La Roma segreta di Caravaggio
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È ancora possibile scrivere un volume su Caravaggio dopo la sterminata bibliografia di saggi, romanzi, libri d'arte e di itinerari già pubblicati sul grande pittore? Come aggiungere qualcosa di originale a un nome che di per sé costituisce ormai un'icona? Michelangelo Merisi, lombardo di nascita, abitò e lavorò a Roma tra il 1596 e il 1606. E la città, nei chiaroscuri che caratterizzano la vita del geniale artista, può senza dubbio essere definita la grande protagonista della sua vita. Fu nella Città Eterna che il Merisi divenne “Caravaggio”. Questo volume offre quindi un doppio ritratto: quello di Caravaggio e quello della sua città a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, in un viaggio che segue le vicende personali e le opere del pittore, ricostruendo quanto accadeva intorno a lui e quanto la città poteva offrirgli. Ed ecco allora che i vicoli, le osterie e i grandi palazzi prendono vita, in un itinerario che emerge dai dettagli nascosti nelle sue opere più celebri, senza trascurare i grandi personaggi con cui l'artista entrò in contatto.
Roma, indiscussa protagonista della vita dell’artista, ha visto fiorire e crescere il suo straordinario genio
Tra gli argomenti trattati:
• L’arrivo a Roma di Michelangelo Merisi
• La Città Eterna ai tempi di Caravaggio
• Le fabbriche di Clemente VIII Aldobrandini
• Mecenati, collezionisti e protettori
• La Roma degli emarginati
Gabriela Häbich
ha studiato Filosofia e Communication Studies. Ha lavorato per diversi anni nel mondo universitario come docente e direttrice accademica di un Dipartimento di Arte. Dal 2001 si dedica alla progettazione e gestione di politiche culturali. È responsabile dei progetti di GoTellGo, associazione per la quale cura anche il disegno di itinerari urbani. Con la Newton Compton ha pubblicato La Roma segreta dei papi e La Roma segreta di Caravaggio.
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Anteprima del libro
La Roma segreta di Caravaggio - Gabriela Häbich
Premessa
¹
Nel caso di Caravaggio chi non si aspetta l’inaspettato non scoprirà mai la verità.
Longhi e Strinati
Potrebbe risultare facile cadere nella tentazione di scrivere un volume su Caravaggio che sia l’ennesimo racconto di aneddoti biografici. Non è questa l’intenzione del presente volume: vorremmo infatti evitare gli aneddoti che diffondendosi nell’arco degli anni – forse dovremmo dire dei secoli – si sono caricati di dettagli, nomi e circostanze che, nella maggior parte dei casi, hanno tergiversato sull’origine e il contesto dell’evento aneddotico.
Ha ancora senso scrivere un volume su Caravaggio dopo l’innumerevole bibliografia di saggi, romanzi, libri d’arte e itinerari già pubblicati sul pittore lombardo? È possibile aggiungere qualcosa di originale a un nome che di per sé costituisce ormai un’icona? Negli ultimi vent’anni sono emerse molte novità sul Merisi grazie a ricerche negli archivi italiani e stranieri e soprattutto grazie allo straordinario lavoro di restauro, messa in sicurezza e studio dei documenti presenti nell’Archivio di Stato di Roma², custode di gran parte dei dati sul periodo romano di Caravaggio nel quale si affermò la sua figura sulla scena dell’arte. Sono notizie che permettono di demistificare molte leggende che, a volte senza fondamento, sono cresciute attorno alla figura del Merisi. Il fatto che non ci siano scritti autobiografici di Caravaggio né un carteggio con gli artisti coevi o con la famiglia ha dato maggiore rilevanza alle biografie che già dalla prima metà del Seicento avevano prodotto
una certa versione del Caravaggio senza supporti documentari. Ad oggi, non sono note lettere dei suoi committenti che descrivano come lavorava, quali fossero le tecniche e le scelte iconografiche oppure quale fosse il suo carattere.
I documenti che riportano chi fosse realmente l’artista, e come siano nati alcuni dei suoi capolavori, sono di carattere notarile o giudiziario e la maggior parte è venuta alla luce negli ultimi vent’anni: contratti, denunce, interrogatori dei magistrati e ordini di cattura (l’atto di battesimo del Caravaggio, il processo Baglione, il contratto di affitto con Prudenzia Bruni, la pace con il notaio Pasqualoni alla presenza di Scipione Borghese, la supplica di Onorio Longhi al papa nel 1611). Sono carte che riproducono la voce diretta del Merisi o di chi parlava di lui e che permettono di sapere – almeno in parte – cosa pensasse della pittura e dei suoi colleghi e come fosse la città nella quale aveva scelto di vivere e lavorare.
A partire da tali novità questo volume vorrebbe comporre un doppio ritratto su Caravaggio e sulla sua
città a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento (seguendo il vissuto e le opere del pittore, cioè ricostruendo quanto accadeva e quanto la città poteva offrire al pittore). La storia del Merisi in quanto uomo e artista è profondamente intrecciata con le vicende storiche e sociali di quello che fu il suo tempo. Protagonista della storia dell’artista è la stessa Roma.
1 Ringrazio Maria Teresa Natale per la generosa e paziente correzione del mio italiano e Chiara Morabito – con cui ho fatto la prima passeggiata su Caravaggio – per il sostegno linguistico, di ricerca e di consorellanza
.
2 Presentati nella mostra Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, Archivio di Stato di Roma - Sant’Ivo alla Sapienza, 11 febbraio - 15 maggio 2011 e parzialmente raccolti nel volume omonimo.
1. Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Un’icona
Argomenti: consumo culturale e contenuto simbolico, i primi biografi del Merisi, le biografie fuorvianti, miti sul pittore.
Personaggi: Karel van Mander, Giulio Mancini, Giovanni Baglione, Giovanni Pietro Bellori.
Opere: Giuditta e Oloferne, Bacchino malato, Giovane con canestro di frutta, Maddalena penitente, Riposo nella fuga in Egitto, Buona ventura, Giove, Nettuno, Plutone.
Nel 1951 il geniale storico dell’arte Roberto Longhi organizzò a Milano una mostra su Caravaggio e i caravaggeschi che costituì una pietra miliare per gli studi sul Merisi. Iniziò allora un periodo di rivalutazione del pittore lombardo, parzialmente dimenticato o rimasto all’ombra di Guido Reni, preferito tra i pittori del primo Seicento. La mostra fu il detonante di un ricco periodo di pubblicazioni ed eventi sul pittore lombardo che permisero di trasformarlo in un’icona della storia dell’arte. Il Caravaggio di Longhi, «portiere di notte del Rinascimento», divenne non solo oggetto di studio accademico, ma fu anche fagocitato dall’industria culturale: riportato alla fama divenne oggetto di marketing e immagini nei souvenir. Tazze, borse, matite, gomme da cancellare, taccuini, cover di telefonini, puzzle, calamite, magliette, ventagli e ombrelli con immagini di dipinti e ritratti del pittore vengono acquistati e portati a casa. Ma quanto c’è dell’anima dell’artista in queste riproduzioni? Perché proprio il Merisi si è trasformato in un’icona? E perché vengono riprodotte su souvenir le tele di Caravaggio piuttosto che quelle dei suoi contemporanei Annibale Carracci o Guido Reni?
Per offrire qualche spunto di riflessione su queste domande partiamo da una considerazione sul consumo culturale e sul contenuto simbolico dei prodotti culturali.
Cosa accade quando ci troviamo di fronte a un dipinto? Di quali strumenti critici ci avvaliamo quando l’osserviamo? È bello? È brutto? Cosa c’è alla base dell’attrazione o dell’indifferenza per un’opera d’arte? Purtroppo non possiamo effettivamente stabilire se un prodotto culturale
ci piaccia o meno se non abbiamo precedentemente sviluppato certe competenze percettive di base che il nostro cervello può costruire attraverso una reiterata fruizione di simili prodotti. Se veniamo esposti ripetutamente a esperienze estetiche – o di consumo – con alto contenuto simbolico creiamo, inconsapevolmente, le premesse intellettive ed estetiche che, in una occasione successiva, ci consentiranno di esplorare altri oggetti dai contenuti simbolici altrettanto complessi, se non di più, con più approfondita consapevolezza critica e con maggiore godimento estetico. In pratica, saremo in grado di dire quale opera ci piace, e perché. Non basta però essere esposti a prodotti culturali complessi, è necessario anche tenere conto della durata e dell’intensità di tale esposizione. Per imparare a percepire un prodotto culturale complesso o un’opera d’arte è necessario un vero e proprio esercizio di contemplazione
. Non a caso nel pensiero greco la contemplazione era intesa come l’atto della facoltà più elevata dell’intelletto nella conoscenza dell’intelligibile.
Quando un osservatore asserisce che un’opera non gli piace
o gli piace
tale affermazione non dipende solo dal prodotto culturale di cui sta fruendo, ma soprattutto dagli strumenti critici affinati attraverso le esperienze estetiche pregresse. Un esempio molto chiaro è l’ascolto della musica classica: l’esperienza di consumo diventa più piacevole e gratificante quanto più si ripete la fruizione di questo bene, mentre con la musica non classica
succede l’inverso, dopo una ripetuta fruizione del bene l’esperienza del consumo diventa noiosa. Tutto ciò accade perché più è alto il coefficiente simbolico di un prodotto, più complessa diviene l’esperienza di fruizione ma, soprattutto, più si sviluppa la struttura percettiva dell’ascoltatore o dell’osservatore. Questa, in forma invertita, è la ragione del successo del mondo mediatico: offrire prodotti culturali per i quali non sia necessario investire in competenze specifiche o esperienze percettive preliminari, promuovendo oggetti di consumo che non richiedono consapevolezza né sull’atto né sull’oggetto stesso. Ma è anche alla base di alcuni prodotti che l’industria culturale fornisce su alcuni grandi artisti, come Michelangelo Merisi, trasformandoli in un’icona.
Dopo aver ipotizzato un rapporto diretto tra il contenuto simbolico dei prodotti culturali, la fruizione di tali prodotti e lo sviluppo di competenze percettive, possiamo concentrarci su un’altra ipotesi che riguarda la molteplicità di livelli di lettura delle opere del Merisi e su come tale complessità abbia paradossalmente aiutato l’industria culturale a semplificarne lo spessore storico e simbolico, facendolo diventare un’icona che garantisce incassi.
Quasi parallelamente al lavoro avviato dagli storici dell’arte negli anni Cinquanta del Novecento si metteva in moto la macchina della divulgazione culturale, costruita a volte con grande professionalità, a volte con scopi di sensazionalismo e morbosità. In quante occasioni abbiamo visto la stupenda Giuditta e Oloferne ristampata su taccuini, cartoline e spille? È un’immagine che piace non solo perché di forte impatto visivo, ma perché stimola una prima lettura che risponde ai cliché di un Merisi violento, autobiografico e tenebroso
. In questo caso non c’è bisogno di categorie fondamentali per capire quanto avviene nella raffigurazione della tela. Nei successivi livelli di lettura rientrano invece le competenze percettive che consentono all’osservatore di distinguere, per esempio, i forti contrasti e i perfetti chiaroscuri e di ricostruire la storia dell’eroica vedova di Betulia e del nemico Oloferne, generale del re Nabucodonosor. Piuttosto che sulle celebri esecuzioni avvenute durante il pontificato di Clemente viii, come quella della giovane Beatrice Cenci, il lavoro del Merisi in questa tela si basa soprattutto sul testo della Bibbia Clementina edita a Venezia nel 1592. Ma il Merisi intellettuale, conoscitore di testi biblici, risulta meno vendibile
al grande pubblico rispetto al Caravaggio rissoso, abituale frequentatore di bettole e loschi individui. Pochi testi divulgativi spiegano che il pittore utilizzò il racconto veterotestamentario e che seguì le indicazioni controriformiste della Chiesa cattolica: «la potenza divina, che attraverso una sua creatura, in questo caso Giuditta, vince contro il Male, sia esso Oloferne, il demonio o l’eresia luterana»³.
Solo pochi anni fa, per esempio, è stato finalmente riportato all’attenzione del pubblico, specialista e non solo, il rapporto tra il Merisi e l’antico e sul debito della meravigliosa Madonna dei pellegrini nei confronti di Ferdinando de’ Medici. Il cardinale aveva creato una collezione di ritratti di uomini illustri a Villa Medici – analoga alla quadreria che collocò poi, come granduca di Toscana, nel corridoio degli Uffizi – alla quale aveva accostato una raccolta di opere antiche. Tra di esse, nel 1584, era stata inserita la cosiddetta Tusnelda, un’antica statua di marmo bianco – trovata a Roma nella Suburra – che il Caravaggio vide nella villa a Porta Pinciana e che diventò fonte d’ispirazione per la sua Madonna della chiesa di Sant’Agostino⁴. Nell’immaginario generale, tuttavia, persiste in larga misura l’informazione riguardante Lena, la prostituta amica o amante del Merisi che avrebbe posato per l’opera.
Certi testi divulgativi hanno privilegiato gli aneddoti e gli aspetti giudiziari della vita del pittore, ricostruiti e dedotti da fonti secondarie non attendibili, sovente analizzate senza le necessarie competenze filologiche e paleografiche. Oltre a essere diventato garanzia di incasso alle mostre internazionali, Caravaggio è stato anche oggetto di pseudo-studi, di scarso valore storico e scientifico, che hanno dato luogo a opinioni fuorvianti. Come ha ricordato Eugenio Lo Sardo, «qualche studioso improvvisato ha tentato di trovare delle scorciatoie, qualcun altro di falsificare pur di dimostrare delle tesi precostituite o di attribuire un quadro al sommo artista (con i conseguenti enormi vantaggi economici)»⁵. Basta togliere un forse
, un probabilmente
, un è presumibile che
per passare da un’ipotesi a un’affermazione fasulla o che non dà alcuna garanzia di verità.
Nella storia dell’arte non sono mancate attribuzioni su presupposti non scientifici, ma nel caso di Caravaggio tutto diventa clamoroso ed eccessivo, «tutto viene scritto sopra le righe, tutto si presta a sospetti e colpi bassi. Specie ai nostri tempi, sempre più inclini a metodi ricattatori e infamanti in qualsiasi voglia campo del sapere»⁶. Il contratto di affitto della casa di via di San Biagio, oggi vicolo del Divino Amore, finalmente trovato da Daniela Soggiu e Antonella Cesarini, era stato a lungo cercato dagli studiosi, ma la ricerca era stata tanto affannosa quanto vana, al punto che due ricercatori ne avevano confezionato uno falso, interpolando il nome di Merisi e contraffacendo la data di una locazione del 1605⁷.
Ma a questo punto si impone la domanda: chi era Michelangelo Merisi, quest’artista che tutti chiamarono il Caravaggio
, dal paese lombardo luogo di origine della sua famiglia? Senza dubbio uno dei più grandi pittori della storia dell’arte occidentale, un artista in grado di suscitare curiosità, emozioni, e di dar vita a leggende come pochi altri.
Il Merisi arrivò a Roma tra il 1595 e il 1596, poco più che ventenne, con le conoscenze e le capacità sviluppate durante un pluriennale apprendistato presso Simone Peterzano, uno stimato artista di Milano. Il 6 aprile 1584, quando aveva tredici anni, la sua famiglia aveva stipulato un contratto di apprendistato:
si conviene che il detto Michelangelo è tenuto a stare e abitare con il detto maestro Simone per imparare l’arte del pittore, e questo per i prossimi quattro anni a partire da oggi, e che il detto Michelangelo si addestri in quest’arte notte e giorno, secondo la consuetudine di detta arte, bene e fedelmente, e non commetta alcun dolo o frode sui beni del detto maestro Simone. Il detto maestro Simone è tenuto e obbligato a tenere il detto Michelangelo nella sua casa e bottega, e istruirlo in quest’arte in tutto quanto possa, affinché alla fine dei quattro anni egli sia qualificato ed esperto in detta arte, e sappia lavorare per conto proprio. Il detto Michelangelo è tenuto a dare e pagare al detto maestro Simone, quale sua ricompensa, ventiquattro scudi d’oro del valore di sei libbre imperiali a scudo, da versare in anticipo ogni sei mesi da parte del detto Michelangelo al detto Maestro Simone, dei quali Michelangelo promette di pagare il restante⁸.
Non sappiamo cosa abbia fatto il Merisi tra il 1592 e il 1596, anni tra i quali c’è una lacuna documentaria, che si presta a illazioni e congetture di diverso tipo, come viaggi nelle Fiandre o a Venezia, oppure un arrivo a Roma già nel 1592.
Fatto sta che fra il 1595 e il 1596 Caravaggio è a Roma. I primi tempi del lombardo nella città dei papi non furono facili poiché per sopravvivere dovette lavorare come garzone nelle botteghe di Lorenzo Carli, Antiveduto Gramatica e Giuseppe Cesari, e soggiornare presso i monsignori Pucci e Petrignani. Incontrò poi, grazie agli amici Prospero Orsi e Costantino Spada, il potente e colto cardinale Francesco Maria Del Monte, rappresentante a Roma del granduca di Toscana, che abitava in quello che dopo venne chiamato Palazzo Madama, oggi sede del Senato. Sotto la protezione del cardinale, uno dei più importanti mecenati dell’epoca e proprietario di una ricca collezione d’arte, il Caravaggio conobbe un ambiente raffinatissimo e stimolante, e allargò i propri orizzonti culturali e artistici. Durante i suoi cinque anni di servizio presso Del Monte, il pittore poté maturare quanto appreso durante il suo apprendistato giovanile. Dipinse opere meravigliose destinate al suo protettore e ai molti personaggi della sua coltissima cerchia. I Giustiniani, i Mattei e i Costa, membri dell’élite intellettuale ed economica dominante a Roma, divennero in poco tempo gli illustri committenti del pittore ormai conosciuto, apprezzato, avviato alla fama. Fino al 1599, il Merisi lavorò per collezioni private realizzando capolavori assoluti, che avrebbero caratterizzato ogni sua tela. In quel periodo dipinse solo capolavori, veri e propri concentrati
di filosofia, etica e teologia: il Bacchino malato e il Giovane con canestro di frutta della Galleria Borghese, la Maddalena penitente e il Riposo nella fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphilj, il Narciso e la Giuditta e Oloferne della Galleria Nazionale d’Arte Antica, la Buona ventura della Pinacoteca Capitolina e il Giove, Nettuno, Plutone del Casino Ludovisi.
La prima committenza pubblica giunse per il pittore in occasione del Giubileo del 1600, probabilmente per intercessione del suo protettore. Caravaggio scosse l’intera Roma con il ciclo di tele raffiguranti le storie di san Matteo nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi e ottenne rapidamente una grande fama destinata a un crescendo con le opere successive: la Deposizione di Santa Maria in Vallicella, del 1602 (ca.) e ora ai Musei Vaticani, i due quadri per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo – la Crocifissione di san Pietro e la Conversione di Paolo, realizzati tra il 1604 e il 1605 –, la cosiddetta Madonna dei pellegrini in Sant’Agostino, anche essa dipinta tra il 1604 e il 1605, e la Madonna dei Palafrenieri, eseguita per la basilica di San Pietro tra il 1605 e il 1606, ora alla Galleria Borghese. Il pittore divenne il più ricercato e acclamato artista di Roma, ricevendo altre innumerevoli commissioni private. Tra il 1600 e il 1606, le più importanti famiglie romane, inclusi i cardinali nepoti, desiderarono un’opera del maestro lombardo.
Ma la tragedia incombe e, quasi uno scarto
del destino fino a quel momento promettente e prospero, il Merisi si macchia della colpa fra le più gravi, l’omicidio. Domenica 28 maggio 1606, durante il combattimento in un duello, il pittore ferì mortalmente Ranuccio Tomassoni, fratello del caporione di Campo Marzio. Condannato a morte dalla giustizia pontificia fu costretto a fuggire da Roma per rifugiarsi dapprima a Napoli, poi a Malta, infine in Sicilia, e ancora per un brevissimo periodo a Napoli. Il Merisi non riuscì più a tornare nella città dove era diventato Caravaggio
. La morte lo colse a Porto Ercole mentre era sulla via di ritorno alla città papale in vista della concessione della grazia da parte di Paolo v.
In tempi più o meno recenti, l’attenta analisi filologica dei documenti notarili e giudiziari ha permesso di precisare alcuni aspetti della vita del pittore. Ma per ben quattro secoli le fonti principali furono le biografie seicentesche stilate sul modello de Le Vite di Giorgio Vasari⁹. Il primo riferimento al lombardo su un testo stampato è del 1604 quando il pittore fiammingo Karel van Mander incluse nel suo libro Het Schilder-Boeck un’entusiastica nota su Michael Agnolo van Caravaggio, che aveva già un appunto critico rispetto al comportamento del Merisi:
opera anche un Michelangelo da Caravaggio il quale, a Roma, fa delle cose meravigliose […]. Infatti egli è uno di quelli che non vogliono tenere in gran conto le opere dei maestri […]. Il suo modo di dire è questo: tutte le cose sono bagatelle, fanciullaggini, inganni, qualunque sia l’opera od il maestro che l’ha eseguita, se non è presa e dipinta dal vero; ed anche, che non vi può essere modo buono o migliore se non imitare la natura. […] Purtroppo accanto a questo frumento vi è la zizzania; non si dedica in modo continuo allo studio, ma avendo operato per una quindicina di giorni egli va a spasso per un mese o due, colla spada a fianco, seguito da un servitore, passando da una sala da giuoco ad un’altra, molto propenso alle zuffe ed ai litigi, di modo che è difficile avere con lui delle relazioni. Cose che non sono conformi alla nostra arte; giacché Marte e Minerva non sono stati mai i migliori amici¹⁰.
Solo due suoi contemporanei scrissero delle vere e proprie biografie: il medico e collezionista d’arte Giulio Mancini (1558-1630), senese, e il pittore Giovanni Baglione (1573 ca.-1643), romano, nemico acerrimo del Caravaggio. Quella del Mancini fu la prima biografia sul Caravaggio, pubblicata nel 1621 all’interno di un volume dal titolo Considerazioni sulla pittura. Ancora non erano passati molti anni dalla morte del pittore lombardo e probabilmente questa vicinanza temporale costituisce il maggior pregio della bibliografia di Mancini. Vale la pena soffermarsi brevemente su questo personaggio. Mancini era nato a Siena e la sua