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La vendetta di Santa Costanza
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La vendetta di Santa Costanza
E-book130 pagine1 ora

La vendetta di Santa Costanza

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Info su questo ebook

Firenze, 1971. Un uomo sembra essersi suicidato lanciandosi dal Campanile di Giotto. Il commissario Bisagno, tuttavia, nutre dei seri dubbi sulle modalità della sua morte. Nel frattempo, il cadavere viene identificato: si tratta di un ex detenuto, fuggito dal carcere durante l'alluvione del 1966. Ben presto, Bisagno capirà che quello che appare come un suicidio è, in realtà, un omicidio. Basterà scavare un po' più a fondo per capire come l'evento sia proprio collegato a un fatto di sangue consumatosi anni e anni prima.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2022
ISBN9788728496985

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    Anteprima del libro

    La vendetta di Santa Costanza - Riccardo Parigi

    La vendetta di Santa Costanza

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2022 Riccardo Parigi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728496985

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    A nonno Attilio, uno degli 83 martiri della Niccioleta

    Nastro numero 1

    Mi hanno convinto ad assistere alla caccia al cinghiale. Non vi avevo mai preso parte. All’inizio il capocaccia stabilisce la distanza e la posizione delle poste, si assicura che il vento non spiri nella nostra direzione, per non mettere in allarme le prede. Poi i canài sciolgono le loro bestie che trovano i cinghiali e li spingono verso le poste, verso i fucili. Infine entrano in azione altri cacciatori, i quali, urlando e facendo schiamazzi, si assicurano che gli animali, spinti dai cani, non cambino il cammino che li porterà in bocca ai loro carnefici. Mi ha fatto un effetto particolare vedere questa azione bene orchestrata, questo cerchio di morte, questo perimetro di sangue.

    La mente è andata subito in cortocircuito, ha ricostruito i contorni (netti, precisi, scolpiti) dell’altra battuta. Ma quelli non cacciavano cinghiali. Loro cacciavano uomini…

    … I tre stanno guardando i loro aguzzini negli occhi. Il più giovane sta piangendo. Urla incredibili escono dalla casa: si riconoscono le voci, chiedono pietà, chiedono aiuto alla Madonna, a Cristo, ai santi, agli uomini. Nessuno, nessuno corre a salvarli…

    Firenze, 3 novembre 1966, ore 19.30

    Auuuuuuuuhhhh, auuuuuuuuuuhhhh, auuuuuuhhhhh. – Il bambino correva scatenato intorno alla tavola della cucina e sembrava mosso da un’energia sovrumana, inesauribile.

    – Cecchino, finiscila – urlò la madre, che stava rimestando il sugo che sobbolliva nella pentola.

    Auuuuuuuuuuhhhh, auuuuuuuuhhhhh…

    La donna si allontanò rapida dal focolare e assestò un tremendo ceffone al figlio. Gli ululati si trasformarono in singhiozzi disperati. – Hiiiiiiiiii, cattiva, cattiva, hiiiiiiiiiiii, facevo la danza contro la pioggia!

    – Che cosa?

    – Hiiiiiiiii, sì, sì, l’ho visto alla televisione – biascicò il bambino con gli occhi pieni di lacrime. – Gli indiani fanno la danza perché piova, io ho inventato questo, sì… perché finisca il temporale. Hiiiiiiiiiii.

    – Torquato – fece la donna rivolgendosi al marito – ma da chi ha preso questo figliolo per essere così scemo? Ha preso da te.

    L’uomo era vicino ai vetri dell’unica finestra della stanza: osservava pensieroso il profilo massiccio del carcere delle Murate, appena distinguibile, a causa della pioggia violentissima, dall’altra parte della strada. – Mah, speriamo che questo diluvio finisca presto. L’Arno ha superato di parecchi metri il livello di guardia. Fa paura.

    – Sei il solito lagnoso.

    – Elvira, non hai sentito quello che hanno detto alla radio?

    – Io so soltanto una cosa – disse acida la donna. – Ce ne stiamo sempre chiusi in casa. Non andiamo mai fuori Firenze. Bello o brutto tempo, per noi non fa differenza. Rumori lunghi e strascicati sembravano provenire dal piano superiore. L’uomo rivolse lo sguardo al soffitto. – Che fa il professore, sposta i mobili del salotto?

    – Ieri l’ho incrociato per le scale e mi ha detto che approfittava di questi giorni di festa per riposarsi. Non va a trovare i suoi amici in Mugello.

    – Fa bene a starsene qui. Molti torrenti in Toscana sono straripati e…

    – Ancora con questa solfa della pioggia! – sbuffò la donna.

    – Ma non ti ricordi quello che diceva mia mamma?

    – No, che diceva? – chiese il marito (e si trattenne dall’aggiungere quella grandissima rompicoglioni! Dio l’abbia in gloria).

    – È acqua senza sale, non fa né bene né male.

    Firenze, 4 novembre 1966, ore 9.15

    – Forza, forza! Su per le scale, svelti! – Gridava la guardia penitenziaria Giorgetti. Una trentina di detenuti correvano, urlando e bestemmiando, mentre giù in basso il braccio del carcere era invaso da una quantità impressionante di acqua melmosa.

    La piena dell’Arno aveva ghermito la città all’alba, quando il fiume si era ingrossato tanto da travolgere le spallette in muratura. Aveva allagato in un batter d’occhio strade e piazze dei quartieri del centro. Il carcere delle Murate si era trovato subito in una situazione drammatica, assalito da un mare di acqua e di fango che cresceva di ora in ora.

    Poco prima delle nove del mattino le guardie avevano ricevuto l’ordine di aprire le celle: l’unica speranza era di cercare scampo sui tetti dell’edificio.

    Quando i secondini e i detenuti sbucarono all’aperto furono colpiti da una pioggia fitta, martellante. Ma rimasero annichiliti soprattutto nel vedere la forza immane dell’inondazione, la corrente che trascinava via automobili e tronchi d’albero come se fossero barchette di carta. Il panorama della città era irriconoscibile, i consueti scorci completamente scompaginati; tutto pareva catapultato nella dimensione di un incubo. Palazzi, case, chiese, monumenti sembravano sospesi su un lago ribollente di schiuma scura.

    Cercarono di sistemarsi sulle tegole scivolose, facendo attenzione a non precipitare di sotto. Erano tutti frastornati e depressi. Tutti, fuorché Arnaldo Bencistà, detto il Luccio.

    – Torquato! L’acqua continua a salire, facciamo la fine del topo!

    – Finiscila Elvira! – Gridò l’uomo. – Spaventi Cecchino. Qui al secondo piano siamo al sicuro.

    Cercava di mantenere i nervi saldi, di tranquillizzare la moglie ma anche lui era terrorizzato. Via Ghibellina si era trasformata in un torrente percorso da correnti e da gorghi impetuosi; all’interno della casa l’elettricità era saltata, il telefono non funzionava. Si poteva solo sperare che la furia dell’Arno si placasse e che l’acqua cominciasse a defluire.

    L’uomo fissò nervoso i Baronti, marito e moglie, che abitavano al piano terreno e che si erano salvati rifugiandosi, due ore prima, nel suo appartamento. Nelle loro facce vide i segni di uno sconforto senza fine, sembravano invecchiati di colpo di almeno dieci anni; nel giro di pochi minuti avevano perso tutto, e ora erano distrutti dal pensiero che la loro casa fosse sepolta nella melma.

    – Campolmi che fine ha fatto? – chiese all’improvviso Elvira.

    – Anche stamattina ho sentito dei rumori provenienti dal suo appartamento – disse Torquato. – Sono andato a bussare alla porta ma non ha risposto. È strano, mi pare impossibile che stia ancora dormendo. Ehi, guardate! Sul tetto delle Murate c’è un gruppo di detenuti. Si stanno sbracciando, cercano aiuto, ma… ma quello che fa?

    – Chi? – domandò la moglie appiccicandosi ai vetri della finestra.

    – Quello lì. Si è alzato, cammina lungo la grondaia. Viene in questa direzione!

    – Bencistà, sei pazzo! Ti vuoi sfracellare? – gridavano i carcerati. Ma Arnaldo Bencistà, soprannominato il Luccio, non si curava dei compagni. Era stato condannato per rapina e doveva scontare altri due anni. Il pensiero di stare rinchiuso, ancora per ventiquattro mesi, in una cella, come una bestia allo zoo, gli dava il voltastomaco. Si era lambiccato il cervello un’infinità di volte cercando il modo di tagliare la corda e ora, che le guardie avevano allentato il controllo, si presentava un’occasione con i fiocchi. Dio aveva voluto bagnare il culo a quei pezzenti di fiorentini e aveva dato a lui una possibilità, una via di fuga, anche se pericolosa: sarebbe stato da idioti non sfruttarla.

    Ora camminava agile lungo la grondaia del tetto, per nulla intimorito dal torrente in piena che inondava via Ghibellina. A un certo punto si fermò in prossimità di un grosso cavo della luce che collegava l’antico edificio del penitenziario con un palazzo situato dall’altra parte della via. Ne saggiò con il piede destro la tenuta e, con estrema naturalezza, deviò il suo percorso acrobatico. Era abituato a muoversi ad altezze considerevoli. In gioventù, per quasi un anno, aveva lavorato in un circo e si era esibito anche al trapezio. Poi la grande decisione di applicare questo suo talento in un altro settore: quanti lucernari o abbaini aveva forzato? In quanti appartamenti era riuscito a entrare calandosi dall’alto? Il Luccio (un nomignolo dovuto alla faccia magrissima e alle labbra sporgenti) non teneva certo il conto delle abitazioni che aveva ripulito, ma era orgoglioso della sua abilità e del suo coraggio. Tutti gli riconoscevano un bel po’di fegato.

    Avanzò con cautela, le braccia aperte come un esperto filferrista, finché giunse in un punto

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