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Leonardo da Vinci deve morire
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E-book396 pagine5 ore

Leonardo da Vinci deve morire

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Info su questo ebook

Un caso editoriale in Spagna ai primi posti delle classifiche

Un grande bestseller ambientato nella Firenze dei Medici

Europa, XVI secolo. Mentre Spagna, Francia e Inghilterra si avviano verso l’unificazione, gli Stati italiani sono coinvolti in un conflitto perenne. La religione, ma anche il potere e l’ansia di espandere i confini rendono la situazione politica estremamente instabile. Una sorte molto diversa tocca all’arte. Ed è proprio nell’epicentro del Rinascimento culturale, la Firenze dei Medici, che una voce anonima fa imprigionare il giovane ma promettente Leonardo da Vinci con l’infamante accusa di sodomia. Nei mesi seguenti interrogatori e torture prostrano il corpo e lo spirito di Leonardo fino a che l’assenza di prove non costringe i suoi carcerieri a rimetterlo in libertà. Con la reputazione compromessa, il giovane abbandona Firenze in cerca di nuovi orizzonti per dimostrare il suo geniale talento. Ma chi è stato ad accusarlo? Per quale motivo? Combattuto tra il desiderio di fuga e quello di vendetta, Leonardo sarà costretto a scoprire a sue spese che quando si tenta di raggiungere il successo è bene non fidarsi di nessuno. E la verità è difficile da distinguere chiaramente, persino per il più grande genio di tutti i tempi.

Bestseller in Spagna

Tutti ammirano il genio ma pochi conoscono l’uomo

«Gálvez dà vita a un romanzo ricco di avventura e suspense, senza mai entrare in contrasto con le vicende biografiche dei personaggi.»
La Voz de Almería

«Uno splendido tributo alla figura di un uomo che ha lasciato al mondo una straordinaria eredità scientifica, artistica e culturale.»
Diario de Ponent

«Da questo libro emergono così tanti chiaroscuri nella vita di Leonardo da renderlo quasi un supereroe.»
Acción
Christian Gálvez
È nato a Madrid nel 1980. È uno dei volti di Mediaset Spagna, e dal 2009 accanto al lavoro in televisione si dedica allo studio delle grandi figure del Rinascimento, come Leonardo da Vinci. La sua viva curiosità e le ricerche approfondite hanno portato alla pubblicazione di Leonardo da Vinci deve morire, suo esordio letterario, che ha riscosso un grande successo di pubblico e critica. Il romanzo, primo volume delle Cronache del Rinascimento, è arrivato alla sua ottava edizione, ed è ai primi posti delle classifiche spagnole.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2018
ISBN9788822720641
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    Anteprima del libro

    Leonardo da Vinci deve morire - Christian Gálvez

    1

    2 maggio 1519, maniero di Clos Lucé, Amboise

    «Maestà, Leonardo da Vinci sta morendo».

    In pochi secondi, percorse l’ampia scalinata che separava l’ingresso dal primo piano della tenuta di Clos. Francesco i, re di Francia, non badò neanche all’etichetta reale pur di raggiungere quanto prima il letto dell’amico. Nei giorni precedenti, dopo aver constatato lo stato di salute del suo quarto figlio e futuro Delfino di casa Valois-Angoulême, il re non aveva esitato a lasciare al sicuro sua moglie Claudia di Valois e partire. Confidava pienamente nella servitù del castello di Saint-Germain-en-Laye.

    Il messaggero era stato diretto e conciso: «Maestà, Leonardo da Vinci sta morendo». Non era stato necessario aggiungere altro. A Francesco e Claudia era bastato un solo sguardo per capire che quell’imprevisto avrebbe implicato un’unica cosa. Il monarca in persona avrebbe assistito all’ultimo respiro del maestro fiorentino. Come re, come padrino, come alunno, come amico.

    Affrontò due giorni intensi di viaggio riflettendo sugli ultimi tempi. Erano passati solo tre anni da quando Francesco i di Valois-Angoulême era entrato a Milano vittorioso dopo aver battuto la Confederazione svizzera, che a quei tempi controllava il ducato milanese, nella battaglia di Marignano. La brama di espansione territoriale non aveva mai accecato la mente di questo giovane re, amante della cultura e dell’arte. Visto il suo buon senso, l’unica cosa che reclamava era l’eredità che spettava giustamente a sua moglie Claudia, figlia del precedente re di Francia, Luigi xii d’Orléans.

    Lì, a Milano, aveva trovato un Leonardo sempre più anziano, ma abbastanza brioso da decidere di imbarcarsi in una nuova avventura: valicare nuovamente la frontiera della sua patria e, questa volta, accettare l’invito del monarca a diventare il primo pittore, ingegnere e architetto del re. Anche se, all’epoca, Francesco aveva altri piani. Al di là di ogni incarico, quello che cercava era un consigliere, un amico, un padre.

    «Fai tutto quello che vuoi», furono le parole che disse a Leonardo, il quale, non appena arrivato nella nuova residenza campestre, mentre la servitù disimballava i suoi utensili e tutto l’occorrente per dipingere, già immaginava la nuova bottega.

    Come si saluta una persona che non sono pronto a lasciare andare? Come si saluta qualcuno con cui sento di avere ancora tante cose da condividere?. Erano le domande che affollavano la mente del re mentre saliva le scale per raggiungere il primo piano della dimora nella quale il suo amico italiano si era stabilito tre anni prima.

    I pochi amici, la servitù, i membri della corte reale di stanza ad Amboise, erano tutti lì, rinchiusi in una costruzione di mattoni rossi e ardesia. Nel varcare la porta, non volle interrompere il rituale che si stava celebrando ai piedi del letto in cui giaceva l’anziano. Solo dopo si sarebbe accorto che Leonardo, il quale era sempre stato combattuto tra fede e ragione, aveva appena finito di confessarsi e stava ricevendo l’estrema unzione, indice del fatto che il cittadino di Vinci fosse consapevole che, a poco a poco, la sua vita si sarebbe spenta.

    Lanciò uno sguardo alla stanza. Era rimasto tutto com’era. Lo scrittoio dell’amico era ancora lì dove l’aveva visto scrivere l’ultima volta, di fronte alla finestra. Alla sua destra c’era il caminetto, e non sembrava che fosse stato utilizzato di recente.

    Non appena il sacerdote portò a termine l’opera di Dio, si allontanò dal letto per lasciare spazio al re di Francia. Stavolta, la fretta con cui aveva raggiunto la camera si trasformò in una successione di lunghe falcate, passi lenti, prudenti, rispettosi. Man mano che Leonardo voltava la testa e, con sorpresa, riceveva tale visita inaspettata, Francesco i seppe apprezzare con un sorriso forzato la compagnia di cui godeva suo padre.

    Maturina, cuoca, governante e colonna portante della residenza, ormai avanti con gli anni e sempre timorosa che il padrone potesse sentire freddo, aspettava a un lato del letto con una coperta tra le mani. Le rughe accumulate sul suo volto erano, in realtà, un compendio di volumi sull’esperienza che non si sarebbe potuto trovare neanche tra le migliori collezioni di Lorenzo de’ Medici.

    «L’ultima cosa che ha mangiato è stata una zuppa calda», mormorò, spostando lo sguardo sul re che, nonostante la confidenza con il maestro, gli portava un profondo rispetto.

    Francesco Melzi era vicino alla testiera del letto. Il fedele assistente personale di Leonardo era al suo fianco da non più di dodici anni, ma l’affetto, la premura e il rapporto familiare che li univa avevano fatto di lui il suo braccio destro.

    «È tutto pronto, sua maestà», disse al re.

    Il monarca capì immediatamente. Leonardo aveva avuto lo scrupolo e il tempo sufficiente per preparare il suo viaggio nell’aldilà, ed era sicuro che avesse consegnato il testamento e non ci fosse più niente a legarlo al mondo dei vivi.

    Francesco i di Francia lanciò uno sguardo al consigliere reale, François Desmoulins. Una delle abilità del giovane reggente era riuscire a comunicare senza l’uso delle parole, molto utile in situazioni come quella. In una frazione di secondo, Desmoulins incitò la comitiva che riempiva la piccola sala, la quale fungeva da camera da letto principale, a concedere a sua maestà alcuni minuti di intimità con Leonardo. Con un gesto impercettibile, indicò ai più intimi che, se lo desideravano, potevano rimanere nella stanza. Non aveva niente da nascondere a chi condivideva il suo stesso affetto per la medesima persona.

    «Mon père…», furono le uniche parole che il reggente di Francia osò pronunciare.

    «Francesco», disse Leonardo con un sottilissimo filo di voce e una confidenza che andava al di là della solennità reale; aveva infatti mantenuto l’abitudine di italianizzare i nomi delle persone che frequentava. «Grazie per aver realizzato tale…».

    «Non c’è niente di cui dovete ringraziarmi», lo interruppe Francesco per evitare che l’anziano sprecasse inutilmente le forze.

    «Dov’è Caprotti? Pensavo che in un momento come questo volesse starmi vicino». Leonardo sapeva che non era una domanda del tutto appropriata, ma in qualche modo doveva pur andarsene e non sapeva quanto tempo avesse ancora a disposizione.

    Il giovane Francesco si affrettò a rispondere. Sapeva che Salai era a conoscenza del delicato stato di salute del maestro, lui stesso si era premurato di farglielo sapere con una lettera, ma in risposta aveva ottenuto un breve e conciso: Prima o poi doveva succedere. Un’informazione che il re trattò con cautela e discrezione, dal momento che la missiva non arrivò mai nelle mani di Leonardo. Francesco aveva pensato di tenerglielo nascosto perché, malgrado l’abbandono, Leonardo nel suo testamento si era ricordato con grande generosità di Gian Giacomo Caprotti, detto Salai. Erano le volontà del più grande talento che avesse mai conosciuto, perciò decise di lasciarlo nell’ignoranza ed evitare di causargli ulteriori sofferenze. Non fu troppo difficile mentire per un re.

    «Giacomo è a Firenze per risolvere alcune questioni finanziarie», affermò con una credibilità sconcertante, «e data l’impossibilità di raggiungere per tempo le terre di Francia, ho preferito non allertarlo di questo tragico avvenimento».

    «Maledetto fornicatore!», gridò Leonardo, accompagnando le parole con un forte colpo di tosse. «Come minimo, starà portando a spasso la verga e sperperando tutti i soldi che ha, non sa fare altro!».

    Francesco dovette abbassare lo sguardo per reprimere una risata. Leonardo cercò complicità in Maturina, ma ricevette solo un tacito rimprovero che lo fece arrossire. Il re seguì con attenzione tutta la scena e, nonostante la tristezza che si respirava nella stanza, abbozzò una smorfia che avrebbe anche potuto sfociare in un sorriso ilare. Ma il maestro posò di nuovo gli occhi sul re di Francia, come faceva da più di vent’anni.

    «Leonardo, mon ami, tranquillo…», sussurrò Francesco mentre stringeva i capelli di un anziano stravolto che si rigirava lentamente sotto le lenzuola. «Posso fare qualcosa per te, maître

    «No, vostra maestà. Non c’è più niente da fare. Volevano uccidere Leonardo da Vinci. In un modo o nell’altro, ci sono riusciti».

    Dagli specchi dell’anima di Maturina iniziarono a sgorgare piccole lacrime. Francesco Melzi scosse la testa.

    Più il tempo passava, più diventava difficile per Leonardo da Vinci articolare le parole, si prendeva il tempo per dosare il fiato da esalare in modo intelligente e razionale, come se si trattasse di una nuova trovata per formulare le parole necessarie nell’arco di tempo adeguato.

    «Dovete scusarmi, vostra maestà». Gli occhi attoniti di Francesco i non capivano il motivo di quella supplica. «Voi e tutti gli uomini. Voi e perfino quel Dio che vive nel regno dei cieli. Chiedo perdono, perché le mie opere non hanno avuto la qualità che avrebbero dovuto avere. E questa è un’offesa per il Creatore e per tutto il creato…».

    Questa volta furono gli occhi di Leonardo a diventare cristallini. L’aria che si respirava in quella stanza aveva l’odore dell’addio… e un sapore amaro. François Desmoulins, la personificazione del protocollo nella corte reale, fece uno sforzo enorme per mantenere la compostezza. Non aveva fatto parte della cerchia di amici fidati del maestro fiorentino, ormai quasi spento, ma nei suoi confronti provava un affetto dettato dal modo in cui aveva trattato il suo pupillo, nonché signore di Francia. Pochi mesi dopo essersi stabilito nelle proprietà francesi di Francesco, sul volto dell’esperto artista italiano già si leggeva la più sincera gratitudine per un mecenatismo che nella sua terra natale non aveva mai trovato.

    «Non è certo compito mio dare consigli a un re, quello spetta a chi, molto probabilmente, sa farlo meglio di me», disse Leonardo indicando con l’unica mano buona François, il quale, perso nei suoi pensieri, gli prestò attenzione solo in quel momento. «Ma permettetemi di dire, vostra maestà, che dovete fare in modo di acquisire, durante questa vostra gioventù, ciò che in futuro allevierà il dolore della vostra anzianità. Voi, amante dell’arte e della letteratura, che credete che la vecchiaia venga alimentata dalla saggezza, fate tutto il possibile affinché, quando sarete anziano, non vi manchi tale sostentamento».

    «Sarà fatto, maître Leonardo…».

    Un nodo alla gola gli impediva di parlare. Neanche l’impiego di sessanta cannoni di bronzo contro mille soldati appartenenti ai tre contingenti dei confederati durante la battaglia per la conquista di Milano lo aveva lasciato senza parole.

    «Checco, amico mio», diresse gli occhi verso Melzi, «disponete tutto come abbiamo deciso. Da questo momento, sarete voi il tutore».

    Le pause tra una parola e l’altra erano sempre più lunghe.

    «Così sarà fatto, maestro», annuì Francesco, mosso più dall’emotività che dalla professionalità. «È tutto pronto. Adesso potete riposare in pace».

    Leonardo si voltò verso la sua anziana cameriera. Prima di aprire bocca, l’abbracciò con un grande sorriso. Maturina si asciugò le lacrime con un fazzoletto, lo stesso che nei giorni successivi le sarebbe stato donato in un’occasione speciale.

    «Maturina, mandate i miei adempimenti a Battista de Villanis, ditegli di prendersi cura di Milano e di Salai. E a voi, amica fedele, grazie per ogni parola che mi avete dedicato». Neanche la tosse del maestro riuscì a guastare l’affettuosa atmosfera. «A volte, un po’ come alcune parole hanno un doppio significato, anche gli abiti hanno una doppia fodera».

    Nessuno capì quell’ultima frase, neanche Maturina. A dire il vero, in quel momento nessuno si sforzò di interpretare l’enigma. Prima o poi, qualcuno avrebbe scoperto il senso di quel gioco di parole, o forse il maestro l’avrebbe portato per sempre con sé nella tomba.

    «Leonardo, ho dato l’ordine di iniziare il vostro progetto. Costruiremo il castello di Chambord non appena disporremo del necessario. Domenico non vede l’ora di vedere la propria opera architettonica con la vostra scala a doppia spirale. Francia e Italia insieme. Malgrado la difficoltà che implica costruirlo partendo da zero, vi assicuro che sarà un successo, mon ami».

    Francesco i gli donò quelle belle parole. Sapeva perfettamente che Leonardo non avrebbe vissuto abbastanza da vedere l’opera finita. Non sarebbe neanche riuscito ad assistere al tramonto di quella sera. A ogni modo, era sicuro che una buona notizia avrebbe rallegrato le orecchie del saggio amico. Tuttavia, il re non era pronto a ricevere come risposta le parole che sarebbero state pronunciate subito dopo.

    «Maestà, io non ho perso contro la difficoltà delle sfide. Ho solo perso contro il tempo…», disse Leonardo, sminuendo la notizia di Chambord.

    «Maître, preferisco che mi chiamiate Francesco», rispose il re in un atto di umiltà che Leonardo apprezzò con il più caloroso dei suoi sguardi.

    «Così sia, caro Francesco, così sia», e chiuse gli occhi. «Checco… Venite qui…».

    Il suo aiutante si avvicinò immediatamente. In quel breve lasso di tempo, Francesco Melzi ignorò la presenza del re di Francia e lo stesso Francesco i chiuse un occhio su ogni mancanza di formalità.

    «Ditemi, maestro… Cosa vi serve?», chiese, come se il tempo si fosse fermato solo per compiacere il suo insegnante.

    «Solo un abbraccio, amico mio. Solo un abbraccio», rispose Leonardo con un filo di voce.

    Quando Melzi si protese sopra il corpo del suo mentore, si avvertì un’intimità tale da fare invidia a qualsiasi coppia di amanti. Ma anziché libidine, lì si respirarono affetto, rispetto, ammirazione e dolore, molto dolore.

    «Checco, amico mio. Non siate così triste». Leonardo cercò di calmare con le parole il giovane e fedelissimo aiutante. «Continuerò a vivere ogni volta che pronuncerete il mio nome. Ricordatevi di me», concluse, strizzando l’occhio in segno di complicità.

    Leonardo fece un respiro così profondo che gli amici lì presenti capirono immediatamente che non avrebbe assistito al sorgere del sole. La vita l’avrebbe abbandonato. Dopo tante sofferenze e preoccupazioni, dopo tutti i messaggi in codice e tutti i dipinti che avrebbero fatto la storia, la vita di Leonardo da Vinci era giunta al termine.

    «Francesco, amici… è arrivato il momento…». Venerabile e allo stesso tempo vulnerabile, Leonardo era pronto ad andare. «…di continuare il vostro cammino senza di me».

    «Maestro!», gridò Melzi senza reprimere il suo singhiozzare.

    «Maître… Mon père…». Le successive parole del re annegarono non solo nel mare delle sue lacrime, ma anche nell’oceano di quelle di tutti gli altri.

    «È arrivato il momento… di spiccare il volo…».

    E volò. Più in alto e più lontano che mai. Un volo di sola andata. Un volo che, prima o poi, tutti dovremo fare. Un silenzio sepolcrale invase la stanza.

    François Desmoulins, come un fantasma, si voltò e varcò furtivamente la porta, chiudendosela alle spalle con estrema cautela.

    Maturina inzuppò di lacrime il fazzoletto che ormai non assorbiva più alcun liquido.

    Francesco i rimase in silenzio. Un silenzio cortese e ammirabile. Un silenzio che diceva tutto.

    Francesco Melzi, detto Checco, crollò in ginocchio ai piedi del letto, con il ricordo di quell’occhiolino complice impresso nella memoria.

    Leonardo da Vinci aveva conquistato il cielo rimanendo ancorato alla terra.

    2

    29 maggio 1476, celle sotterranee del palazzo del Podestà, Firenze

    Nell’anno 1476 di nostro Signore, una mano lavorava con fatica sulla fredda e umida parete di pietra che chiudeva una delle celle della prigione al piano inferiore del palazzo del Podestà, futuro palazzo del Bargello, situato a poco più di quattrocento metri dal centro nevralgico di Firenze. Era un edificio facilmente riconoscibile da lontano, visto che la sua torre dal bordo merlato era tra le più alte del capoluogo fiorentino. Lì risiedeva il magistrato governatore della città, uno straniero eletto affinché esercitasse la giustizia con imparzialità.

    Sulla facciata, un’incisione avvertiva del potere di Firenze:

    Firenze tracima di ricchezze inimmaginabili.

    Si proclama vincitrice contro i nemici, sia in guerra che nei conflitti civili.

    Gode del piacere della Fortuna e possiede un popolo potente.

    Con grande successo fortifica e conquista castelli.

    Regna sui mari, sulle terre e sul mondo intero.

    Sotto il suo potere, tutta la Toscana trabocca felicità.

    Così come Roma, Firenze trionfa sempre.

    La mano continuava a grattare sempre nello stesso verso, affinché ciò che stava incidendo fosse nitido e si potesse passare all’idea successiva. Senza badare a ciò che lo circondava, il giovane prigioniero sembrava impartire lezioni d’arte a pupilli inesistenti anziché tramare un piano di fuga impossibile. Le linee orizzontali che stava incidendo finivano per biforcarsi e ogni diramazione si trasformava in una linea nuova, che inevitabilmente dava origine a un’altra divergenza. Una pietrosa ramificazione con un unico scopo. I compagni di cella non sapevano dire se a comandarlo fosse la testardaggine o la genialità che trasudava dai pori della sua pelle.

    Baccino, prima sarto ma ora a sua volta prigioniero, non osò fare domande. Sapeva perfettamente quale sarebbe stata la risposta dell’uomo a pochi metri da lui: il silenzio. Tanta era la sua concentrazione. Anche se non era necessario proferire parola per decifrare il mistero che a poco a poco si estendeva nella cella di pietra. Stava calcolando le probabilità; calcolando possibili futuri, avrebbe risposto il compagno. Lo sapeva bene, lo aveva visto lavorare allo stesso modo nel laboratorio di Verrocchio, situato da cinque anni nel quartiere di San Michele Visdomini in via Bufalini, dove una volta al mese portava gli indumenti rammendati degli apprendisti per ordine del maestro Andrea. La bottega era facile da raggiungere, visto che alle sue spalle erano stati demoliti almeno quindici piccoli edifici per l’imminente costruzione del futuro Palazzo Strozzi e lui doveva sempre proteggere gli abiti dalla polvere che si innalzava.

    Ma Baccino non capiva quel genere di discorsi, perché per lui, credente in Dio onnipotente, c’era un solo destino e, nel momento e nel posto in cui si trovavano, sembrava anche essere piuttosto imminente. Se era la volontà del Signore, l’avrebbe accettata con rassegnazione. Anche se, inutile negarlo, una parte del suo spirito desiderava tornare nel quartiere di Or San Michele, dove di recente aveva intrapreso una nuova attività, un negozio tutto suo. Cercò di aiutare come poteva, scrutando ogni punto debole della cella a forma di cupola in cui erano rinchiusi. Troppo piccola, soprattutto per quattro persone. È disumano, pensò.

    Improvvisamente, posò gli occhi su Tornabuoni, il quale, con la solita tunica nera, riposava nell’angolo opposto con le mani sulla testa, come se rimpiangesse ogni singolo momento della sua vita perso sotto quegli infiniti strati di roccia e umidità. Non voleva che una falsa accusa macchiasse l’immacolato nome che portava, imparentato niente meno che con Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero de’ Medici e madre di Lorenzo de’ Medici. In sostanza, era parente della donna più autorevole della famiglia più potente degli Stati italiani.

    Tutto risaliva a due mesi prima, a quattro giorni dal ventiquattresimo compleanno di Leonardo. Una mano tanto anonima quanto codarda aveva scoperto il vaso di Pandora in un’urna accanto a Palazzo Vecchio. Non si conoscevano le intenzioni dell’individuo, ma tale gesto aveva scatenato una guerra. Non avrebbe potuto imbucare la falsa accusa in un posto peggiore in tutta la città di Firenze. Nella cassetta di legno chiamata tamburo, la bocca della verità. Un semplice biglietto che conteneva un’accusa dettagliata, con tanto di nomi e cognomi, era sufficiente per iniziare la persecuzione dei calunniati e condurli, come minimo, davanti alla giustizia. Il documento notarile sarebbe stato respinto dopo qualche settimana se non fossero arrivate prove definitive e testimoni rilevanti che, senza anonimato, avrebbero confermato l’accusa.

    Absoluti cum conditione ut retamburentur.

    L’arrivo in prigione era stato grottesco. Il ricevimento al palazzo una costante guerra psicologica. Appena entrati dalla porta dell’inespugnabile fortezza, il cortile li aveva accolti con una serie di espliciti graffiti diffamatori che rappresentavano criminali tormentati per i loro peccati e diavoli che li torturavano lungo la strada per l’inferno.

    Una volta raggiunto l’interno del palazzo, sotto il basso tetto della prigione, erano stati assaliti da una serie di dubbi. Si sarebbe presentato qualcuno a testimoniare? Sarebbero stati condannati? O, al contrario, li avrebbero assolti dal crimine di cui erano stati accusati? Comunque fossero andate le cose, quell’episodio avrebbe indubbiamente macchiato la reputazione di più di uno di loro. Bastava solo che il testo dell’accusa inserita nel tamburo corresse di bocca in bocca:

    Vi informo, signori Officiali, di un fatto certo, ossia che Jacopo Saltarelli, fratello di Giovanni Saltarelli, vive con quest’ultimo nell’oreficeria di Vacchereccia di fronte al tamburo: veste sempre di nero e ha diciassette anni. Tal Jacopo si è reso complice di molteplici vigliaccherie e acconsente a soddisfare chi gli richiede tali iniquità. Così facendo ha concluso molti affari, vale a dire ha servito diverse decine di persone, sul qual conto so molte cose, e qui di seguito ve ne nominerò alcune: Bartolomeo di Pasquino, orafo, che vive a Vecchereccia; Leonardo di ser Piero da Vinci, che vive con Verrocchio; Baccino, il sarto, che vive a Or San Michele, in quella via in cui ci sono due grandi negozi di cimatori e che porta alla loggia dei Cierchi, e che recentemente ha aperto una sartoria; Lionardo Tornabuoni, detto il Teri, sempre vestito di nero. Costoro hanno commesso atti di sodomia con il suddetto Jacopo, lo testimonio davanti a voi.

    Due mesi di interrogatori, torture e vessazioni che, a poco a poco, finirono per minare il morale degli accusati.

    Bartolomeo, l’orefice di un posto vicino alla località di Vacchereccia, fu il primo a rovinare l’atmosfera con la sua voce impaurita.

    «Che ne sarà di noi?», chiese, più preoccupato per la propria incolumità che per i suoi compagni.

    «A questo punto non credo che ci porteranno per strada con un cappuccio in testa con su scritto sodomita. Ci tortureranno. E per quanto possa essere falsa l’accusa, basterà un minimo indizio di veridicità per farci castrare. Oppure ci porteranno direttamente al rogo».

    La voce era ferma. Gli occhi non seguirono la stessa direzione delle parole che aveva appena finito di pronunciare. Continuava ad aspettare che le diramazioni si snodassero nella sua mente e si ricostruissero in una moltitudine di possibilità, la maggior parte con conseguenze funeste. Bartolomeo trasformò la sua preoccupazione in paura.

    «Ci tortureranno e bruceranno? Per una semplice accusa anonima e senza prove?».

    Il suo reclamo si sentì a metri di distanza, ma non importò né ai nuovi inquilini dei sotterranei né ai pochi guardiani della notte e ai conservatori dell’onestà dei monasteri. Baccino si mise a pregare. Era talmente sicuro della propria innocenza che sapeva di non poter finire in nessun altro posto se non in Paradiso, ma una preghiera non avrebbe fatto male.

    «Temo solo una cosa», lo interruppe Tornabuoni, cercando di mostrare una serenità che non provava. «Se i poliziotti corrompono Saltarelli e lo fanno testimoniare contro di noi, confermerà la calunnia che ci hanno scaricato addosso e per noi saranno problemi. Jacopo è un giovinetto di diciassette anni che non credo voglia essere indicato per strada come un cane a cui piace essere frustato».

    «Pensi che si venderà per un paio di fiorini?», si affrettò a chiedere Bartolomeo.

    «Non credo», rispose esitante Tornabuoni.

    Baccino interruppe la preghiera. Gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite. Non credeva a ciò che dicevano i compagni di cella, non amici, i quali aspettavano di ricevere un castigo che consisteva in flagellazioni e Dio solo sapeva cos’altro.

    «Ignoranti!», gridò come se all’improvviso volesse dare inizio a un rituale cristiano. «Non lo capite? Se Giuda tradì nostro Signore per una manciata di monete, cosa non farà questo giovane a cui nessuno vorrebbe dare un lavoro? Dannazione, verremo giustiziati in piazza! Dio mio, abbi pietà di noi…».

    «Dio è sordo».

    Di nuovo, la voce dell’ingegnere che rompeva la pietra con uno scalpello calò come una falce sulla discussione, tanto inutile quanto animata, che si stava tenendo nei pochi metri quadrati in cui si trovavano. Aveva un tono tranquillo e sicuro, non solo all’apparenza. La convinzione e la serenità della sua voce resero la situazione meno allarmante.

    «Un po’ di silenzio, per favore. Sto cercando di concentrarmi. Non è facile per un analfabeta come me mantenere la lucidità se continuate a dire solo sciocchezze».

    «Sciocchezze?», chiese offeso il fedele Baccino. «Almeno noi tiriamo a indovinare il futuro tutti insieme. Non cerchiamo di aggrapparci avidamente al destino con le mani e uno scalpello, impadronendocene e ignorando la compagnia che, accusata ingiustamente come te, ti circonda».

    Malgrado non avessero un legame profondo, nessuno di loro aveva mai parlato in quel modo. Erano sempre stati cortesi ed educati, ma la paura e l’incertezza stavano cominciando ad assalire i più deboli e insicuri, come Baccino.

    «La bocca uccide più della spada, caro Baccino», disse la voce. E aggiunse: «La libertà è il più grande dono della natura. Non appena nasce la virtù, l’invidia viene al mondo per attaccarla; e ricordate quello che vi sto dicendo, amici miei, è più facile trovare un corpo senz’anima che la virtù senza invidia».

    «Andiamo, amico, non è il momento di filosofeggiare», disse Bartolomeo. «Tu cosa pensi di fare?».

    Per alcuni secondi, a rompere il silenzio fu soltanto il rumore dei pezzi di pietra che saltavano per terra colpiti da un instancabile scalpello. Nessuno si aspettava di sentire quello che venne dopo. Non era una proposta. Era un dato di fatto.

    «Io, Leonardo da Vinci, penso di scappare da questa prigione. Meglio morto che privo di libertà».

    Nel frattempo, a centoventi chilometri da lì, l’incarnazione del nuovo rappresentante del Cielo in terra era sul punto di sorgere per scatenare il proprio Giudizio Universale.

    3

    1476, basilica di San Domenico, Bologna

    A dominare era stato il silenzio. Pace e studio. Da quando due anni prima aveva abbandonato la casa natale di suo padre a Ferrara, la tranquillità del convento di Santo Domenico, nella città di Bologna, lo aveva aiutato a mettere in ordine i suoi pensieri. Il silenzio era un catalizzatore perfetto per la sua missione divina. Il disgusto per la cattiveria umana, o per i casi di adulterio sempre più frequenti in quegli Stati italiani troppo liberali per i suoi gusti, veniva in parte alleviato dalla soddisfazione spirituale che ritrovava nella solitudine.

    Grazie a suo nonno Michele, un bel giorno aveva scoperto la Bibbia. Una cosa che avrebbe trasformato per sempre la sua mente e la sua anima. Michele, essendo medico della famiglia ducale di Ferrara, godeva di una situazione economica abbastanza stabile e non aveva badato a spese nel momento di istruire il suo piccolo, ma curioso, nipote.

    Bramoso di sapere, aveva divorato volumi di Platone, Aristotele, Petrarca e san Tommaso. A poco a poco, aveva sviluppato la sua realtà da un punto di vista sempre meno illusorio. Ma, per disgrazia, il suo mentore era spirato prima di completare la sua formazione. Un giovane di sedici anni, già indirizzato a una carriera teologica senza paragoni, aveva allora deciso di onorare il ricordo di suo nonno, l’unico membro della famiglia a essere stato veramente dalla sua parte, e l’aveva fatto contro ogni avversità, dal momento che suo padre voleva invece che diventasse medico.

    Ferrara era una città piccola. Era vicina a Venezia e un po’ più lontano c’erano altri centri politici ed economici come Milano o Firenze e, ancora più distante, il centro del cattolicesimo per eccellenza: Roma.

    Parallelamente, si stavano sviluppando da un lato tensioni religiose che avrebbero portato alla nascita del conciliarismo, il quale sottraeva autorità al Papa, dall’altro, un periodo di grandi cambiamenti culturali che, a suo parere, stavano portando alla distruzione degli Stati italiani. Il popolo italiano sembrava vivere una fiorente epoca d’oro e si lasciava alle spalle la Guerra dei cent’anni, che aveva portato al fallimento delle più importanti banche di Firenze. Si lasciava alle spalle anche la paura di un ritorno della peste nera che, un secolo prima, aveva distrutto città intere. Il popolo italiano stava rinascendo. Tuttavia, per un giovane che viveva a Ferrara e voleva salvare l’anima dei peccatori e cambiare il mondo, un Rinascimento non era sufficiente. La sodomia, una parola che era stata introdotta dal monaco benedettino Petrus Damianus nel xi secolo, si stava impadronendo delle classi sociali più stravaganti. Qualunque atto sessuale che non era legato alla riproduzione sarebbe stato oggetto di castigo terreno e celestiale; soprattutto in quel periodo, con la diffusione dei firenzer, simpatizzanti maschili del sesso anale che venivano da Firenze, la culla di Piero il Gottoso.

    Ormai era deciso. Aveva una missione divina. Aspettò il momento opportuno per agire e non tardò troppo ad arrivare. Sette anni di attesa non erano niente in confronto a quello che doveva

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