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Dodici discorsi morali storici e politici
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E-book530 pagine7 ore

Dodici discorsi morali storici e politici

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Info su questo ebook

A segnalare l'importanza di Alberto Radicati fra gli intellettuali del primo Settecento italiano ed europeo fu Pietro Gobetti, che sentì fortemente l'attrazione di quella figura di nobile ribelle, democratico, anticlericale e proto-comunista. Del conte di Passerano, da lui definito «primo illuminista della penisola», Gobetti ha tracciato, nel suo Risorgimento senza eroi, un ritratto pieno di forza e vivacità poi ripreso, precisato e approfondito da Franco Venturi.
I Discorsi uscirono a Londra nel febbraio del 1734 col titolo Twelve Discourses concerning Religion and Government. L'edizione che oggi presentiamo del capolavoro radicatiano colma una lacuna quasi incredibile: a oltre duecentosettant'anni dalla pubblicazione delle sue versioni inglese e francese, il più nobile manifesto anticlericale del primo Settecento italiano non era mai stato stampato prima d'ora nel nostro paese. Eppure i Discorsi costituiscono un'importante testimonianza del pensiero illuminista: un atto d'accusa contro l'opera profondamente corruttrice della fides mercenaria che pretende «di conciliare, per mezzo di numerosi riti superstiziosi, una vita malvagia con la speranza della salvezza eterna».
Radicati si richiama alla parola di Gesù per rimproverare alla Chiesa la sua decadenza morale e la sua volontà di dominio terreno; propone la nomina degli ecclesiastici da parte dello Stato, la confisca dei beni ecclesiastici, la sottrazione ai religiosi dell'insegnamento, l'abolizione dell'Inquisizione.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2023
ISBN9791280649461
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    Anteprima del libro

    Dodici discorsi morali storici e politici - Alberto Radicati

    DISCORSI-Copertina.jpg

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2023 Gammarò edizioni

    Oltre S.r.l., via Torino 1 – 16039 Sestri Levante (Ge)

    www.librioltre.it

    ISBN 979-12-80649-46-1

    isbn_9791280649461.jpg

    Titolo originale dell’opera:

    dodici discorsi morali, storici e politici

    di Alberto Radicati

    a cura di Tomaso Cavallo

    Collana * I classici *

    ISBN formato cartaceo: 978-88-95010-27-4

    Titolo originale dell'opera:

    Twelve Discourses Moral, Historical, and Political. By ALBERT Count de PASSERAN. To which are prefixed the AUTHOR’s motives for writing these DISCOURSES; for which his Estate and whole Substance were confiscat’d and himself condemn’d to be burn’d alive. Now faithfully English’d from the French, just Printed at Rotterdam, London. Printed; and Sold by J. WILFORD, near St. Paul’s, M DCC XXXVII (Price 3 s. 6 d. sew’d).

    Allegoria.jpg

    INTRODUZIONE

    Nel ricordo di Nicola Badaloni

    Ammetto che l’ordinamento della chiesa romana, da voi tanto lodato, è politico e lucroso per i più; e non crederei che ve ne sia uno più adatto a ingannare il popolo e a domare l’animo della gente, se non esistesse anche la chiesa maomettana, che lo supera di molto.

    B. Spinoza, Lettera al nobilissimo giovane A. Burgh

    La testa di cui parlo non è quella di Medusa, ma la testa clericale, ben più tremenda dell’altra. Perché i mali che gli uomini hanno sofferto da Medusa erano puramente immaginari, mentre quelli che hanno patito, e ancora patiscono dai preti, non sono che troppo reali.

    A. Radicati, Decimo Discorso

    1.

    Il lavoro che qui presento, la traduzione italiana dei Dodici Discorsi Morali, Storici e Politici di Alberto Radicati di Passerano, è nato da una constatazione irritante almeno ai miei occhi, affetti – non lo ignoro – da ipermetropia congenita. Il più nobile manifesto anticlericale del primo Settecento italiano, a oltre duecento-settant’anni dalla pubblicazione delle sue versioni inglesi e francese, non ha conosciuto nel nostro paese diffusione alcuna, se non clandestina. Mentre, fin dal 1804, in Italia hanno trovato un traduttore e un editore le Lettere pastorali circa la insufficienza della ragione e la necessità di una rivelazione dello zelante e dotto vescovo anglicano Edmund Gibson, che le malelingue ai suoi giorni dicevano «altezzoso, avaro e vendicativo come il grande Inquisitore di Goa»¹ e che comunque, anche a non dar retta a tali voci poco obiettive, sappiamo essere stato avversario accanito dei deisti e attivissimo nel mobilitarsi per far rinchiudere in carcere a Londra il conte di Passerano.

    Con i tempi correnti e trascorsi in un paese come il nostro, in cui «laici» e «cattolici» continuano a gareggiare nel tenersi ben stretto il Concordato, nessuna meraviglia, ovviamente. Immaginare una qualche seria diffusione dell’opera radicatiana equivarrebbe a pretendere che, tra i temi escogitati per la maturità dai pedagoghi ministeriali, fosse mai comparsa la richiesta di un commento alla appassionata invettiva del Petrarca contro la Santa Romana Chiesa dei suoi giorni, «fontana di dolore, albergo d’ira,/scola d’errori e templo d’eresia», oppure che fosse proposta ai maturandi un’analisi della ruvida, ma veridica testimonianza guicciardiniana a proposito della metamorfosi conosciuta dal papato in età rinascimentale.²

    Come che sia, nonostante la nostra lontananza storica dall’alba dell’illuminismo in cui furono scritti, i Discorsi radicatiani – anche e soprattutto nell’epoca dei fondamentalismi religiosi riemergenti – restano un’opera che conserva la bruciante attualità di quel grande moto del pensiero europeo, soprattutto là dove, prima di Kant e della sua Religione nei limiti della sola ragione, denunciano l’opera profondamente corruttrice della fides mercenaria tipicamente nostrana, consistente nel permettere «di conciliare, per mezzo di numerosi riti superstiziosi, una vita malvagia con la speranza della salvezza eterna»,³ ovvero la pratica onnipervasiva del più inveterato familismo, nepotismo e clientelismo amorale, per non dire della simultanea onorata appartenenza a mafie del più svariato genere e a confraternite devozionali incaricate della processione rionale della Santa Rosalia del luogo.

    Ai venticinque lettori che, se vorranno, d’ora in poi potranno più agevolmente accostarsi ai Discorsi radicatiani, mi limito qui a fornire qualche informazione essenziale per inquadrare l’opera e il suo autore. So benissimo quanto approssimative e frettolose siano queste mie pagine che, di un’opera stratificata, finiscono con l’evidenziare solo alcuni elementi di fondo, lasciando inindagati molti dei problemi presentati da un testo esuberante come i Discorsi concepiti negli anni della prima maturità dal conte piemontese per il suo sovrano. Ma da quando mi sono accinto a questo lavoro, l’essenziale per me era realizzarne traduzione ed edizione affinché, dopo il lungo esilio a cui sono stati condannati, i Discorsi morali, storici e politici entrassero a figurare, come meritano, tra i classici dell’anticlericalismo italiano che non sempre è stato solo comodo becerume podrecchiano, annoverando tra i suoi autori non solo Dante, Petrarca, Boccaccio, Marsilio da Padova, Machiavelli, Guicciardini, Bruno, Sarpi, Giannone, Pilati, Leopardi ma anche più recenti nobili spiriti come Piero Martinetti, Gaetano Salvemini, Luigi Russo, Ernesto Rossi, Sebastiano Timpanaro.

    Chi si accinge a leggere i Discorsi radicatiani credo faccia bene a tenere da subito presente che solo un intrico di vicende storiche e biografiche del tutto particolari ha fatto sì che il rampollo di una delle più antiche e solide famiglie di feudatari piemontesi – insediatisi tra undicesimo e tredicesimo secolo nella zona collinare tra Chieri e Asti e tra gli ultimi, nel Cinquecento, a sottomettersi ai duchi di Savoia – diventasse un autore di pamphlet e cercasse di affermarsi sull’affollato mercato librario della Londra primo-settecentesca. Non si possono avere dubbi circa il carattere di personale sconfitta rappresentato da simile carriera di «faiseur de libele»⁴, né circa la natura di messaggio chiuso in una bottiglia costituito dall’opera consegnata alle stampe dal conte piemontese. Del resto la stessa capitale inglese che proprio in quegli anni, fino al 1728, aveva accolto generosamente Voltaire e la sua Henriade, per Radicati in definitiva non si rivelò molto più ospitale delle terre sabaude, nonostante il sincero apprezzamento del conte circa le libertà ivi godute, in primis quella di coscienza. A testimoniarlo è la lettera che, al settimo anno del suo esilio, il Passerano indirizzò al Duca di Newcastle, all’indomani della amara, se pur breve esperienza del carcere londinese. Si tratta di un documento prezioso, scovato dall’acribia archivistica di Franco Venturi, che merita citare per intero.

    «Signor mio,

    Sono un uomo le cui sfortune sono sufficientemente note al mondo inglese. Ma pochi soltanto sanno le vere cause di esse. Alcuni male informati, o che nutrono malanimo contro di me, hanno sostenuto che sono stato obbligato a fuggire il mio paese per la malvagità dei miei scritti, ciò che è assolutamente falso. La verità è che sono fuggito unicamente per schivare la rabbia e la furia del clero papale, per avere favorito con troppo zelo e buona volontà la propagazione degli interessi protestanti in Piemonte, come alcune mie opere (che io scrissi per servire e ubbidire al re Vittorio e che saranno presto pubblicate in inglese) possono ben testimoniare.

    Se io non fossi stato, Signor mio, tanto sfortunato da incontrare un’accoglienza così fredda qui in Inghilterra dal giorno in cui mi ci sono rifugiato, or sono sette anni, io non avrei mai messo in pubblico la mia Dissertazione filosofica sulla morte, né avrei dato nelle mani di alcuno perché traducesse e pubblicasse in inglese il mio testo originale italiano.

    Ma due ragioni, Signor mio, e forti ragioni, mi hanno costretto a farlo. In primo luogo la semplice miseria mi ha obbligato a vendere il manoscritto italiano per evitare di morir di fame. In secondo luogo, poiché il soggetto del mio pamphlet è di grande importanza per tutta l’umanità, io volevo davvero pubblicare le mie opinioni in questo paese (dove la gente, che gode la libertà di esaminare tutte le materie di fede, è più colta che non in quelle terre dove gli uomini sono ingiustamente privati di questo diritto) onde io potessi sapere dalle obiezioni o approvazioni delle persone di cultura e di buona fede se le mie nozioni sono giuste o sbagliate, buone o cattive, e perciò o persistere in questi miei sentimenti o conseguentemente abbandonarli, cosa che io sarò sempre disposto a fare qualora fossi convinto da solide ragioni d’esser nel torto, non avendo altro scopo nelle mie ricerche filosofiche se non la verità e il bene dell’umanità.

    Ma io umilmente confido che la Vostra Grazia avrà la bontà di considerare che il metodo di convertire gli eretici con la violenza e non col ragionamento, come è detestabile pratica dell’inquisizione, non è un vero metodo cristiano, né adatto a convincere alcuno dei propri errori.

    Sono con grande rispetto, mio Signore, il più ubbidiente ed umile servo di Vostra Grazia

    Albert de Passeran».

    Non meno amara, come documenta la lettera del conte di Canale al marchese d’Ormea dall’Aja del 21 aprile 1735,⁶ fu anche l’ultima tappa del suo esilio in Olanda che vide, anzi, l’ulteriore aggravarsi di miseria, solitudine, malattia, insieme alla tensione e allo sforzo estremi per salvare le verità acquisite pubblicando, questa volta in francese, un’ampia raccolta dei suoi scritti. Informando la corte dell’avvenuto decesso di Radicati, il conte della Chavanne non mancherà di precisare che egli era ridotto a una miseria tale «qu’il n’a pas laissé de quoi se faire enterrer».⁷

    Nonostante l’oblio che – prima della fondamentale monografia venturiana del 1954 – ne ha circondato a lungo l’opera, nella sua breve e irrequieta esistenza Alberto Radicati non era passato inosservato, né i suoi scritti erano rimasti senza eco. Costretto ventottenne all’esilio e di lì in avanti a una vita di espedienti, fino alla morte avvenuta all’Aja il 24 ottobre 1737 tra le braccia soffocanti di pastori ugonotti intenti a salvargli l’anima in articulo mortis,⁸ gli scritti che – non senza difficoltà, ma con il probabile appoggio di ambienti massonici inglesi – era riuscito a pubblicare nel giro di poco più d’un quinquennio gli avevano assicurato una discreta fama internazionale.

    Cattiva fama, si dirà. Il che, almeno per determinati ambienti, corrisponde sicuramente al vero. Perché se George Berkeley, leggendo acutamente nelle pagine della sua Philosophical Dissertation upon Death lo sbocco estremo del libero pensiero – l’aperta proclamazione della libertà individuale anche nei confronti della propria morte – aveva relegato il Passerano tra i minute philosophers che il vescovo di Cloyne aveva avuto l’intenzione di sbaragliare nell’Alcifrone;⁹ se nelle sue irriverenti ma fortunate Lettres cabalistiques il marchese d’Argens lo aveva spedito senza tanti complimenti all’inferno tra i mauvaises auteurs a duellare verbalmente con il gesuita La Hode, neutralizzando in anticipo il tentativo dei pastori olandesi di sfruttare la sua conversione in extremis;¹⁰ se lo storico delle istituzioni ecclesiastiche Johann Lorenz Mosheim lo aveva liquidato come «uno dei più audaci e, insieme, più inabili detrattori della religione mai apparsi», un altro tedesco della levatura di Johann Georg Hamann ne aveva pur tradotto per intero in gioventù La religion muhamédane e, nel 1768, era stato Voltaire in persona a ricordarsi con simpatia del conte piemontese, da lui forse incontrato per le vie di Londra ai tempi del suo esilio, allorché ne assunse il nome quale pseudonimo per la prima versione dell’Epitre aux Romains in cui incitava il popolo di Roma e del disastrato stato pontificio a scuotersi di dosso il giogo della «tirannide» papale. Del resto anche in Italia, manoscritta e sconosciuta fino al 1984, proprio dei Discorsi e de Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo – dalla loro edizione olandese – benché inedita, è comunque attestata una versione integrale, redatta in una grafia minuta ed accurata che Luigi Firpo datava al tardo Settecento o ai primissimi anni dell’Ottocento.¹¹ E nelle perquisizioni effettuate a Gioia del Colle nel gennaio 1794 in casa di Emanuele De Deo, la polizia borbonica scovò una copia del Recueil de pièces curieuses sur les matières les plus interessantes pubblicato a Rotterdam nel 1736. Nella famiglia del primo martire giacobino, torturato e impiccato a ventidue anni, l’opera del conte di Passerano aveva dunque latomicamente il suo posto.¹²

    Chi di Radicati, alla Biblioteca Nazionale di Torino, compulsa il Recueil, su un foglietto manoscritto accluso alla copia ivi conservata, insieme a inedite e forse non inattendibili informazioni, può leggere un giudizio ortodossamente liquidatorio dei suoi scritti. Questa pagina trasmette efficacemente l’atmosfera di diffidenza che circondò l’«insolente» e «stravagante» conte anticlericale nel mondo subalpino e può spiegare, almeno in parte, la vera e propria rimozione in cui la sua opera incappò, si può dire da subito, in Piemonte e in tutta la Penisola.

    «L’Auteur de ce recueil – scriveva l’anonimo – après sa disgrace s’etant retiré en angleterre, et n’ayant plus de moyen pour y subsister, s’etoit adressé au chevalier Ossorio l’assurant quil se repentoit de sa faute et que si le Roi vouloit bien lui permettre de retourner dans sa patrie S. M. auroit occasion d’etre satisfaite de sa conduite et de ses actions. Le Chevalier Ossorio en fit rapport à la Cour qui envoya une lettre de change à Mr. Radicati pour retourner dans le Piemont, mais étant arrivé a Bruxelles il changea de nom et fit mettre dans la gazette que le Comte de Passeran etoit mort en s’en allant à Turin. On aprit quelque tems après quil étoit en hollande, et il osa se presenter au Comte de Canal alors Ministre du Roi a la Haye, le prians de vouloir bien implorer son pardon resolu, disoitil, de mener d’or en avant une vie reglée et telle dont le Roi seroit content. Le Comte de Canal en écrivit a S. M. qui encore une seconde fois envoya de l’argent à condition que des quil seroit en Piemont il se rendroit lui méme dans un chateau pour y demeurer deux ans jouissant d’ailleurs de toute sa liberté possible. Cette peine etant due au public qui etoit informé de la maniere dont Mr Radicati avoit osé attaquer la religion, mais il ne voulut point accepter cet offre, et il mourut de misere en Hollande apres avoir fait imprimer cet ouvrage clandestinement, ce qui engagea le magistrat surintendent de police à le faire brùler par les mains de Bourreau».¹³

    2.

    Nel contrasto, non privo di momenti di notevole asprezza, che da più lustri vedeva contrapposti il suo sovrano e la curia romana, il giovane conte Alberto Radicati non aveva avuto esitazioni a scegliere la parte con cui schierarsi. Sapeva, dunque, benissimo dove stessero i suoi nemici. Anche perché, credendosi al riparo della protezione regale,¹⁴ fin dai primi anni venti, dall’epoca del suo ritorno da un prolungato soggiorno in Francia probabilmente decisivo per la sua maturazione intellettuale,¹⁵ aveva dichiarato loro una guerra senza quartiere; e a corte e in società non aveva certo nascosto le sue opinioni decisamente oltranziste in merito all’abolizione di immunità e privilegi goduti da vescovi, abati, preti, frati, monache e dalle varie confraternite – le Compagnie del Rosario, del Monte Carmelo, della cintola d’Agostino, della corda di san Francesco… che Radicati rievoca nel suo VIII Discorso – ben impiantate nel Piemonte primo-settecentesco. La sua era una posizione di rottura anche nei confronti degli atteggiamenti tradizionali del suo casato che, nella resistenza contro la politica giurisdizionale del re Vittorio Amedeo II, disponeva di un rappresentante filocuriale del calibro del vescovo di Casale, Pietro Secondo Radicati, validamente affiancato nell’azione di resistenza al ridimensionamento del potere clericale, tentato dal sovrano sabaudo, da due suoi fratelli e un nipote, tutti ecclesiastici.¹⁶

    Nella sua irruenza, sicuramente non priva di estremismi verbali, in più di un’oc-casione il giovane Passerano era giunto a sfidare apertamente l’intervento dell’In-quisizione che lo aveva comunque adocchiato e, senza la protezione regale, non avrebbe esitato a procedere nei suoi confronti, considerandolo un «ateo» pericoloso.¹⁷ L’approssimarsi del Concordato a cui il re di Sardegna da ultimo andava accedendo, affidandosi alle arti diplomatiche e alle capacità corruttive del marchese Carlo Vincenzo Ferrero d’Ormea, suo plenipotenziario nelle trattative con la curia romana,¹⁸ costituì per Radicati il segnale d’allarme che non gli lasciava altra via di scampo, se non una deliberata e pronta fuga verso una più libera capitale.

    Per qualche tempo anche nell’esilio londinese Radicati, che era riuscito ad espatriare accompagnato in un primo tempo dalla seconda moglie, dopo aver monetizzato le sue rendite fondiarie (non ignorava che sarebbero state sottoposte a confisca), continuò forse a nutrire l’illusione che il re sabaudo avrebbe, nonostante tutto, anche potuto mutare d’avviso nei suoi rapporti con Roma, capire la sua intatta fedeltà, il suo zelo per la giusta vecchia buona causa, non abbandonandolo per sempre alla tribolata vita dell’esilio. Per questo il suo primo testo a stampa, il Manifesto di Adalberto Radicati conte di Passerano e Cocconato, aveva in realtà un solo destinatario: il re di Sardegna, appunto.¹⁹ A cui si trattava di spiegare le ragioni di una fuga che non significava in alcun modo diserzione dal campo di battaglia. Semmai, si trattava di un ripiegamento imposto dalle circostanze e consigliato addirittura dal Divino Maestro che i nemici del Passerano, coloro che di Gesù Cristo si presentavano come gli autentici eredi e seguaci, avevano malamente tradito. Al re sabaudo, infatti, Radicati nel Manifesto esponeva la «serie de’ miei infortuni […] le persecuzioni che ho sofferto in Piemonte, dalle quali sarei senza dubbio stato oppresso se la Bontà Divina non m’avesse fatto sempre sollevare dall’intatta giustizia di Sua Sagra Maestà: e benché io l’abbia in tante occasioni esperimentata, di modo che averei dovuto sempre in quella confidare, niente di meno ho temuto la perfidia de’ miei nemici, l’aggiustamento con Roma e per conseguenza la tirannica Inquisizione nella sua autorità ristabilita. Queste sono quelle cagioni tanto importanti che mi hanno fatto seguire l’avvertimento di Cristo: cum autem persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam».²⁰ È la prima sua citazione da Matteo: come si vedrà, con il Luca del buon samaritano e del Gesù critico dell’istituto familiare, l’evangelista fondamentale nella ricostruzione della dottrina di Gesù presentata nei Discorsi.

    Pur accampando gravi motivi di salute per declinare gli insistiti inviti che lo sollecitavano a un immediato rientro nelle terre sabaude – rassicurazioni verbali di cui l’esperienza gli aveva appreso a diffidare – anche nel nuovo ambiente inglese Radicati aveva tuttavia proseguito con tenacia e impegno il lavoro alla «materia ecclesiastica» iniziato in Piemonte su richiesta esplicita del re Vittorio che, a due riprese, l’aveva fatto convocare a corte.²¹ Da quegli incontri Radicati era uscito con il cuore gonfio di speranza, convinto di poter contribuire efficacemente a «delivrer ma Patrie du joug cruel des Ecclésiastiques». Tentato il ristabilimento dei contatti con Torino, Radicati a Londra trascorse, a quanto ci dice, sei mesi interi a comple-tare il suo lavoro,²² riversandovi tutto il bagaglio della sua straordinaria curiosità di geniale autodidatta, il frutto delle sue meditazioni dei classici (Livio, Tacito, Cicerone, Seneca, Lucrezio, Plutarco, Luciano), dei testi neotestamentari, delle sue appassionate letture di Machiavelli, Guicciardini, Sarpi, Muratori, degli storici della chiesa, dei Padri e del papato, da Platina a Basnage, a Barbeyrac, per non dire di Charron, Bayle, dei deisti e dei free-thinker inglesi e dei loro progenitori secen-teschi, Hobbes e Spinoza.

    Sappiamo che per contorte vie diplomatiche, racchiuso in una cassetta accuratamente sigillata, il manoscritto contenente il frutto del suo lavoro giunse a Torino nell’autunno del 1728, accompagnato da una Lettera a Sua Maestà re Vittorio Amedeo II, inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati che il lettore può leggere tra i testi raccolti in Appendice. Al suo Principe, a colui che aveva infine conquistato ai Savoia l’agognata corona regale e aveva reimmesso lo Stato piemontese nel gioco della grande politica, anche al prezzo di cambiare continuamente alleanze e affrontare ripetuti scontri con la curia romana per affermare i suoi diritti sovrani, Radicati dedicava Dodici discorsi morali, storici e politici in cui aveva compendiato le ragioni non solo storiche e politiche, ma anche morali del suo impegnativo programma di declericalizzazione radicale del regno sabaudo. Se l’ultimo dei Dodici Discorsi presentava un dettagliato elenco di provvedimenti specifici di cui si consigliava al Sovrano l’immediata adozione,²³ il loro incipit era costituito da una rilettura dei testi neotestamentari volta a mostrare come anche moralmente, e da un punto di vista tutto interno agli insegnamenti del Nazareno, risultasse non solo legittimo, ma doveroso da parte dello Stato abolire i privilegi di cui il clero si era storicamente impadronito, nel diuturno, sfrontato tradimento dei precetti e degli insegnamenti di Colui che la Chiesa presentava tuttavia come suo divino fondatore.

    È conservata anche la risposta che pervenne, tempestiva, da Torino. Era consegnata a un laconico biglietto regale – di fatto il bando perpetuo dalle terre dei Savoia – indirizzato al Marchese Seyssel d’Aix, ambasciatore della corte sabauda a Londra. Sotto la data «20 novembre 1728 dalla Venaria» vi si leggeva:

    «Le Comte Maffei nous a fait tenir la Cassette qui vous avoit été remise par le Comte Passeran. Vous dirés à celui cy qu’en y trouvant les papiers qu’elle contenait nous avons desapprouvé au dernier point sa temerité de nous adresser une ouvrage de cette nature, qui le rend indigne de notre protection, et vous lui declarerés que vous avéz ordre ainsi que nous vous le donnons de ne point l’admettre chez vous, ni d’avoir aucun commerce avec Luy».²⁴

    L’ambizione radicatiana di poter essere al fianco di un re deciso a imporre alla curia romana in un primo tempo quanto meno una politica «gallicana» anche sulle sue terre piemontesi, e non solo nel Nizzardo o in Savoia, per poi essere il primo, in Italia, a «scacciare gli abusi che si sono dopo tanti secoli introdotti nella cristiana religione», svaniva di fronte a un monarca ormai stanco di guerre e controversie. Il sovrano che lo dichiarava indegno della sua protezione, era ormai lo stesso che accettava con Roma l’ennesimo compromesso. Né forse il Radicati ignorava che per negoziarlo e condurlo felicemente in porto l’Ormea non solo si era presentato ginocchioni ogni mattina col rosario in mano alla messa pontificia, ma oltre alle tangenti indispensabili per manovrare con efficacia nelle trattative con il cardinal Coscia, aveva sollecitato al monarca anche l’invio al papa di qualche preziosa reliquia, possibilmente custodita in un non meno prezioso reliquiario.

    Per Radicati, in ogni caso, la risposta giunta dalla Venaria Reale significava la fine del sogno di contribuire, a fianco del monarca, a una riforma morale e intellettuale dispoticamente promossa e imposta dall’alto. Il giovane conte che, senza alcuno scrupolo liberale, aveva progettato la sua opera tutta in funzione dell’azione di un monarca assoluto di cui ben conosceva i tratti machiavellici, gli spunti autoritari e dispotici, ma che si era illuso fossero indirizzabili primariamente nella lotta contro i privilegi e gli abusi clericali,²⁵ ai suoi Discorsi doveva ora trovare uno sbocco diverso perché i suoi pensieri non fossero stati meditati invano. Tutte le sue cure d’ora in avanti saranno volte a rendere di pubblico dominio uno scritto respinto con sdegno al mittente da colui che era stato pensato come il suo vero e unico destinatario. Infatti se nelle arretrate terre sabaude di opinione pubblica non c’era traccia se non marginale, l’Inghilterra di Re Giorgio e di Walpole con i suoi editori, i suoi pamphlet e i suoi giornali andava rivelando al Passerano di possederne una vivace e ogni giorno più rumorosa e, sia pur con alti e bassi, a suo modo influente.

    L’idea di rivolgersi a questo nuovo destinatario gli era del resto già balenata alla mente durante le snervanti trattative condotte per far pervenire a Torino il manoscritto dei Discorsi senza essere costretto a portarlo di persona, con il rischio di finire, se non tra le mani dell’Inquisizione, in una di quelle oubliette presenti nelle carceri di Ceva e Miolans della cui esistenza – addentro com’era agli arcana imperii – doveva essere informato.²⁶ Era una risoluzione che aveva brandito come una minaccia nella lettera indirizzata al Marchese d’Aix il 24 luglio 1728 dal suo domicilio londinese di St. Martin Count:

    «Excellence – si leggeva nella lettera citata – J’aurois deja eu l’honneur d’aller asséurer de mes respects vôtre Excellence, si je n’avois été toujours fort indisposé, pour la prier en même tems de me dire si elle n’auroit point receu de reponse de la part du Roi, au sujet de la cassette que se doit lui envoyer, et si V. E. croit qu’elle ne poura pas parvenir entre les mains du Roi, sans que je la lui porte moi-même; car en ce cas je lui déclare que je ne crois pas d’être jamais en état de le faire; Parceque si mon indisposition augmente, comme il y a toute apparence, je serai bien-tot à la fin de tous mes malheurs, et j’aurai la satisfaction de quitter une vie qui m’est à charge, dans un pais de liberté hors de la puissance de mes ennemis; mais ce n’est pas le tout que de mourir; mais c’est, que si je ne puis pas faire tenir au Roi la cassette en question, je veux avoir la consolation d’en faire imprimer le contenu, afin que tout le monde apprenne, ce que je n’avois envie d’apprendre qu’à mon Prince, si l’on m’en avoit donné les moyens.

    Je fais sçavoir a V. E. mes derniers sentiments afin qu’on ne me reproche pas dans la suite d’avoir fait une chose qui deplait au Roi; car mon intention n’étoit pas de la faire, si l’on ne m’y avoit obligé; en tous cas le Roy ne s’en prendra pas à un mot, mais il pourroit bien s’en prendre à ceux qui m’avroient empeché de faire mon devoir. Je prie V. E. de me pardonner la liberté que je me prens, et de me croire avec respect, De Vôtre Excellence ecc.».²⁷

    La risposta giunta dalla Venaria reale esigeva ora che la minaccia ventilata si traducesse in atto.

    3.

    Nonostante le accurate ricerche di Venturi, Berti, Tortarolo molto, certamente la più parte, ci sfugge della vita in esilio di Radicati a Londra e poi in Olanda. Sappiamo che da Torino, per lo meno in alcuni momenti, lo si fece discretamente sorvegliare, se all’indomani della pubblicazione della sua cronaca della Abdicazione di Re Vittorio, l’ambasciatore Ossorio poteva riferire all’Ormea che il Passerano in un caffé londinese aveva avuto la sfrontatezza di lasciarsi sfuggire che se Carlo Emanuele III, il nuovo Re, non lo avesse trattato meglio di suo padre, «il ne l’epargnera pas non plus», non avrebbe risparmiato neppure lui.²⁸

    Dal nome del traduttore inglese della sua Dissertazione filosofica sulla morte, il poligrafo Joseph Morgan, possiamo congetturare che il conte fosse entrato relativamente presto in contatto con ambienti massonici e deisti e che massoni fossero quei «compagnons» di cui parla un’altra lettera dell’Ossorio che sarà citata in nota per esteso più avanti. Sappiamo infatti che, tornato in Inghilterra dall’Algeria e dalla Tunisia dove aveva trascorso più di tre lustri, Joseph Morgan faceva capo alla loggia presieduta da Carlo, secondo Duca di Richmond e Lennox, la «worthy Fraternity» ch’egli celebra nella dedica del suo Phoenix Britannicus stampato a Londra nel 1731.²⁹ Ed è facile constatare che gli editori Mears e Wilford, che pubblicavano lavori di Morgan e dei deisti inglesi, sono stati anche gli editori di Radicati. Pur se eventualmente aiutato e consigliato, l’impresa di riuscire a stampare integralmente il manoscritto dei Discorsi non fu comunque impresa agevole. Trascorse infatti oltre un lustro fra la risoluzione di dare alle stampe l’opera sdegnosamente respinta dalla corte sabauda e la data effettiva della sua pubblicazione integrale. Essendo risultato finora malauguratamente introvabile negli archivi torinesi il manoscritto inviato a Re Vittorio Amedeo II, è impossibile ricostruire le modifiche eventualmente apportate in seguito, nella fase della sua preparazione per la stampa, anche se una possibile spia del lavoro di revisione sicuramente effettuato ci è fornita dalle varianti tra edizioni inglesi ed edizione «francese», dedicata ancora una volta come il manoscritto originario a una testa coronata. Il carattere più moderato dell’edizione «francese», che non contiene i clamorosi prestiti da Spinoza (Discorso X) e da Charron (Discorso XI) e utilizza costantemente superstition, là, dove le edizioni inglesi parlano disinvoltamente di «religion», parrebbe indicare una sua maggior aderenza al manoscritto originario. Se ho visto bene, Radicati continua in ogni caso a ritoccare il suo lavoro ancora dopo la pubblicazione del I Discorso e dell’indice dell’opera in Christianity set in a true light: per lo meno il suo elogio – ricavato da Voltaire – di Pietro il Grande nell’XI Discorso deve infatti necessariamente essere posteriore alla data della pubblicazione della prima edizione della Histoire de Charles XII, roi de Suede, apparsa in due tomi con l’indicazione «Basle» (Basilea), per i tipi dell’editore Christophe Revis nel 1731.

    Forse già provato dai primi attacchi di quella tisi che ne minerà il fisico e lo condurrà a morte prematura, Radicati era impaziente di vedere stampati i suoi Discorsi che ora intendeva dedicare to all Lovers of Truth and Liberty, e non più solo a un monarca visibilmente indisponibile a prendere in qualche modo in considerazione l’audace riforma prospettatagli. È dunque un Radicati disilluso, sconfitto, ma assolutamente non piegato e remissivo il Radicati che esordisce sul mercato librario londinese, facendo stampare dall’editore John Peele, editore anche dei deisti John Trenchard e Thomas Gordon,³⁰ un piccolo opuscolo che conteneva, insieme con l’indice generale – quasi una sorta d’assaggio – solo il primo dei Discorsi, «Of the Precepts, and Manners of Jesus Christ».

    Nel più che probabile tentativo di sfruttare lo scalpore destato dalla recentissima pubblicazione di Christianity as old as the world, or the Gospel, A Republication of the Religion of Nature, la «bibbia» del deismo inglese, Radicati finì con l’intitolare molto tindalianamente il suo opuscolo Christianity set in a true light in XII Discourses Political and Historical. Il carattere perfettamente tindaliano del titolo non risultava solo dal calco dell’incipit Christianity, ma anche dalla ripresa della stessa locuzione Set in a true light, anch’essa presente in un precedente scritto tindaliano, il pamphlet, pubblicato dall’editore J. Roberts a Londra nel 1717, The Defection consider’d, and the designs of those, who divided the friends of the Government, set in a true light. Del resto nel catalogo dei titoli «deisti» il lettore inglese non poteva aver dimenticato troppo facilmente la Christianity not misterious stampata da Toland nel 1706.

    Trovato un traduttore, Radicati che poneva ad exergo del suo Primo Discorso i versetti di Matteo (VII, 15-16) – «Beware of false prophets, which come to you in sheeps cloathing, but inwardly they are ravening wolves. Ye shall know them by their fruits» – si presentava dunque all’opinione pubblica inglese nelle vesti deiste di un «filosofo pagano convertito di recente», provando ad accattivarsi, sulle orme dello Swift di A Tale of Tube, la benevolenza del pubblico dei lettori anglosassoni con l’ironico-grottesco racconto autobiografico inserito nel Preliminary Discourse che finiva per costituire la sostanza dell’opuscolo. Come gli accadrà più volte nella sua carriera letteraria, prima di trovarsi costretto, nel suo racconto ad aderire al «paganesimo moderno», alla religione cattolica professata in «Ausonia», Radicati indossa panni musulmani, quasi a riprendere la saggezza di Montaigne che sapeva di essere cristiano perché perigordino: per la circostanza storicamente e culturalmente inevitabile per cui ognuno nasce della religione del suo paese o del suo clan e l’importante è uscire di tutela e giungere ad orientarsi autonomamente nel pensiero e nella vita.³¹

    Raccontata l’avventurosa cattura subita in mare durante il pellegrinaggio alla Mecca in compagnia del vecchio padre, narrato l’approdo a «Taurasia» dove, nonostante la tenera età, non gli viene lasciata altra via di scampo se non l’immediata conversione alla «moderna religione dei cannibali», al cattolicesimo che, con il concilio di Trento, aveva fatto della transustanziazione, della presenza reale e delle processioni del Corpus Domini lo shibboleth degli autentici seguaci di Cristo, Radicati ci presenta le tappe della sua liberazione dal conformismo acritico a cui dervisci, hodgia, kadilesker, santoni bianchi e neri, sotto la guida del Muftì regnante, erano interessati a vincolarlo.

    Non insisto oltre su questa curiosa pièce autobiografica virulentemente anticat-tolica che il lettore può leggere in Appendice a questa edizione dei Discorsi. Mi limito a segnalarne gli accenni anabattisti e antitrinitari che compaiono là dove il narratore evoca l’«occulta qualità dell’acqua» versatagli sul capo a renderlo un pagano moderno, «ancor prima che io avessi la sia pur minima conoscenza dei princìpi della religione pagana». Gli strali più acuminati sono riservati comunque al Gran Muftì-Vice-Dio, lasciato in terra dal Secondo Essere della divina trinità pagana, «con un potere illimitato di fare e disfare quanto riteneva opportuno» e al rigoroso divieto d’esame delle sacre scritture che la gerarchia clericale post-tridentina imponeva ai laici condannando al rogo le traduzioni in volgare della Bibbia: «I pagani non debbono consultare il loro Corano, perché essendo pieno di passi oscuri, dubbi e assolutamente incomprensibili, essi avrebbero potuto facilmente confondersi e perdersi in ricerche infruttuose; essi debbono piuttosto attenersi alle sacre decisioni del Vice-Dio o Muftì regnante che è familiare non solo con la volontà dei semidèi e degli idoli, ma anche con la volontà del grande Dio, ovvero dei tre esseri divini, e che non potrebbe errare, anche se lo volesse, essendo infallibile».³²

    Proprio la lettura diretta dei Vangeli, predicata dai protestanti, e prima di loro da Erasmo, a cui il narratore perviene dopo la scoperta dell’impostura connessa al presunto carattere miracoloso di un’immagine della Vergine che i «santoni bianchi» speravano di rendere altrettanto fruttuosa quanto l’immagine della Diva Consolatrix grande protettrice di Taurasia, gli rivela con chiarezza che

    «la religione pagana che io avevo professato non era la stessa che il secondo Essere Dio-uomo aveva dato agli uomini, e che i preti avevano adulterata e stravolta per forgiarne una nuova che non si opponesse (come faceva quella di Cristo) alla loro avarizia, ambizione e vendetta, caratteristiche inseparabili da quasi tutti i preti del mondo. In una parola, capii che gli hodgia proibivano la lettura dei libri sacri per timore che la loro frode venisse scoperta, seguendo in questo l’esempio del nostro falso profeta il quale, affinché i suoi seguaci non potessero scoprire le sue imposture, proibì furbescamente che si applicassero alle scienze, ben conoscendo che l’ignoranza è la madre della superstizione».³³

    Narrando il cammino che segna la sua fuoriuscita dalla minorità e l’acquisizione di un uso critico e autonomo della ragione, Radicati ci dice di aver accolto con favore l’istanza protestante del libero esame, al pari della tematica antigerarchica del sacerdozio universale. Ma, come deplora le divisioni settarie dei «purificati» (i protestanti),³⁴ che hanno favorito la sopravvivenza del gran Muftì di Mavortia (il pontefice di Roma), così non condivide la bibliolatria riformata, dove un libro morto rischia di coprire il libro vivente della natura. Egli ha cura, infatti, di distinguere nettamente tra i passi biblici che più affidabilmente ci trasmettono l’insegnamento del Nazareno e una degna concezione della divinità, dai luoghi biblici, sia vetero-, sia neo-testamentari che fanno troppo umanamente di Dio un tiranno spietato, ignorante e crudele inconfondibilmente simile ai suoi creatori umani. In terra inglese tra le comunità dei «purificati» evidentemente Radicati non può che elogiare gli anglicani, che pur conservando vescovi e clero, si sono sbarazzati del Gran Muftì e operano sottoposti al controllo del sovrano civile. Anche su suolo inglese Radicati non esita comunque a rivendicare per sé e per tutti «la libertà di giudicare da sé», un diritto di cui nessuno può legittimamente essere privato, non esistendo uomini dotati di un’assoluta infallibilità. «Dal momento che nessun uomo è infallibile, a ognuno va lasciato il suo diritto naturale ad esaminare liberamente tutte le materie di fede. Perché se le sacre scritture sono i testimoni che si producono nelle dispute religiose, il giudice è la ragione».³⁵

    Facendo uso della propria ragione, dell’esperienza e della cultura accumulata, Radicati è convinto di avere trovato verità importanti per la sua e l’altrui felicità. Per questo vuole renderle accessibili al dibattito della pubblica opinione. Ai mullah, cadì e hodgia protestanti non chiede di risparmiargli eventuali critiche. Non ignora le tempeste che può sollevare la sua critica dell’istituto familiare, il comunismo dei beni e l’egualitarismo della «perfetta democrazia» predicato dal Gesù Cristo restauratore della religione naturale ch’egli presenta sia nei Discorsi, sia nel successivo Parallelo tra Nazareno e Licurgo. Non rivendica per sé un’infal-libilità che non concede agli altri, ma chiede che le eventuali critiche e correzioni siano avanzate senza acredine e cattiveria. Cristianamente, «con carità, mitezza ed equità come in simili occasioni il nostro santissimo legislatore ci ha comandato di fare (Mt. 18, 21 e ss.): perché nulla è più vile, indegno e scandaloso, più contrario agli autentici principi della vera religione purificata del disprezzo, della calunnia, degli appellativi odiosi e della persecuzione di coloro che lavorano giorno e notte per scoprire la verità, seppellita nel nero abisso degli errori e delle superstizioni».³⁶

    4.

    Negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Christianity set in a true light, sempre pensando a come pubblicare nella loro integralità i Discorsi, Radicati non lascia inattiva la sua penna da cui spera, anzi, di ricavare qualche risorsa economica. Nel corso del 1732 pubblica il testo suo che avrà in tutta Europa la diffusione più ampia e il maggior numero di edizioni e, in ambito piemontese, anche una parallela circolazione manoscritta: la cronaca dei retroscena connessi alla recente abdicazione di Vittorio Amedeo II e al successivo infelice tentativo di risalire sul trono, un opuscolo non privo fin dall’incipit di spunti autobiografici che ci rivela come, anche dall’esilio, il suo occhio continuasse ad essere puntato sul Piemonte e come anche da Londra riuscisse comunque a intrattenere contatti con ambienti in grado di fornirgli notizie riservate. Sempre nello stesso anno dà alle stampe il suo testo più radicale e controverso, A philosophical dissertation upon death. Composed for the consolation of the unhappy. By a friend to truth: un elogio della vita e della natura benefica e provvidente che è al contempo un’impegnativa apologia del suicidio e dell’eutanasia sulla scorta di spunti rintracciati nelle Lettres Persanes di Montesquieu e nei Gulliver’s Travels di Swift e, infine, un Parallelo tra Maometto e Mosè,³⁷ sostanzialmente più favorevole al primo che al secondo, pur rientrando entrambi, ad avviso di Radicati, nella categoria libertina degli «impostori» che della religione si sono avvalsi come instrumentum regni.

    Al di là della polemica tardo-libertina sul motivo dell’impostura religiosa, l’ele-mento centrale dello scritto, che si presenta come una lettera di un musulmano a un rabbino ebreo, è ancora una volta la ferma rivendicazione del diritto a esaminare le credenze religiose alla luce della ragione, la libertà di coscienza e di pensiero. Lo scandalo destato da queste pubblicazioni, in particolare dalla Dissertazione, che provoca l’insistito intervento del vescovo Gibson presso le autorità giudiziarie inglesi, lo porta sia pure temporaneamente in carcere, da cui lo libera comunque il pagamemento di una forte somma a titolo di cauzione: con ogni probabilità il colpo definitivo assestato allo stato già precario delle sue finanze. Commentando l’acca-duto in una missiva al Marchese d’Ormea, eminenza grigia anche del nuovo re sabaudo, l’ambasciatore Ossorio poteva permettersi a sua volta di ironizzare sul fatto che il Conte di Passerano, salvatosi dall’Inquisizione piemontese, aveva avuto l’abilità di far nascere «une Inquisition exprès pour lui en Angleterre».³⁸

    L’esperienza dell’«Inquisizione» anglicana, non facilitò il successo della sotto-scrizione, lanciata il 4 novembre

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