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Guida al mercato dell'arte.
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E-book351 pagine4 ore

Guida al mercato dell'arte.

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Questo libro, divulgativo e scorrevole, ma mai banale, è dedicato ai collezionisti, agli appassionati d'arte, al pubblico che affolla le fiere d'arte, a chi è alla ricerca di nuove opportunità di investimento, ma anche ai semplici curiosi. Mettendo a frutto e condividendo la sua lunga esperienza di collezionista e studioso, l'autore fornisce strumenti di comprensione e consigli pratici, non senza svelare qualche piccolo segreto o tabù, a tutti coloro che vogliano acquistare opere d'arte sul mercato. Lo sguardo, molto originale, è rivolto ai principali canali di fruizione e commercio di opere d'arte (musei, gallerie, case d'aste, televendite, fiere e biennali), cercando di mantenere una prospettiva internazionale, obiettiva e di validità generale. Il testo non manca di analizzare le principali questioni legali e fiscali che un collezionista/investitore deve tenere presente. Non vengono neppure taciuti i lati oscuri di questo settore (come il problema dei falsi o le attività riciclaggio di denaro). Molta attenzione è posta a saper valutare un'opera d'arte, perché ogni potenziale acquisto, che sia per collezionismo o per speculazione, deve partire dal presupposto necessario di riuscire a stimare il prezzo corretto.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2022
ISBN9791221431025
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    Anteprima del libro

    Guida al mercato dell'arte. - Stefano Perrini

    1. DEFINIZIONI

    In questa prima parte introdurremo i concetti fondamentali, un po’ di terminologia e i primi ferri del mestiere. Per essere tutti sulla stessa pagina, come direbbero gli anglosassoni. Cominceremo cercando di definire l’elemento base, necessario per tutte le nostre discussioni, cioè l’opera d’arte. E qui rischieremo di sconfinare nella filosofia. Altre nozioni che introdurremo, per esempio quelle che derivano dalla teoria economica, avranno, viceversa, delle connotazioni molto pratiche. Chi non fosse alle prime armi in questo campo sarà tentato di saltare alcuni dei paragrafi che seguono; rischierebbe, però, di privarsi di qualche prezioso stimolo alla riflessione. Per i novizi le pagine che seguono sono invece di grande importanza, onde porre solide basi per affrontare il resto del libro.

    1.1 Opera d’arte

    L’arte distingue l’uomo dalle bestie. Fare arte è per l’uomo un bisogno davvero atavico: alcune grotte, come quelle di Lascaux in Francia o quelle di Altamira in Spagna, conservano straordinarie pitture rupestri che hanno decine di migliaia di anni. Ci commuove profondamente il pensiero che antenati così lontani nel tempo siano riusciti a sconfiggere la morte e abbiano lasciato una testimonianza del loro passaggio che sia riuscita a giungere fino a noi. E, naturalmente, la scintilla scoccata da questi anonimi, antichi artisti, ha generato un fuoco creativo che non si è mai sopito. Il tempo cronologico ha continuato a scorrere, e dalla preistoria siamo passati alla storia. L’arte dell’uomo ha cominciato a essere associata a dei nomi, a delle persone non più anonime. Poi alcuni artisti sono entrati in un pantheon ideale di eroi immortali che con il loro fare hanno vinto la battaglia contro l’umana finitezza terrena.

    Eppure, nonostante tutto questo, non siamo in grado di definire in modo esaustivo e soddisfacente che cosa sia un’opera d’arte. Gli sviluppi artistici del Novecento hanno reso ancora più complicato un dibattito ontologico, che già non era arrivato a un punto conclusivo. Proviamo a fare un breve riepilogo.

    Partiamo dall’opera d’arte per antonomasia, Las Meninas di Diego Velázquez. Il quadro, di notevoli dimensioni, è del 1656 ed è conservato al Prado di Madrid. Si tratta, probabilmente, dell’opera più importante dell’arte occidentale. È un’opera ambigua, con molteplici significati, sui quali noi e le generazioni di fruitori che ci hanno preceduto ci interroghiamo da secoli. Le idee che stanno dietro a questo quadro sono molte e potenti. Tuttavia, Velázquez era anche un pittore formidabile, il più bravo di tutti. L’aspetto mimetico (cioè di imitazione della realtà) e artigianale (cioè la bravura dell’artista) dell’opera, nell’arte prodotta nel Seicento, così come in tutta quella prodotta fino al XX secolo, restano aspetti assolutamente fondamentali.

    Le cose cambiano all’inizio del Novecento, con il geniale contributo di Marcel Duchamp. La storia della famigerata opera intitolata Fontana è arcinota. Duchamp sottopone come opera d’arte alla Società degli Artisti Indipendenti di New York un orinatoio, sotto lo pseudonimo di R. Mutt. L’opera viene rifiutata. Siamo nel 1917, quindi sono passati, da allora, più di cento anni. Duchamp, contrario a un’arte che lui definiva retinica, cioè fatta per l’occhio dello spettatore, si affida a ciò che chiama un Ready-made, qualcosa di già fatto e pronto. L’artista, cioè, sceglie qualcosa già realizzato da altri al di fuori del contesto artistico, lo decontestualizza e lo piazza in un museo. Nella nuova collocazione, l’oggetto non può più svolgere la propria funzione di orinatoio, in quanto è scollegato dagli impianti idraulici e, per di più, è posizionato orizzontalmente. Assurge però ad opera d’arte grazie al tocco da Re Mida dell’artista.

    Con questo tipo di opere, Duchamp ha svincolato l’opera d’arte dall’elemento artigianale e mimetico. Oltretutto, l’originale di Fontana è andato perduto e ne abbiamo testimonianza solo attraverso la foto d’epoca del grande Alfred Stieglitz, e grazie ad alcune copie prodotte da Duchamp stesso, successivamente. Questo ci introduce a due temi importanti che si preciseranno meglio nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale: non solo non è più fondamentale che l’opera d’arte esista materialmente, ma anche l’importanza dell’unicità dell’opera d’arte è messa in discussione.

    Per brevità, facciamo un salto di ben cinquant’anni (nei quali sono comunque accadute altre cose importanti per la storia dell’arte) e arriviamo alla codificazione dell’Arte Concettuale.

    Sol LeWitt è stato un grande artista minimalista americano, ma anche un grande teorico ed è stato il primo a definire l’Arte Concettuale, nel 1967:

    «Nell’Arte Concettuale l’idea o il concetto è l’aspetto più importante dell’opera. Quando un artista usa una forma concettuale in arte, significa che tutta la pianificazione e le decisioni sono fatte in anticipo e l’esecuzione è una formalit໹.

    Con Sol LeWitt, nel solco scavato per primo da Duchamp, si completa il distacco dell’opera d’arte dall’aspetto artigianale e mimetico. L’aggettivo concettuale, che prima, con la lettera minuscola, era corretto associare a tutte le opere d’arte in quanto tutte fondate su idee e tutte portatrici di idee, assume ora la lettera maiuscola, a connotare lavori di un preciso periodo storico (in particolare dal 1966 al 1972), nel quale questo aspetto diventa preponderante.

    Ma con le dichiarazioni d’intenti di un altro grande artista americano, Lawrence Weiner, nel 1969, il contesto si precisa ancora meglio e in termini ancora più crudi²:

    1. L’artista può costruire l’opera.

    2. L’opera può essere fabbricata.

    3. L’opera non deve essere necessariamente costruita.

    Quindi l’opera è nell’idea e non deve neanche essere realizzata per assurgere a opera d’arte.

    A ben vedere, la Fontana di Duchamp soddisfa già le definizioni di Arte Concettuale; tuttavia, così enunciati, questi criteri aprono un vero e proprio vaso di Pandora: letteralmente ogni attività umana diventa potenzialmente idonea alla creazione artistica e, al contempo, l’opera non deve per forza concretizzarsi in una manifestazione fisica, oggettuale. La dematerializzazione dell’opera d’arte era anche una reazione degli artisti a un fenomeno che nella letteratura anglosassone è noto come Art as a Commodity, cioè la mercificazione dell’arte. Tra i suoi teorizzatori, c’è la scrittrice, attivista, critica d’arte e curatrice statunitense Lucy Lippard. C’era l’idea, presto rivelatasi una pia illusione, che privare il mercato dell’oggetto da vendere avrebbe comportato la fine delle transazioni e l’affrancamento degli artisti dal sistema capitalistico. Come vedremo, il sistema dell’arte è sempre riuscito a trovare dei modi per consentire la compravendita e il consumo di opere, anche in casi di una loro estrema dematerializzazione.

    Ad ogni modo, considerati tutti gli elementi fin qui menzionati, proponiamo allora una possibile definizione inclusiva di opera d’arte, intendendo come tale:

    Ogni attività umana eseguita con l’intenzione di fare arte da una persona riconosciuta socialmente come artista.

    È una definizione imperfetta e insoddisfacente. Intanto, perché è auto-referente o, in termini logico-matematici, impredicativa. Dobbiamo accettare, in qualche modo, che il concetto di arte sia una specie di assioma: non riusciamo a definirla, ma ne intuiamo il significato in virtù di quel bisogno atavico che ci accompagna da migliaia di anni. Se accettiamo questo principio, allora questo tentativo di definizione può avere una certa utilità, perché mette in luce degli aspetti fondamentali.

    Innanzitutto si parla di ogni attività umana, cercando di comprendere proprio tutti gli aspetti della nostra vita: dal pensiero, all’esecuzione di gesti banali o eccezionali, all’espressione tecnica di un proprio talento (compresi il saper dipingere o scolpire), fino a pure manifestazioni corporali (il respirare, il mangiare, il dormire, il digerire, il produrre deiezioni, ecc.). A partire dall’Arte Concettuale, ogni aspetto del nostro vivere è stato oggetto di ricerca artistica.

    L’altro aspetto fondamentale è l’intenzione. Se tutto può diventare oggetto di ricerca artistica, vuol forse dire che tutto è arte? No, ci deve essere un preciso intento da parte non già di una persona qualsiasi, ma di qualcuno che – vedremo tra poco come – abbia già ottenuto in precedenza lo status di artista. Cerchiamo di fare un esempio un po’ estremo, per aiutare a capire. Prendiamo un artista affermato e supponiamo che sia impegnato al telefono; come fanno in molti, durante la telefonata, mentre parla, l’artista esegue un bel disegno su un pezzo di carta. Finita la telefonata, l’artista getta il foglio con il disegno nel cestino della carta straccia e se ne dimentica. Quel disegno non è un’opera d’arte, ma può avere solo un mero interesse documentale.

    Consideriamo lo stesso artista, il quale, a un certo punto, organizzi presso la galleria con cui collabora una performance che prevede che lui sputi per terra. Il suo sputare per terra è un’opera d’arte. L’esempio è un po’ forte, perché abbiamo un bias cognitivo che ci porterebbe ad attribuire un maggior valore artistico a un bel disegno piuttosto che a uno scaracchio per terra. Eppure, ciò che rileva nel definire un’opera d’arte non è il nostro giudizio estetico, né l’abilità tecnica impiegata o lo sforzo profuso dall’artista; tutti elementi che orienterebbero a considerare tale il disegno buttato via piuttosto che lo sputo. È rilevante solo l’intenzione dell’artista di produrre un’opera d’arte: assente per il bel disegno ed esplicita nella pur discutibile performance.

    L’intenzionalità dell’artista è necessaria, perché permette di escludere dal rango di opere d’arte tutta una serie di attività comuni che, con altre definizioni, potrebbero essere confuse come tali. Per esempio, i disegni o i lavori in creta realizzati dai nostri bambini, che potrebbero essere associati a forme d’arte tradizionali, non sono, tuttavia, opere d’arte, proprio perché manca l’ambizione di fare nulla di più di qualcosa di bello per passare il tempo. Se così non fosse e un bambino pretendesse di aver realizzato un’opera d’arte, si dovrebbe ancora verificare l’aspetto successivo, sul quale ci soffermeremo tra poco, se tale bambino sia effettivamente considerato un artista.

    Inoltre, se non dessimo importanza all’elemento intenzionale nel realizzare un’opera d’arte, non potremmo distinguerla da una qualsiasi altra attività svolta dalle persone nel loro vivere quotidiano, dato che, come detto, praticamente ogni aspetto delle nostre vite è stato oggetto di ricerche concettuali.

    Come esempio a questo proposito, consideriamo il grande artista americano di origini italiane Vito Acconci. Nel 1972 realizza un’opera (Seedbed) per la quale, nascosto sotto il pavimento in legno di una galleria, lui si masturba mentre gli spettatori visitano gli spazi della mostra. Per quanto abbiamo detto, l’intenzione di Acconci di fare un’opera d’arte è la prima discriminante, rispetto alla moltitudine di atti di autoerotismo compiuti dagli adolescenti di tutto il mondo e di tutte le epoche per puro sfogo e piacere. L’altra discriminante, che fa sì che questo atto si possa considerare arte, è il fatto che Vito Acconci fosse già un artista molto rispettato.

    Vediamo meglio questo aspetto.

    Consideriamo di porre una persona poco attrezzata a capire l’arte contemporanea in un museo, di fronte a un’opera concettuale che non richieda una particolare perizia tecnica per essere realizzata. Una delle reazioni tipiche è quella di pensare: Questa potevo farla anch’io!³. Tralasciamo pure il fatto che produrre un’opera guardandone una già fatta significa copiare, quindi al massimo si potrebbe pensare: Questa potevo ri-farla anch’io!. Per uno strano meccanismo psicologico, a questo pensiero si aggiunge oltretutto in quella persona, spesso, una specie di rabbia nei confronti di questa figura dell’artista, alla quale, per qualche oscuro complotto, è concesso guadagnarsi da vivere facendo un’opera che chiunque potrebbe fare, mentre gli altri devono faticare per la classica pagnotta, svolgendo lavori seri.

    Per provare a confutare questo modo di ragionare, poniamo mente al nostro Presidente della Repubblica, il quale, con la propria firma, provoca degli effetti su milioni di cittadini. Forse che una semplice firma non potrebbe farla chiunque? Il punto, dunque, non è la firma in sé, ma il ruolo che la società riconosce a quella persona che la appone, in virtù di una certa avvenuta legittimazione. Nel caso del Capo dello Stato, l’elezione da parte di una maggioranza qualificata di parlamentari e delegati regionali, nel rispetto di quanto stabilito dalla Costituzione, fa sì che una sua firma assuma un diverso significato rispetto a ogni altra di qualsivoglia cittadino, indipendentemente dalla difficoltà tecnica di fare un autografo, che resta evidentemente molto bassa. Il Presidente ha un ruolo socialmente riconosciuto. Allo stesso modo, in un’impresa la firma di un semplice impiegato e quella dell’amministratore delegato hanno un diverso potere e una diverso grado di responsabilità, in virtù dei diversi ruoli, internamente accettati e stabiliti attraverso contratti, organigrammi, ecc. È ragionevole che i ruoli in un’azienda siano assegnati sulla base del livello d’istruzione, delle esperienze precedenti e degli anni di carriera: in una parola, sulla base del curriculum di una persona. Ebbene, anche un artista ha un proprio curriculum ed è sulla base di quello che si può considerarlo tale. Anche nel suo caso contano la formazione, le esperienze precedenti, sotto forma di mostre fatte e gallerie che l’hanno rappresentato, così come il numero di anni dedicati all’attività artistica. Ci soffermeremo su questi e altri aspetti in maniera più approfondita nel prossimo paragrafo. Per ora è importante capire che, quando ci imbattiamo nell’opera di un artista, in un museo o in un altro luogo deputato a presentare arte, dobbiamo prendere per buono il fatto che ci sia in piedi un sistema di controlli e di legittimazione che consente solo agli artisti e non a chiunque di frequentare, con la loro produzione, certi contesti.

    Se questo non ci soddisfa appieno, riflettiamo però sul fatto che accettiamo senza porci troppi problemi analoghe convenzioni molte volte durante la nostra vita quotidiana. Non pretendiamo che l’autista ci esibisca la patente ogni volta che saliamo su un autobus, così come non discutiamo le capacità di chi ci fa il prelievo del sangue, che almeno vediamo di persona, né tantomeno di chi realizza poi le analisi, che di solito non sappiamo neanche chi sia. In tutte queste circostanze ci fidiamo del fatto che le persone abbiano un ruolo e svolgano una funzione legittimamente e con qualche sistema che le seleziona e controlla. Ciò non esclude un giudizio di merito, soggettivo: l’autista può guidare male, l’infermiere può provocarci un ematoma e le analisi essere parametrate scorrettamente. L’opera d’arte può non essere di nostro gusto ed è nostro diritto non apprezzarla, ma l’idea sottesa al: Potevo farla anche io! è sbagliata e irrilevante.

    Il fatto che un artista debba essere riconosciuto come tale da un insieme di soggetti, così come avviene per tutti i mestieri, non esclude, ovviamente, che il sistema possa talvolta premiare chi non merita, i più spregiudicati o, semplicemente, i raccomandati. Di solito, come in altri campi, il tempo fa giustizia. Questo è molto importante e la nostra definizione ne tiene conto: un’opera d’arte non è tale per sempre, ma solo fintantoché è considerata così socialmente e chi l’ha realizzata conserva il rango di artista. Con ciò la nostra definizione vale anche in diversi ambiti geografici: la stessa opera potrebbe essere considerata artistica in un ristretto ambito locale (dove l’artista gode di una certa fama), ma essere declassata a pura decorazione o artigianato in un perimetro più ampio, magari internazionale, dove l’artista sia del tutto sconosciuto.

    L’importanza del riconoscimento sociale per le opere d’arte è stata efficacemente resa da una famosa storiella di fantasia proposta, non senza successive discussioni che qui non ci interessa riprendere, dal grande filosofo dell’arte e critico americano Arthur Danto⁴. Danto aveva immaginato l’esistenza di due popolazioni primitive aventi origini comuni, che si erano però sviluppate in maniera curiosamente simmetrica. I nomi di queste due popolazioni erano, in inglese, i Pot People e i Basket Folks. Entrambe producevano vasi e cesti assolutamente identici. Per i Pot People, però, i vasi erano portatori di significati speciali e avevano poteri particolari e coloro che li fabbricavano erano degli eletti vicino agli dei, mentre i cesti erano semplici oggetti d’uso prodotti da umili artigiani. Per i Basket Folks, all’opposto, i cesti erano oggetti quasi soprannaturali e i vasi degli utensili qualunque. Ebbene, Danto dice che l’antropologo di ritorno in Occidente non esiterà a collocare i vasi dei Pot People e i cesti dei Basket Folks nel museo d’arte. Collocherà, invece, i cesti degli uni e i vasi degli altri nel museo di antropologia o storia naturale. Danto voleva dire con questo che un oggetto è d’arte se porta con sé teorie, pensieri e significati che sono riconosciuti da chi guarda e vanno al di là della sua forma o del modo di produrlo. È una questione che, ci piaccia o no, abbiamo capito con Duchamp e poi approfondito con l’Arte Concettuale. Estremizzando con un altro esempio, consideriamo La Gioconda di Leonardo, una delle opere occidentali più ammirate nei secoli e una delle attrazioni principali del Museo del Louvre di Parigi. È stata realizzata da Leonardo su tavola, per essere appesa come un quadro e guardata come facciamo ancora oggi. Ma se l’identica tavola dipinta fosse stata pensata da Leonardo come vassoio per bicchieri, cioè un bellissimo oggetto d’uso, noi guarderemmo il medesimo manufatto con occhi completamente diversi. Di nuovo, contano l’intenzione dell’artista (Leonardo voleva fare un’opera d’arte) e il riconoscimento da parte di un gruppo di persone (nessuno oggi discute Leonardo come artista).

    1.2 Artista

    L’idea che molti di noi hanno della figura dell’artista è un dannoso retaggio culturale del Romanticismo e di qualche film che l’ha reso popolare: dotato di immenso talento fin dalla nascita, spesso soffocato dalle istituzioni scolastiche, genio incompreso, spesso solitario e in disgrazia, non di rado suicida. Con grande delusione di chi è ancora legato a questi stereotipi, dovremmo invece cominciare a considerare anche quello dell’artista un mestiere come gli altri. Allora, come abbiamo anticipato nel paragrafo precedente, come qualsiasi persona che svolga un lavoro, anche per un artista è importante il curriculum. Esso deve essere caratterizzato principalmente dagli elementi che andiamo ad analizzare nel seguito:

    1. Formazione artistica. Ci sono scuole, università e accademie in tutto il mondo che preparano per diventare artisti. I corsi sono spesso tenuti, a loro volta, da importanti artisti. Una giovane che frequenti alcuni college americani molto prestigiosi ha maggiori probabilità, una volta completato il proprio ciclo di studi, di diventare un’artista di successo. Questo a smentire ulteriormente il mito romantico delle scuole che sono puro ostacolo per il genio innato dell’artista.

    2. Eventuale apprendistato. Molti grandi artisti hanno incominciato in qualità di assistenti di artisti più esperti, carpendone i trucchi del mestiere. Non è raro che si avveri la situazione del vecchio adagio in cui l’allieva supera il maestro. Ovviamente, questo aspetto del curriculum può essere molto significativo per un’artista all’inizio della carriera, mentre perde progressivamente rilevanza quando l’artista sia chiamata, a un certo punto, a esprimersi con un proprio stile autonomo.

    3. Elenco delle mostre personali e collettive. Ne parleremo in seguito più diffusamente , ma non tutte le mostre sono uguali: si pesano in maniera diversa, a seconda del curatore o della curatrice, delle gallerie e degli spazi espositivi. Per un artista sono fondamentali le mostre museali, perché i musei stabiliscono la reputazione di un autore e lo collocano nella storia dell’arte e della cultura. Un tempo, difficilmente un artista nel pieno della propria vitalità creativa aveva accesso a un’istituzione museale; negli ultimi anni le porte anche di importanti musei si sono aperte ad autori molto giovani. Naturalmente, neppure i musei sono tutti uguali, perché si va dalla grande istituzione internazionale che richiama pubblico da tutto il mondo con mostre di irreprensibile rigore scientifico alla piccola struttura di provincia che propone, accanto alla propria modesta collezione, mostre di scarsa rilevanza per svagare qualche turista di passaggio. Analogo discorso si può fare per le gallerie, perché, come vedremo, ce ne sono di molto rinomate e innovative, ma anche altre molto commerciali. Spesso il nominativo di chi ha curato una mostra può essere un indizio per stabilirne la caratura. Critici e curatori di una certa reputazione difficilmente si compromettono associando il proprio nome a mostre di scarso valore. Per fugare ogni dubbio, meglio sarebbe prendere visione di quanto prodotto per iscritto dal curatore per accompagnare una mostra: risulterebbe allora abbastanza evidente se la curatela sia stata fornita dal critico con vera convinzione oppure per il mero compenso economico.

    Per un artista le mostre personali sono sempre importanti, ma non sono da trascurare neanche le mostre collettive. In esse, l’artista vede associato il proprio nome e le proprie opere ad altri artisti. Alcune mostre collettive hanno fatto la storia dell’arte, perché hanno definito un clima culturale e dei raggruppamenti di artisti affini per tecniche utilizzate o temi affrontati. Trae particolarmente giovamento dalle mostre collettive l’artista che sia in una fase non matura della carriera e venga associato ad artisti più blasonati e maturi. Quando certi accostamenti apparissero troppo forzati e non giustificati da fondate argomentazioni critiche, dovrebbe suonare un campanello d’allarme perché la mostra potrebbe rivelarsi uno specchietto per le allodole organizzato per promuovere in maniera smaccatamente commerciale un artista.

    4. Presenza di proprie opere in importanti collezioni, private o pubbliche. Se è importante aver esposto in una mostra museale, a maggior ragione fa curriculum entrare nella collezione permanente di un museo. La mostra è sempre qualcosa di temporaneo, vuol dire essere stato di passaggio per le sale di una certa istituzione culturale; essere nella collezione permanente vuol dire legare il proprio nome a essa, quasi in maniera definitiva (a meno, ovviamente, di future dismissioni del suo patrimonio). Anche qui, quando esaminiamo il curriculum di un artista, non manca qualche caveat. Abbiamo già detto che non tutti i musei sono uguali. Ma neppure le presenze in collezioni permanenti sono tutte uguali. Un conto è se il museo ha acquistato un’opera di una data artista per inserirla nella propria collezione, e magari la espone sempre o, almeno, occasionalmente. Tutt’altro conto è se l’artista o il suo gallerista regalano un’opera a un museo, dove viene accettata perché c’è spazio in magazzino, ma i responsabili si guardano bene dall’esporla. Nel primo caso abbiamo un segnale genuino dell’importanza dell’artista, mentre nel secondo caso si tratta di una strategia di marketing per far apparire l’artista più importante di quanto non sia realmente.

    La presenza in collezioni museali fornisce un’indicazione sul valore culturale di un artista, sulla sua reputazione presso critici e storici dell’arte. Però non tutto ciò che vediamo in un museo ha grandi quotazioni sul mercato dell’arte. Se siamo interessati al valore economico di un artista, potrebbe essere più utile sapere che viene scelto da grandi collezionisti privati o grandi banche, cioè da coloro che magari raramente sbagliano un colpo o buttano via il proprio denaro.

    5. Presenza a manifestazioni internazionali (biennali, documenta, ecc.). Avremo un paragrafo nel prossimo capitolo dedicato a queste manifestazioni d’arte nazionali e internazionali. Possiamo anticipare che le più importanti a livello mondiale sono la Biennale di Venezia e documenta a Kassel. L’essere scelti per questo tipo di eventi può dare un notevole valore aggiunto alla carriera di un artista. Come al solito, dobbiamo essere molto cauti nelle nostre valutazioni, perché durante le manifestazioni principali si organizzano solitamente uno stuolo di mostre che nulla hanno a che fare con l’evento vero e proprio in termini di selezione da parte dei curatori e di visibilità da parte del pubblico, se non una coincidenza temporale e magari l’inserimento nel programma come eventi collaterali. Alcuni artisti utilizzano questo espediente per millantare partecipazioni a biennali o cose simili, ma sono delle forzature che noi dovremmo sempre verificare.

    C’è poi da ribadire il solito discorso, che preciseremo meglio quando tratteremo nel dettaglio le Biennali di Venezia: non tutte le edizioni sono riuscite bene e hanno la stessa importanza. Aver partecipato a una certa edizione della Biennale può essere fondamentale, mentre la presenza in altre edizioni potrebbe addirittura essersi rivelata controproducente. Purtroppo, dobbiamo sempre pesare tutte le informazioni.

    6. Eventuali premi e riconoscimenti in manifestazioni e concorsi d’arte. Il Turner Prize, che è il più ambito premio riservato agli artisti e alle artiste della Gran Bretagna o, in Italia, il Premio Cairo sono solo due degli esempi che si possono fare dei tanti premi per artisti e artiste che vengono organizzati in giro per il mondo. Più il premio è ambito e prestigioso, più l’essere stati selezionati con proprie opere e magari premiati da giurie qualificate e rinomate diventa significativo per il curriculum di un artista. Gli esempi fatti, così come la maggior parte dei premi esistenti, sono rivolti a persone giovani, perché spesso l’intento è proprio di aiutare l’abbrivio alle loro carriere e dare anche un sostegno economico in denaro. Non mancano, certamente, anche i premi alla carriera, come il Leone della Biennale. Va da sé che in questi casi, pur se essi vanno a riempire una riga nel curriculum delle persone vincitrici, si presuppone che, per definizione, queste vantino già una carriera importante alle spalle.

    7. Pubblicazioni. Possono essere monografie, cataloghi di mostre, recensioni, articoli su riviste specializzate, scritti di critici e curatori e così via. Qui il discorso potrebbe essere molto ampio, anche se il

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