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Anno Domini 1799
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E-book208 pagine2 ore

Anno Domini 1799

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Info su questo ebook

Nel loro secondo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 2003, Riccardo Parigi e Massimo Sozzi ricorrono alla stessa tipologia di intreccio che aveva reso celebre "Il caso Appiani" (1999): tessere le fila di un unico grande mistero, sospeso fra due epoche diverse e lontane fra loro. Così, i fatti del movimentato 1969 senese, costellato d'importanti manifestazioni di dissenso politico, sono segretamente legati a una vicenda accaduta nel 1799. Alcuni nobili toscani controrivoluzionari, spinti da un acceso sentimento antifrancese, pianificano di liberare papa Pio VI dalla Certosa di Firenze, in cui Napoleone lo ha fatto rinchiudere. Difficile resistere alla tentazione di scoprire in che modo questi due mondi possano risultare strettamente imparentati…
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2022
ISBN9788728496992

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    Anteprima del libro

    Anno Domini 1799 - Riccardo Parigi

    Anno Domini 1799

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2022 Riccardo Parigi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728496992

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Nota introduttiva

    Tutte le lettere settecentesche e molti dei documenti che compaiono in questo romanzo provengono dagli Archivi di Stato di Siena e di Firenze. Per renderne la lettura più accessibile, gli Autori hanno adeguato all’uso moderno la forma. Molte informazioni relative alla vicenda del passato sono state desunte da documenti attualmente conservati negli stessi due archivi.

    Gli Autori ringraziano Tecla Dozio

    A Leda e Lucilla che non ci possono più leggere

    ANNO DOMINI 1799

    La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge

    (Art. 4 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea Nazionale francese il 26 agosto 1789).

    Prologo

    Lettera del conte Francesco Benzi, uomo di fiducia del Governatore Martini a Siena, al cugino Giovanni Corsini di Firenze:

    Siena, 21 febbraio 1798

    Caro Giovanni,

    finalmente trovo il tempo di risponderti. Le preoccupazioni che mi manifestasti nell’ultima tua degli inizi di febbraio purtroppo sono diventate realtà. Come del resto già avrai saputo dai nostri parenti romani l’ambasciatore Giuseppe Bonaparte ha rotto le relazioni diplomatiche con la corte pontificia e il Direttorio ha dichiarato guerra al Papa. I tuoi timori per le reazioni alla morte di Basseville e alla recente sollevazione popolare a Roma erano più che fondati. I francesi hanno scacciato i monaci dal Campidoglio e vi hanno innalzato l’albero della libertà. Simbolo più vuoto di significato non esiste sulla faccia della terra! I francesi stanno saccheggiando Roma: sono stati presi di mira musei, chiese, biblioteche e tutto ciò che custodisca qualcosa che per loro abbia un minimo di interesse o valore. Senza considerare le decine e decine di ostaggi che sembra siano stati presi tra i cardinali e i rappresentanti delle principali famiglie romane: fra loro vi sono anche due nostri cugini…

    Caro Giovanni, mi duole dirti che ora siamo circondati dai francesi. Temo proprio che presto anche noi saremo invasi dagli eserciti di Bonaparte. Piuttosto, tu che sei vicino al Granduca, sai forse che cosa ha in mente in proposito? Non credo che voglia restare a guardare. Perché ha deciso di ospitare Pio VI in Toscana? Non sarà una mossa pericolosa?

    Non so se sei al corrente ma l’Arcivescovo Zondadari ha fatto di tutto perché Sua Santità venga proprio qui a Siena e ha intenzione di andarlo a ricevere a San Quirico. Mah, staremo a vedere… Speriamo che la fortuna ci assista… Ora devo lasciarti ma presto ti darò altre notizie.

    Mi dichiaro tuo umile servitore e fedele amico

    Francesco

    Erano le 10 e mezza di mattina del 25 febbraio. Un modesto corteo di tre carrozze nere, dall’apparenza triste e malinconica, stava per oltrepassare Porta Romana. In cielo nuvoloni neri come inchiostro minacciavano da un momento all’altro di scaricare a terra tutto il loro carico d’acqua. Era forse questo il motivo per il quale, sull’ultimo tratto della Cassia che da San Quirico porta a Siena, Pio VI aveva una faccia seria e preoccupata. O forse erano ben altri i pensieri che in quel momento gli affollavano la mente: a ogni curva vedeva davanti a sé la carrozza di testa, nella quale sapeva bene che vi erano due commissari francesi che lo stavano scortando in esilio, lontano dalla sua Roma.

    Appena il corteo ebbe oltrepassato Porta Romana un lampo squarciò il cielo grigio. Il pontefice pensò che di lì a poco si sarebbe scatenato il temporale e invece quasi immediatamente seguì uno scroscio di applausi e di urla di giubilo. Guardando dal finestrino della carrozza si rese conto che intorno a lui si stava celebrando una festa, con tanto di fuochi d’artificio. Ebbe un attimo di sorpresa, subito interrotto dalle parole dell’abate che lo accompagnava:

    «Vostra Santità, questi festeggiamenti sono per Voi…».

    «Per me?» si stupì Pio VI.

    «Sì. L’arcivescovo Zondadari ha voluto fare le cose in grande per un ospite del vostro rango. Aveva avvertito di non fare strepiti o manifestazioni fuori Siena, perché voleva che tutti vi festeggiassero dentro le mura…».

    Il pontefice non sentì quest’ultime parole. Era commosso. Si sporse dal finestrino e cominciò a benedire con la mano destra la moltitudine di persone che si era assiepata lungo le vie che conducevano al duomo, dove l’attendeva Zondadari per riceverlo e mettere la città di Siena a sua disposizione.

    Dopo aver celebrato la messa in duomo l’arcivescovo avrebbe accompagnato il pontefice in piazza del Campo dove sarebbero continuati i festeggiamenti: era stata, fra l’altro, organizzata una giostra di cavalli corridori in suo onore.

    Alla fine della giornata l’abate avrebbe accompagnato il vicario di Cristo in quella che sarebbe diventata la sua dimora senese: il convento di Sant’Agostino.

    Lettera di Benzi a Corsini:

    Siena, 29 aprile 1798

    Caro cugino,

    ho appreso che sei stato vittima di una disastrosa caduta da cavallo e che sei costretto a stare immobile a letto per permettere agli arti offesi di risarcirsi. Mi devi credere, sono sinceramente dispiaciuto per quanto ti è accaduto. Verrei volentieri a trovarti ma il Governatore Martini mi sta sempre alle costole: vuole in tutti i modi che io e i Cavalieri Alessandro Sansedoni e Celso Bargagli controlliamo, ogni momento della giornata, il povero Pio VI in Sant’Agostino. Dico povero perché più che da Sommo Pontefice mi sembra che qui a Siena venga trattato da prigioniero. Naturalmente abbiamo avuto ordini tassativi di fare in modo che egli non si accorga di essere sorvegliato giorno e notte, ma di fatto lo è. Pensa che alla fine del nostro turno di sorveglianza dobbiamo stendere un rapporto e consegnarlo allo stesso Martini e, se consideri che facciamo turni di circa otto ore ciascuno, vedi bene che ci resta poco tempo da dedicare a noi stessi.

    Martini è un vero equilibrista: riesce sia a fornire scrupolosi rendiconti al Governo Fiorentino che a evitare proteste o lamenti da parte del Direttorio. Per esempio ha impedito che si svolgesse la processione della domenica in albis che, richiamando molta gente a Siena, avrebbe potuto dar luogo a manifestazioni di simpatia per il Vicario di Cristo e contrarie ai francesi. Per lo stesso motivo consente ai cardinali che fanno visita al Pontefice di rimanere a Siena solo per pochi giorni e, credo su consiglio dell’Arcivescovo Zondadari, ha imposto ai parroci che predicano nelle chiese di non fare riferimento alle effettive condizioni in cui si trovano il Papa e la sua Chiesa.

    Caro Giovanni, non ti nego che inizio ad avere un po’ di paura. Se anche lo stesso Zondadari, persona retta e buona, tiene i piedi in due staffe dove andremo a finire?

    Bene, ora ti lascio ma mi farò vivo al più presto,

    Tuo servo umilissimo

    Francesco

    Lettera di Benzi a Corsini:

    28 maggio 1798

    Caro Giovanni,

    non avrei voluto mai scrivere una lettera di questo tenore ma due giorni fa qui a Siena è successo il finimondo. La terra ha tremato in modo tremendo e ha scosso mura, alberi e case. Fortunatamente vi sono stati due soli morti perché la scossa è avvenuta al tocco e mezzo, altrimenti sarebbe stata una strage. La bella e opulenta Siena è diventata un cumulo di macerie e i senesi sono caduti nella più cupa costernazione. Sono state improvvisate ad abitazioni una serie di baracche, tende e vetture nelle piazze e alla Lizza per accogliere gli infelici rimasti senza tetto. Lo stesso Pontefice, non sentendosi più sicuro nel Convento di Sant’Agostino – che ha subìto gravi danni –, si è trasferito subito in Palazzo Gallerani. Purtroppo in questo sfacelo è rimasto offeso anche il tuo palazzotto e questo è il motivo principale per il quale ti scrivo. Naturalmente vedrò cosa si potrà fare per restaurarlo e comunque tieni presente che in casa mia sarai sempre gradito ospite (fortunatamente la sorte è stata benevola con la mia dimora!).

    A proposito, dalla stessa sera del 26 – oh giorno infausto! – il Papa ha lasciato Palazzo Gallerani per Torre Fiorentina e da qui presto partirà per la Certosa di Firenze. A Siena si dice che Pio VI se ne andrà via perché dopo il terremoto non si sente più sicuro. Martini invece mi ha fatto capire che in questa partenza c’è lo zampino del Direttorio. Io credo che i francesi abbiano paura che un sovrano esiliato in un luogo troppo vicino al suo regno – e oltretutto si tratta di un sovrano anche di anime! - possa essere un forte elemento destabilizzante per loro. Penso che sia questo il vero motivo per cui lo faranno allontanare da Siena. Certo ora Ferdinando III si troverà a gestire questa patata bollente quasi in prima persona. Prevedo tristi tempi per il nostro Granducato. Tu che ne pensi? Quanto prima dovremo incontrarci e parlarne a quattr’occhi. Potremo invitare anche altri amici che la pensano come noi.

    Spero di vederti presto. Tuo fedele servitore

    Francesco

    I

    Colline nei dintorni di Firenze, 1969.

    La 127 entrò nella piazzola lentamente e si fermò vicino a una fittissima macchia di rovi. L’automobilista contemplò con aria perplessa, per qualche istante, il luogo, quindi decise di scendere. Aiutandosi con un bastone camminò incerto, zoppicando leggermente, fino al punto in cui iniziava lo stretto sentiero. Aveva smesso di piovere da meno di un’ora e la stradicciola era ricoperta da uno spesso strato di fango.

    L’uomo imprecò tra i denti, si frugò in una tasca del cappotto finché non trovò la lettera. La strinse tra le dita con rabbia, quasi volesse strapparla, poi allentò la presa, emise un profondo respiro e si inoltrò nel sentiero. Impiegò un quarto d’ora prima di sbucare in un vasto spiazzo, da cui era possibile godere un panorama spettacolare. La radura nella quale avanzava assomigliava ad una sorta di ampio balcone naturale, delimitato da una ripidissima scarpata che si allargava, venti metri più sotto, in un campo coltivato a viti e a piante di olivo. In lontananza, nella luce del crepuscolo, un cielo punteggiato da nuvole scure faceva da sfondo alla città, distesa nella pianura attraversata dall’Arno.

    «Bel panorama, eh?» disse una voce alle sue spalle.

    L’uomo col bastone si voltò e scorse una persona alta e magra che usciva da dietro un cipresso imponente. Lo riconobbe subito: odioso come sempre, pensò, con quella faccia su cui era stampata un’espressione di eterna derisione, con quel pizzetto brizzolato da professorino saccente e intrigante.

    «Ti piace giocare a nascondino, Rampulla?» chiese l’uomo stringendo il bastone.

    «Mi piace incontrare gli amici in un posto tranquillo, appartato, dove si può discutere… E poi è un bel gioco».

    «Io non voglio discutere un bel niente! Perché mi hai mandato questa?» e mostrò furibondo la lettera. «Ti avevo già pagato il mese scorso e ora torni alla carica!».

    «Briciole, caro Serni!» disse con un tono strafottente Rampulla. «Briciole, poco più di una mancia! Con quello che hai guadagnato in Francia piazzando tanti bei De Chirico fasulli…».

    «Sei un ricattatore di merda».

    «E tu un falsario di quadri che rischia la galera!».

    Serni fece un passo in avanti, minaccioso. Rampulla non si mosse, ma estrasse veloce, dal suo impermeabile, un coltello. Erano entrambi vicinissimi al bordo della scarpata.

    «Calma, Serni! Calma e sangue freddo. Non fare stupidaggini. Devi solo staccarmi un assegno. Poi basta che dipingi qualche Modigliani e raggranelli di nuovo un po’ di soldi».

    La reazione del pittore fu rapida e inaspettata. Serni alzò il bastone e, premendo un minuscolo pulsante, fece uscire, dall’estremità, una lama: «Lo sai, Rampulla, che mi hai rotto i coglioni? Un assegno! Te lo do subito l’assegno! Venti centimetri di acciaio nello stomaco, ecco quello che ti do!».

    Serni si avventò, come una furia, contro Rampulla, cercando di colpirlo al petto. L’uomo si scostò d’istinto e l’assalitore, completamente sbilanciato, scivolò sull’erba bagnata, rotolando per mezzo metro e precipitando nella scarpata. Rampulla vide che, miracolosamente, il pittore era riuscito ad afferrare un cespuglio sporgente sull’orlo della radura: per qualche secondo spenzolò nel vuoto, dibattendosi come un burattino manovrato goffamente da una mano invisibile.

    «Aiutami! Aiutami!» urlò Serni disperato.

    Rampulla rimase a guardarlo incerto, poi udì il rumore secco, terribile, degli arbusti che cedevano e il grido del pittore che scompariva alla sua vista, inghiottito dal vuoto.

    Era già la seconda volta che il telefono squillava, ma nessuno lo sentiva. Nella stanza si respirava un’aria pesante, prodotta da chi vi aveva trascorso una nottata di sonno. Un sonno unico, sodo, invulnerabile. Spade di luce, provenienti dalle persiane ancora chiuse, evidenziavano un pulviscolo bianco che saliva e scendeva all’interno della stanza, la quale poteva sembrare una palla di vetro, come quelle con la neve dentro che si vendono al mercato. Una cinquantina di orsacchiotti di peluche, di varie misure e colori, accatastati sul canapè, vicino al letto, sembrava intenta a vigilare il sonno di qualcuno. Nella stanza nessun movimento, solo un brusio, un flebile fischio ritmato, periodico, che veniva dal letto a due piazze, proprio nella direzione dove stavano guardando tutti e cinquanta gli orsacchiotti.

    Il telefono smise improvvisamente di squillare. A un tratto l’enorme bozzolo di lenzuola e coperte, oggetto di tanta inanimata attenzione, si girò su se stesso e lasciò partire un russo potente, lacerando per sempre la quiete ovattata della stanza e facendo meravigliare gli stessi peluches.

    Il russo fu talmente forte che Cassandra stessa, che lo aveva emesso, si svegliò.

    «Che strano, ho come avuto la sensazione di aver sentito squillare il telefono» esclamò la donna togliendosi i tappi di cera. Poi aggiunse: «Ma no, probabilmente stavo solo sognaaaa…ndo» e sbadigliò sulla a.

    Intanto si tirò su a sedere sul letto. Quindi buttò l’occhio sul quadrante della sveglia, sul comodino.

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