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Decadenza
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E-book254 pagine4 ore

Decadenza

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Info su questo ebook

"Decadenza" è uno dei romanzi a tematica psicologica di Luigi Gualdo ed è forse quello più riuscito, oltre che il più originale. Il titolo del libro descrive bene il suo contenuto: il protagonista, Paolo, è infatti un uomo che procede verso una lenta, ma inesorabile, degradazione. È un uomo che da ambizioso e vitale diventa un pessimista esistenziale a causa di insuccessi professionali, ma anche amorosi. Se ci pensiamo è anche un romanzo estremamente moderno visto che quella noia immotivata, quell'inerzia morale, quel male di vivere e quel senso di inutilità è tipica della società odierna. Insomma, "Decadenza" è un romanzo esistenziale ante litteram a tutti gli effetti.-
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2022
ISBN9788728410981
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    Anteprima del libro

    Decadenza - Luigi Gualdo

    Decadenza

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1892, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728410981

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    DECADENZA

    I.

    Nel teatro della Scala regnava la noia — una noia particolare anche per quella stagione poco allegra. Pareva che un velo di nebbia stesa nella sala troppo vasta, avvolgesse i globi di luce smorta della lumiera, le dorature annerite, le scolorate tendine dei palchetti; emanava dalle pareti o era l’alito d’un immenso sbadiglio?

    Alcuni uomini eleganti s’affacciavano all’ingresso della platea, quasi deserta, mostrando la cravatta bianca dalla pelliccia sbottonata, e incerti se dovessero rimanere gettavano uno svogliato sguardo a dritta e a sinistra; sguardo superfluo, giacchè sapevano prima d’entrare chi avrebbero veduto: le solite poche signore fedeli al "nostro massimo teatro,„ accompagnate dalla solita amica, sorridenti ai medesimi visitatori.

    Parecchie signore erano in abito chiuso, freddolose, con qualche ornamento sul capo e sul petto, tanto per non sembrare vestite da mattina. Qualcuna "godeva„ uno sdruscito abito da ballo. Nelle poltrone, gli uomini, quasi coricati, venivano talvolta scossi dal greve sonno cui resistevano male, da un subitaneo crescendo dell’orchestra. Senza calore i cantanti se la sbrigavano in fretta, ripetendo i motivi d’un povero maestro millionario che aveva pagato quindicimila lire per gustare – solo – la sua opera; la quale si rappresentava – d’obbligo – per la terza ed ultima volta, dovendosi dopo ritornare all’Aida. Le scene, i costumi, sfarzosissimi, destavano l’ammirazione d’una coppia inglese, giovani e biondi, che ascoltavano in religioso silenzio, con le poltroncine del palchetto di prima fila voltate verso il palco-scenico, e separati da un mazzo di fiori posato fra di loro. Un po’ più in là, dietro un altro mazzo di fiori, enorme, ergeva le spalle superbamente nude, e il collo attorniato di gemme, una matura peccatrice forestiera, la cui presenza radunava un gruppo di uomini al di sotto. — In tutto il teatro, mentre la prima donna spasimava sulla scena, si chiacchierava assai, e le voci tentavano invano d’essere sommesse. Perciò, le signore erano spesso zittite dal pubblico, ed ammutolivano per un istante, mentre il bisbigliare scoppiava più forte da un altro lato. Pochi, del resto, ascoltavano.

    In un angolo della platea, quattro o cinque vecchi, fra cui un ex-impresario celebre, s’occupavano dello spettacolo; essi facevano malinconici confronti tra il presente ed i tempi andati. S’udivano passando vicino, antichi nomi sussurrati; e risposte sdegnose a qualche interlocutore più giovane. Costoro avevano forse veduto quel teatro della Scala semi-oscuro, dal palco scenico solo illuminato, dove l’arte del canto italiano faceva fremere tutta la sala, quel teatro descritto da Stendhal, dove le dame in turbante venivano col lavoro in mano e il cavalier servente a fianco, dove si amava, si odiava, si discuteva, dove li occhi si riempivano di lagrime per un accento appassionato e le mani si stringevano segrete, dove si perdevano somme favolose nei giuochi del ridotto e si cospirava talvolta nell’atrio.

    Dietro gli abbonati, nei posti fissi, alcune artiste di canto sfoggiavano cappellini bizzarri e piumati sulle chiome fulve o nerissime. Raccontavansi aneddoti e si parlava d’affari, in attesa del ballo.

    Infatti, verso le dieci e mezzo, giunse un po’ di gente. Si era impazienti che il telone da troppe tempo calato sul rumoroso finale dell’opera si rialzasse. I palchi di società si riempivano; vi si scambiavano complimenti pei posti sul davanti.

    — Andiamo, Renaldi, non far sciocchezze, mettiti qua.

    Ma Renaldi, benchè venisse di rado alla Scala e quella sera fosse stato invitato da’suoi amici della quinta fila, non volle accettare, dicendo di stare benissimo dov’era, con le spalle rivolte al palcoscenico. Così infatti, vedeva il pubblico, le signore. Gettava sguardi invidiosi sui palchetti eleganti e non si capacitava di non essere ancora riuscito a penetrarvi; seguiva lo scambiarsi delle visite, il cedersi metodico dei posti all’ultimo arrivato — e l’illusione da lui conservata che là qualcosa accadesse, gli dava un rabbioso desiderio. Vedeva una duchessa ridere fino alle lagrime, nascondendo il bel viso nel fazzoletto, e pensava che mai poteva dirle quello stupido dall’aria addormentata che le stava vicino, e fantasticando si rodeva.

    Per consolarsi fissava col cannocchiale, in terza fila, dalla parte opposta, una signora d’una bellezza appariscente, eppure assai distinta, con alcunchè d’insolito, di stranamente simpatico nel sorriso e nelli occhi, mesti e lucenti; la tinta pallida della sua guancia faceva sembrare più bruni i capelli castani. Semplicissimamente vestita, possedeva però una rara eleganza. Era già stato a farle una breve visita, ma l’aveva poi lasciata sola col vecchio conte Mattei.

    — Bella assai questa prima scena.

    Renaldi si voltò; le ballerine dell’intero corpo di ballo schierate in lunghe file s’avanzavano rapide e, giunte alla ribalta, tutte le gambe d’ogni schiera si alzarono di colpo. Scoppiava un frenetico applauso.

    In quel momento la signora della terza fila guardava in sù, ma lui non se ne accorse. — Poi quando la tornò a osservare, udì che i suoi amici parlavano di lei.

    — Non comprendo come quella signora Teodori non ti piaccia. Io la trovo adorabile. Ma è vero che suo marito è in galera?

    — Già, da vari anni.

    — E lei vive sola?

    — Pare di sì.

    — E quel vecchio le fa la corte?

    — Il conte Mattei? — Chi ci capisce nulla? A me pare impossibile, ma si dice.

    Renaldi sapeva tutto ciò — e la sua curiosità era ben più eccitata della loro. Conosceva la signora Teodori da tre mesi. L’aveva incontrata in casa Cantanari, al giovedì; l’aveva rivista poi al teatro, per le strade. Non si faceva ancora di lei un’idea molto chiara; ma essa gli piaceva assai. Uomo positivo come si sentiva e si credeva già, benchè avesse da non molto finiti gli studi, diceva a sé stesso, quando la vedeva: "essa potrebbe far commettere qualche follia anche a me.„ Pure sorrideva, sicuro di sè. Intanto però tutte le curiosità, i desideri della sua inesperienza s’agitavano in lui; sapeva di non esserle antipatico e indovinava ad un tempo ch’essa doveva mostrarsi difficilissima, per cui alla soddisfazione interna, della vanità nascente, s’aggiungeva una speranza inebriante.

    Era tutt’orecchie mentre i suoi amici parlavano di lei. Ma non dissero nulla di nuovo. Poi il ballo fissò ancora la loro attenzione, nella scena culminante, quella che faceva interrompere i discorsi nell’atrio, e per la quale si ritornava in teatro dal club.

    La parte di mezzo del ballo s’era passata nei sotterranei delle divinità infernali dove la prima ballerina era stata rinchiusa. Ora, liberata dal principe, un vecchio in armatura, ricondotta nel suo palazzo, subito si slanciava nelle braccia del primo ballerino; e intorno ad essi il corpo di ballo "intrecciava danze di gioia„ come diceva il libretto del coreografo. Queste danze non si sa troppo perchè, avevano un carattere marziale. Le ballerine sfilavano rapide vestite d’una corazza lucente e di stivaletti tempestati di brillanti: uno sfarzo abbagliante, che sembrava andasse aumentando mentre le danze si complicavano, più affollate e tumultuose, — simulando sapientemente il disordine. — Sembravano innumerevoli quelle fanciulle provocanti, e già sorridevano all’immancabile trionfo. E tra quella ricchezza di ori e di gemme, spiccavano rosee, insolenti le false nudità delle maglie, cui la troppa luce elettrica prestava una specie di realtà eccessiva. La musica assordante, volgarmente voluttuosa, aggiungeva molto all’effetto prodotto ogni sera sul publico; dal principio alla fine la scena era accompagnata, quasi ritmata da applausi pazzi, da grida, da un continuo mormorio di gustosa approvazione. Le ballerine correvano con foga rinnovata, come se si divertissero per proprio conto, ringraziando la folla, lanciando sorrisi speciali nei palchetti più vicini.

    Anche Renaldi fissava ora il palcoscenico. In quel momento egli quasi scordava le idee ambiziose che di solito lo seguivano dovunque, i suoi progetti, le sue speranze; l’uomo pratico, risoluto ad andare diritto pel cammino prefisso ad una meta ancora non ben definita, ma degna d’un grande sforzo, era assorto dalla sensazione materiale e vi si abbandonava, sicuro però di ritornare fra poco padrone di sè. E nella sua mente un po’ eccitata, le suggestioni dello spettacolo si concretavano di tanto in tanto rivolgendo lo sguardo al palchetto dove quella donna (la sola finora di cui una sera avesse sentito la mano trattenere la sua per un istante) suscitava in lui per la prima volta vaghe speranze diverse dalle solite concernenti la sua carriera. Tutto ciò però si confondeva nel suo cervello. L’amore di colei sarebbe stato un potente aiuto nella battaglia futura; l’ebbrezza del trionfo gli avrebbe raddoppiato le forze; la vanità soddisfatta avrebbe infiammato l’orgoglio. In quel momento sentiva in sè una grande potenza; parevagli che le ignote voluttà alfine conosciute, inciampo per un altro meno forte, sarebbero state a lui sprone a giungere rapidamente. Era contento di sè; una voce interna lo esortava ad osare. Le difficoltà apparse insormontabili un’ora prima si appianavano per incanto, e, fatto gaio, rispondeva allegramente alle sciocchezze delli amici.

    Finito quasi il ballo, calato il telone sull’apoteosi irradiata dalla luce elettrica a colori, il teatro si spopolava. Renaldi pure se ne andò con gli amici, ma trovò modo di "perderli„ nei corritoi; aspettò nell’atrio, aspettò lungamente, dinanzi all’ironico sorriso della statua di Rossini, finchè vide la signora Teodori avvolta in un gran mantello, dando il braccio al conte Mattei, scendere le scale. Essa rispose seria chinando la testa al suo saluto, ma poi, dalla sala d’aspetto gli gettò uno sguardo.

    Allora uscì egli pure, quasi felice. Il freddo intenso gli diede una sensazione piacevole e trovò un aspetto gaio al nuovo tappeto di neve steso sulla piazza, ai grossi fiocchi che continuavano a cadere lentamente, coprendo di berretti bianchi le teste delle statue di Leonardo da Vinci e de’suoi quattro discepoli, assiderando i cocchieri dei broughams sonnacchiosi. Con gran rumore le carrozze signorili rotolavano sotto l’atrio, e s’udivano sotto lo stretto porticato nomi conosciuti gridati dai servitori in livrea. Per la prima volta, Renaldi non si sentiva umiliato. Non invidiava nemmeno ai cocchieri gli enormi baveri di pelliccia. Ebbe perfino l’illusione che una alta e bella signora dai capelli nerissimi, la quale saliva in una carrozza dalla corona di principe sugli sportelli, lo guardasse involontariamente nell’allontanarsi. Passò tra le teste dei cavalli impazienti e s’avviò calpestando bravamente la fanghiglia. Camminando edificava castelli in aria. Mille progetti d’avvenire si accatastavano nella sua mente, e rivedeva la testa della signora Teodori incorniciata dal candore del cappuccio.

    Pensò che, essendo giovedì, forse la signora Teodori, nonostante l’ora tarda, sarebbe andata un momento in casa Cantanari. Dieci minuti dopo egli entrava in una vasta anticamera che sembrava ancor più spaziosa per la poca altezza della vôlta (era agli ammezzati) dove una catasta di soprabiti, di pelliccie, di scialli sembrava in pericolo di cader da una gran tavola. Vi aggiunse il suo, ed entrò nella sala, dove una ventina di persone erano riunite. Tre signore però si stavano già accomiatando dalla padrona di casa — una donna maestosa, con dei lineamenti troppo forti. — In un gabinetto vicino, dalla porta aperta, Renaldi scorse subito la signora Teodori che passava nella sala da pranzo, dove si serviva il thè. Al pianoforte un pianista forestiero accompagnava una cantante vestita di rosa che provava una romanza a mezza voce. Un alto personaggio politico, giunto da Roma, era fatto segno delli sguardi di tutti e delle attenzioni speciali della padrona di casa. Mentre Renaldi s’avanzava fu trattenuto da una vecchia signora che non mancava mai un giovedì, la quale gli presentò un giovinetto biondissimo e impacciato:

    — Mio nipote. — L’avvocato Renaldi.

    E dovette fermarsi a discorrere. Il giovinetto domandò notizie del teatro. Due altre signore, una delle quali piuttosto bellina, si associarono alla conversazione, facendo crocchio. D’un tratto, si parlò della signora Teodori.

    — Elegante assai, — disse la vecchia, — ma ha qualcosa di strano che non mi so spiegare. Qui la proteggono molto. E certo non la si può rendere responsabile delle colpe di suo marito, poveretta! Però….

    — Ma dov’è questo marito?

    — In un manicomio. Inguaribile. Non c’è più speranza.

    — Si potrebbe anche dire che non c’è pericolo, — affermò una delle signore.

    — Non parli così; pare che quella povera donna abbia tanto sofferto; lo amava; fu un matrimonio di simpatia.

    Renaldi taceva, ed ascoltava.

    — È ricca? — chiese l’altra signora.

    — Così; non si sa.

    — Insomma, è vedova con un marito vivo.

    Ma un colpo di gomito fece tacere l’ultima interlocutrice. Quella di cui parlavano passava. Renaldi andò a salutarla; ella prese posto in un angolo, in faccia al pianoforte; egli le sedette vicino, e cominciò a parlarle a voce un po’ bassa.

    Si conoscevano poco; di rado s’erano trovati così vicini; pure si sentivano e sembravano come isolati, e pareva che in quella sala rimanessero semplici spettatori, fra gente riunita solo per far cornice, onde permettere che quei primi istanti d’intimità avessero tutto l’incanto della solitudine senza le dubbiezze ed i pericoli. Per loro soli avevano risonato le ultime note della cantante; per loro l’instancabile pianista suonava alla sordina un notturno di Chopin. L’atmosfera calda, la luce viva, il susurro della conversazione generale, i complimenti di commiato ripetuti sull’uscio che s’apriva di tanto in tanto — tutto ciò serviva quasi di accompagnamento al loro colloquio, nel quale i silenzi dicevano già assai più delle parole. Parlavano di cose ben poco interessanti, — ma sotto alle loro parole ve n’erano altre sottintese.

    A Renaldi sembrava che la signora Teodori fosse un poco fuori di posto in casa Cantanari. Scorgeva in lei una distinzione rara, qualcosa di raffinato, di ben superiore a quanto aveva conosciuto, e gli pareva che i modi di lei, le idee, le abitudini stuonassero talora in mezzo a quella società non ben definibile, d’una eleganza un po’ falsa, dove elementi vari introdotti non si sapeva perchè, spiccavano sopra un fondo borghese, dove certe tinte disparate tentavano confondersi, armonizzate dalla serietà un poco artificiale della padrona di casa e dei suoi amici più intimi. Quest’ultima aveva una gran simpatia per la signora Teodori e ne diceva un mondo di bene, ma comprendeva forse essa pure che la signora Teodori veniva solo per noia, per isfuggire un poco alla monotonia della sua esistenza. Ma, in fondo, pensava Renaldi, non era a suo posto.

    Le sale, lentamente, si facevano deserte. Le signore partivano, resistendo alla dolce violenza della padrona di casa, dicendo ch’erano "ore impossibili„; il cembalo, taceva finalmente.

    E Renaldi, mentre stava scambiando alcune ultime parole con la signora Teodori, pensava a ben altre cose mentre pronunciava le frasi abituali. Parlava del teatro e intanto fantasticava a quanto vi fosse di vero in ciò che si raccontava di lei, in quella storia misteriosa del marito, in quella vita solitaria e dignitosa che i maligni credevano ipocrita. E il conte Mattei?

    Se ne andò riflettendo a cento cose che tutte si riferivano ad una sola e si avviò verso casa. Si sentiva lieto e turbato. Ella lo aveva invitato a farle visita. V’andrebbe presto; non l’indomani, ma presto. La rivedeva come l’avesse ancora davanti. Qual’era la verità su quella donna?

    Giunto a casa sali rapidamente i gradini della scala stretta. Ma benchè vedesse tutto in rosa, la sua troppo modesta dimora gli parve invece più antipatica del solito. Era il piccolo alloggio dove viveva in compagnia di suo fratello, dacchè aveva lasciato l’Università. Quelle stanze gli diventavano di giorno in giorno più uggiose. Conosceva ogni macchia della tappezzeria, le piccole miserie dei mobili ad una ad una, e lo strappo nel panno rosso della poltrona ch’era a fianco al letto gli pareva sempre ridesse de’suoi sogni ambiziosi.

    Eppure non era malcontento di sè. Le idee del giorno innanzi, i suoi progetti, di cui sembravagli scorgere traccie visibili solo per lui in ogni angolo di quella camera tanto nota, sopra ogni spigolo di quei mobili usati, parevano obliterate, messe in fuga da nuovi pensieri, da sogni lucenti. Da un pezzo egli aspettava quel momento, anzi già stanco, scoraggiato — ma ora sentendosi vicino alla mêta, parendogli di dover solo allungare la mano con destrezza per cogliere la fortuna alata, scordava le pene dell’attesa. Si sentiva pieno d’orgoglio, sorrideva alla propria immagine nello specchio. — Era tempo! Davvero cominciava ad averne abbastanza. Ieri ancora credeva di subire una pena immeritata, un crudele ostracismo nel non essere amato, nel non piacere, E perchè? Era forse più brutto d’un altro? Anzi…. Dunque?… Eppure non aveva avuto finora un’avventura qualunque. Le donne lo vedevano senza guardarlo. Delle occhiate di lui nessuna s’accorgeva. Conosceva poca gente che lo stimava, e nulla più. Nella buona società aveva potuto solo far capolino da qualche porticina bassa; nell’altra — se pure ve n’era un’altra — ragioni di economia gli vietavano di penetrare. Della non abbastanza materna tenerezza d’una vecchia padrona di casa, a Torino, preferiva non ricordarsi. Essendo dotato di poca immaginazione, il vizio nelle sue manifestazioni schiette, non aveva gran fascino per lui. E un amore, di qualunque specie fosse, non l’aveva mai trovato. Si sentiva umiliato a fianco dei suoi amici, talvolta misteriosamente occupati e che si lagnavano della gelosia femminile. Ed ora invece? Essi, fra poco, lo invidierebbero. Ben inteso ch’egli sarebbe discreto e si chiuderebbe in un assoluto silenzio, pure essi finirebbero, gl’imbecilli! coll’indovinare che egli era degno d’invidia. Fra poco sarebbe compensato della lunga attesa, delle amarezze rabbiose nascoste da un riso stentato. Al suo esordire farebbe un passo da gigante, da lasciare tutti a una bella distanza. E intanto lavorerebbe, si spingerebbe avanti, attivo, studioso com’era — giungerebbe a un qualche posto importante, e di là sceglierebbe o di mettersi ai grossi affari o di gettarsi nella vita politica. Forse che anche la signora Teodori lo potrebbe aiutare. Poi fattasi una posizione seria, con stipendi accumulati e cariche ottenute col merito, entrerebbe ovunque, aspirerebbe a tutto, facendo dimenticare la sua origine oscura — e prenderebbe allora moglie, sposerebbe una fanciulla ricca, ben educata, elegante, degna di far li onori nelle sale di un deputato vicino a diventare ministro. E infatti perchè non sarebbe ministro un giorno o l’altro?….

    In quel mentre l’uscio s’aprì e suo fratello Carlo s’affacciò. Gli rassomigliava poco; alto, pallido, bruno, con due grandi occhi pensosi.

    — Che diavolo fai, ancora alzato a quest’ora? — chiese Renaldi scosso dalle sue fantasticherie.

    Carlo pareva commosso ed impacciato.

    — Volevo dirti una parola, e se aspetto domattina non avrò più il coraggio.

    — Una qualche sciocchezza!

    — Volevo dirtelo da tre giorni che la cosa è decisa….

    — Che cosa?

    Carlo lo guardò fisso arrossendo leggermente

    — Sai, ho fatto i conti, non è più impossibile. Prendo moglie. Sposo Pierina.

    — Sei una gran bestia!

    E Renaldi s’alzò, guardando suo fratello con un sorriso di compassione. Aveva ben altri pensieri lui per la testa che d’ascoltare simili corbellerie! Nemmeno si degnava di confutarle.

    — Va, va a letto che sarà meglio.

    I due fratelli non si rassomigliavano, nemmeno al morale. A scuola, Paolo si mostrava malcontento quando otteneva solo un secondo premio; Carlo era fra i peggiori. Di matematica non capiva nulla; ed il latino ed il greco lo opprimevano. Quindici giorni prima dell’esame, nel momento in cui gli studiosi raddoppiavano lo sforzo, ed i ragazzi d’ingegno ma pigri cominciavano a studiare, egli s’ammalava per la paura — poi, interrogato, per caso, sopra una delle poche questioni che aveva tenuto a mente, non rispondeva perchè la voce gli si strozzava in gola e veniva respinto. Se ne consolava, copiando, con la penna, sulla carta, sui banchi, sulla lavagna quanto vedeva: il gatto accoccolato in un angolo, il naso del professore. Pensò d’esser nato per fare il pittore. Paolo ne lo dissuadeva, ma Carlo era certo della propria vocazione, e sopratutto della propria inettezza ad altri studi. Dell’eredità paterna loro rimaneva da vivere modestamente assai. E desiderosi di maggior benessere, anelavano al momento di poter guadagnare qualcosa, senza perdere troppo tempo. Carlo s’ostinò nella sua idea, e quando Paolo

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