di distanza dalla morte di sua madre. Theodore aveva affrontato la tragedia nel suo modo tipico, ovvero serbando gelosamente la triste e sacrosanta memoria della moglie, senza nominarla mai più.

    Cercò di riprendersi e si girò a guardarmi. «Ma il bravo dottore avrà ben avuto un motivo per mandarti a chiamare».

    «Non ne ho la più pallida idea», replicai, alzando le spalle.

    «Già», disse Theodore, con una risata affettuosa. «Sempre indecifrabile, il nostro Kreizler. E forse anch’io, come lui, negli ultimi mesi ho passato troppo tempo con persone eccentriche e malvagie. Ma credo di indovinare i suoi motivi. Vedi, John, sono stato costretto a ignorare gli altri omicidi perché nel dipartimento non c’è la volontà di svolgere indagini di questo genere e, anche se ci fosse, i nostri investigatori non sarebbero preparati a spiegare il senso di simili orrori. Ma questo ragazzo, questo corpo orrendamente straziato… La giustizia non può più chiudere gli occhi. Ho un piano, e penso che anche Kreizler ne abbia uno. Forse tu sei il tramite».

    «Io?»

    «Perché no? Come ai tempi di Harvard, quando ci conoscemmo».

    «Ma cosa dovrei fare?»

    «Accompagnare Kreizler nel mio ufficio domani mattina. Sul tardi, come suggerisce nel biglietto. Ne parleremo e vedremo il da farsi. Ma, attenzione, sii discreto: per tutti dovrà trattarsi soltanto di un incontro fra vecchi amici».

    «Accidenti, Roosevelt, e in cosa consisterà invece la riunione fra vecchi amici?».

    Ma ormai era già perso nelle sue elucubrazioni. Ignorò la mia domanda, trasse un profondo respiro, gonfiò il torace e parve molto più tranquillo di prima. «Al lavoro, Moore, dobbiamo metterci al lavoro!».

    Mi cinse saldamente le spalle, in un abbraccio di nuovo carico di entusiasmo e di certezza. Per quanto riguardava le mie certezze, morali o di altro genere, attesi invano; sapevo solo che mi stava trascinando in un’impresa che vedeva coinvolte le due persone più appassionate e determinate che conoscessi. Un pensiero che non mi confortò, mentre tornavamo verso la carrozza di Kreizler lasciando il povero Santorelli solo, lassù, sotto un cielo freddo che l’alba non accennava a rischiarare.

    4

    Con il mattino giunse anche la pioggia fredda e insistente di marzo. Mi alzai presto e scoprii che Harriet mi aveva provvidenzialmente preparato una colazione a base di caffè forte, pane tostato e frutta (avendo alle spalle una famiglia di beoni, la riteneva per esperienza indispensabile a chiunque avesse un debole per la bottiglia). Mi accomodai in veranda, che dava sul roseto ancora in letargo dietro la casa, e prima di telefonare al Kreizler Institute decisi di prendere un assaggio dell’edizione mattutina del «Times».

    Circondato dal rumore della pioggia che tamburellava sul tetto di rame e sulle vetrate, assaporai il profumo delle poche piante e dei fiori che mia nonna teneva in vita tutto l’anno, quindi presi il giornale, cercando di ripristinare il contatto con un mondo che, alla luce degli eventi della sera prima, mi sembrava improvvisamente e preoccupantemente lontano.

    «La Spagna in preda al furore», lessi; la questione del sostegno fornito dagli americani ai ribelli nazionalisti cubani (il Congresso stava discutendo se concedere lo stato di belligeranza e, quindi, il riconoscimento ufficiale della loro causa) continuava a dare serie preoccupazioni al regime corrotto e traballante di Madrid. Tom Platt, vecchia e cadaverica mente dei repubblicani, era bersaglio degli attacchi dei redattori del «Times» per aver tentato di asservire ai propri nefandi scopi l’ormai prossima trasformazione della città in Greater New York – che avrebbe compreso Brooklyn e Staten Island, nonché i vari Queens, Bronx e Manhattan. Gli imminenti congressi dei partiti democratico e repubblicano promettevano di vertere soprattutto sulla questione del bimetallismo, nel tentativo di stabilire se il vecchio sistema americano della parità aurea dovesse o meno insozzarsi con l’introduzione di una moneta d’argento. Trecentoundici negri si erano imbarcati per la Liberia, e gli italiani erano insorti perché le loro truppe erano state duramente sconfitte dagli abissini dall’altra parte del continente nero.

    Per quanto importante, nello stato d’animo in cui mi trovavo tutto ciò era di ben scarso interesse per me. Passai ad argomenti più leggeri. C’erano uno spettacolo di elefanti in bicicletta al Proctor’s Theater e un gruppo di fachiri indiani che si esibiva allo Hubert’s Museum, nella Quattordicesima strada; Max Alvary impersonava brillantemente Tostano all’Academy of Music e Lilian Russell era The Goddess of Truth all’Abbey’s. Eleonora Duse non era la Bernhardt in Camille e Otis Skinner nei panni di Amleto mostrava la stessa propensione della diva a piangere troppo spesso e con troppa facilità. Al Lyceum era in scena per la quarta settimana consecutiva Il prigioniero di Zenda. L’avevo già visto due volte, e per un attimo pensai di tornarci anche quella sera. Era un ottimo rimedio per dimenticare i crucci di una giornata qualsiasi (per non parlare delle macabre visioni di una notte straordinaria): castelli con fossati pieni d’acqua, duelli all’arma bianca, un mistero divertente e bellissime donne in deliquio…

    Ma mentre pensavo allo spettacolo, i miei occhi correvano ad altre notizie. Nella Nona strada un uomo, che da ubriaco aveva sgozzato il fratello, dopo aver di nuovo bevuto troppo, aveva sparato alla madre; ancora nessun indizio sull’efferato assassinio dell’artista Max Eglau all’Istituto per Sordomuti; un tale di nome John Mackin, che dopo avere ucciso la moglie e la suocera aveva tentato di togliersi la vita tagliandosi la gola, si era finalmente ripreso, ma adesso cercava di lasciarsi morire di fame. Le autorità lo avevano convinto a mangiare mostrandogli lo spaventoso apparecchio per l’alimentazione forzata che avrebbero usato altrimenti per tenerlo in vita fino al giorno dell’esecuzione…

    Misi da parte il giornale. Bevendo un ultimo sorso di caffè, nero e dolce, e prendendo un pezzo di pesca della Georgia, rinnovai il proposito di comprare i biglietti per il Lyceum. Stavo andando in camera a vestirmi, quando il telefono squillò e dal salotto sentii mia nonna esclamare, allarmata e indignata: «Mio Dio!». Il telefono le faceva sempre quell’effetto, ma non aveva mai preso neppure in considerazione il suggerimento di eliminarlo o anche solo di abbassare la suoneria.

    Dalla cucina fece capolino Harriet; il viso non più giovane e dai lineamenti dolci era mezzo insaponato. «Il telefono, signore», disse asciugandosi le mani nel grembiule. «È il dottor Kreizler».

    Stringendomi nella vestaglia di seta, mi avvicinai alla piccola scatola di legno vicino alla cucina, sollevai il pesante ricevitore nero accostandolo all’orecchio e posai l’altra mano sulla cornetta fissata alla parete. «Pronto? Laszlo?»

    «Dunque sei sveglio, John», esordì lui. «Bene». La voce era lontana, ma il tono energico come sempre. Aveva un leggero accento europeo; Kreizler era emigrato negli Stati Uniti da bambino, quando il padre, un facoltoso editore tedesco di fede repubblicana, e la madre, ungherese, erano sfuggiti alle persecuzioni dei monarchici nel 1848 per venire a ricostruirsi una vita piuttosto mondana come esuli politici a New York. «A che ora vuole vederci Roosevelt?», chiese, senza nemmeno prendere in considerazione l’eventualità che Theodore avesse scartato la sua proposta.

    «Prima di pranzo!», risposi alzando la voce, come se potesse servirmi a sentire meno lontana la sua.

    «Perché diavolo gridi tanto?», ribatté Kreizler. «Prima di pranzo, eh? Perfetto. Allora abbiamo tempo. Hai letto sul giornale la storia di quel tale, Wolff?»

    «No».

    «Allora leggila mentre ti vesti».

    Mi guardai la vestaglia. «Come fai a sapere che…».

    «Si trova a Bellevue. Dovrei comunque sottoporlo a una perizia, tanto vale fargli qualche domanda in più per vedere se ha a che fare con la storia che ci interessa. Poi dritti in Mulberry Street; ci fermiamo un attimo all’istituto e pranziamo da Del’s, piccioncini, direi, oppure crépinettes di piccione. La vinaigrette con i tartufi di Ranhofer è sublime».

    «Ma…».

    «Cyrus e io arriveremo direttamente da casa mia. Tu dovrai prendere una carrozza. Ci vediamo alle nove e mezzo. Cerca di non arrivare in ritardo, d’accordo? Non c’è un minuto da perdere».

    E riattaccò. Tornai in veranda, presi il «Times» e lo sfogliai di nuovo.

    L’articolo era a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1