Gli ossibuchi di Nietzsche: Un felice incontro con Torino e la cucina piemontese
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Recensioni su Gli ossibuchi di Nietzsche
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Anteprima del libro
Gli ossibuchi di Nietzsche - Elisabetta Vitzizzai Chicco
Nietzsche.
Un ritratto umano, molto umano
Ecco una città secondo il mio cuore
Il 5 aprile 1888 a Torino, alla stazione di Porta Nuova, scese dal treno un uomo vestito modestamente con un soprabito marrone, un cappello molle di feltro, grosse scarpe pesanti e un plaid, all’usanza dei viaggiatori, appeso al braccio.
Non portava valigia. La sua valigia – diciamo pure un valigione – l’aveva preceduto di un paio di giorni, perché il viaggiatore distratto, proveniente da Nizza, a Savona aveva sbagliato coincidenza ed era finito, invece che a Torino, la meta a cui era stato avviato correttamente il suo bagaglio, a Sampierdarena, dove, messo di pessimo umore dal disguido, si era, come gli accadeva in tali casi, seppellito a letto sotto le coperte con un’emicrania feroce.
Quell’uomo si chiamava Friedrich Nietzsche. Non aveva un brutto aspetto, nonostante una certa asimmetria degli occhi, di un bel verde scuro, che talora parevano un po’ allucinati ed erano molto, molto miopi. Era alto un metro e settanta all’incirca e un incipiente embonpoint dava imponenza al suo incedere. Il volto dall’ossatura forte era coperto nella parte inferiore da foltissimi baffi scuri che, in quell’epoca in cui era di moda tra gli uomini portare baffi orgogliosi rivolti all’insù, spiovevano invece senza alcuna cura all’ingiù. Aveva nobili e bellissime mani che come gli occhi catturavano gli sguardi e in ogni tratto portava il segno di un cortese ma fermo distacco, di una invalicabile lontananza.
Si rifugiò subito, con molta probabilità, in un albergo e solo la mattina dopo si avventurò nella città sconosciuta. Vi era giunto seguendo il consiglio di un caro amico, Heinrich Köselitz, che chiamava affettuosamente Peter Gast perché lo aveva ospitato a Venezia, dove abitualmente risiedeva (Gast in tedesco significa ospite
). Abituato ai soggiorni mediterranei
in Liguria e in Costa Azzurra, diffidava delle città nordiche per ragioni climatiche, timoroso di venti freddi improvvisi, dell’umidità al crepuscolo, degli spifferi in agguato anche nelle case. La prima impressione non fu buona: il tempo era piovoso (esecrabile primavera!), freddo, l’aria opprimente. Nulla che potesse giovare ai suoi nervi e alla sua malinconia, costante di fondo del suo temperamento.
Si diresse verso la Posta Centrale, poiché aveva comunicato alle persone con cui era in corrispondenza di scrivergli per il momento Fermo Posta. Percorse probabilmente via Lagrange o via Carlo Alberto lanciando attorno occhiate preoccupate e distratte. Il clima era per lui questione esistenziale. Inoltre la primavera era la sua stagione peggiore, quando si faceva intollerabile la cronica infiammazione agli occhi di cui soffriva. Per questa ragione era fuggito da Nizza, dal suo biancore abbagliante esploso nel sole tremendo della bella stagione. Ma aveva in odio ugualmente l’umidità dell’aria e il grigiore del cielo che lo abbattevano nell’umore e gli regalavano recrudescenze dell’altrettanto cronica ischialgia. Sensibile e umorale com’era, aveva una percezione esacerbata del dolore, ma bastava una giornata mite e azzurra a farlo sentire completamente guarito. Dunque, più che malattie vere e proprie le sue erano crisi
, di emicrania, di vomito, di male agli occhi e all’anca, che potevano tuttavia anche durare a lungo, come gli era accaduto in passato. Crisi in cui si faceva sentire la fatica di vivere, la scontentezza per quel che faceva e che non era quello che avrebbe voluto fare. Come ai tempi di Basilea, quando l’insegnamento (era stato un bravissimo insegnante) gli toglieva le ore necessarie per scrivere di quel che gli interessava davvero: filosofia, poesia, musica.
La sede della Posta era un casottino giustapposto al fianco della parte posteriore e neoclassica del nobile palazzo Carignano, in via delle Finanze (ora Cesare Battisti) 10; nell’angolo nord-ovest della piazza intitolata al re Carlo Alberto, proprio di fronte, c’era una bella edicola di giornali con annesso Gabinetto pubblico di scrittura. Ne era proprietario un uomo corpulento, baffuto, calvo e cordiale, abituato a individuare i turisti spaesati e a fornirli di informazioni e guide cittadine. Oltretutto parlava bene il francese, avendo a lungo lavorato Oltralpe e si occupava di affittare case. Nietzsche oltre al francese masticava un po’ di italiano e gli chiese dove potesse trovare una camera ammobiliata nei dintorni, presso una buona famiglia
.
Semplicissimo: lo stesso Davide Fino, l’edicolante, decide lì per lì di fare sgombrare il figlio, il quattordicenne Ernesto, dalla sua stanza per cederla in subaffitto all’inquilino, sconosciuto, ma rassicurante perché tedesco (erano i tempi della Triplice Alleanza e i tedeschi andavano per la maggiore in Italia) e d’aspetto distinto, non per niente un dottor professore
come ha detto di essere. Anche la moglie Candida, un bel donnone formoso che per meglio figurare
si fa chiamare Bianca, non avrà di certo niente da ridire potendo vantare un dottor professore
come pigionante. Del resto sono anni di gravissima crisi e di impoverimento generale a Torino per il crollo dell’agricoltura a causa del susseguirsi di cattive annate e della guerra doganale con la Francia e per il crack delle principali banche cittadine: ben venga quindi qualsiasi occasione di guadagno. Ne è consapevole anche la Candida o Bianca, che ha impiegato i risparmi salvati in un negozio di cancelleria.
La casa è proprio lì, sulla verticale della Galleria Subalpina. L’ingresso è in via Carlo Alberto 6, ma la camera all’ultimo piano (il IV o il III a seconda che si conti o meno l’ammezzato) si affaccia ariosa sulla piazza dalla quinta finestra a partire dall’angolo. Un’ottima posizione, constaterà di lì a poco molto soddisfatto il professore, che ne scrive subito, riconoscente, al fido consigliere Gast: "Amico mio, il vostro suggerimento partiva proprio dal cuore! Questa è la città di cui ho bisogno… Dignitosa, severa. Non una moderna metropoli, come temevo, ma una Residenz, una piccola capitale del Sei-Settecento che ha impressa un’aristocratica quiete ovunque, e un gusto unitario che tocca anche il colore (tutta la città è gialla e rosso-bruna). Né ci sono meschini sobborghi".
C’erano invece. Ma dopo l’abbattimento del fetido Moschino una quindicina di anni prima (sulla sponda sinistra del Po dietro piazza Vittorio), le brutture erano relegate lontano dal centro; né arrivavano in via Po e dintorni, dove il professore passeggiava ogni giorno, i fumi delle officine di Borgo Vanchiglia (in dialetto non per nulla chiamato il borg del fum). Tanto meno si potevano scorgere le ciminiere di fabbrica e le case di ringhiera che si alzavano sulle cascine e i prati di Borgo Dora e di San Donato dove, immediatamente al di qua e al di là della cinta daziaria, si incominciava a delineare il nuovo volto della Torino industriale e operaia. In centro tutt’al più ciondolavano, come in tante città, stuoli di mendicanti, di disoccupati, di venditori di zolfanelli e cianfrusaglie varie, che si ritiravano a sera nelle stamberghe e nei ripari di fortuna della barriera di Milano come i Ciabot dle Merle abitati da straccivendoli, ladri e feramiù (raccoglitori di ferro vecchio) o la trattoria del Centauro, dove si dava convegno per bere e giocare d’azzardo tutta la barabberia
(così i torinesi chiamavano con garbato ed evangelico eufemismo i malavitosi locali). L’unico sobborgo di cui Nietzsche poteva farsi una vaga idea era il Rubatto, ai piedi del monte dei Cappuccini sullo stradale di Moncalieri, che tuttavia aveva un aspetto più pittoresco che meschino
: lavandaie inginocchiate sulla sponda del Po, lunghe file di panni stesi ad asciugare, pescatori, casupole addossate le une alle altre tra qualche officina di falegname, di fabbro, di carrozzaio e osterie con topia (pergolato) Ai pesci vivi
.
Un particolare che però Nietzsche rileva immediatamente, perché per lui non è affatto secondario, tanto che anche di questo scrive subito a Gast, è che a Torino pare si viva spendendo meno che nelle altre città italiane
(ne conosceva diverse, essendo già stato a Venezia, a Riva del Garda, a Sorrento, a Messina, a Roma, a Genova e dintorni).
La camera in casa Fino gli costa solo 25 lire al mese, a fronte delle 80 che dovrebbe sborsare in un albergo non certo di prima categoria, e il professore deve stare attento al denaro. L’università di Basilea, in cui insegnava filologia classica, gli ha concesso una pensione di 3000 franchi all’anno (equivalenti a 3000 lire), quando, nel 1879, ha dato le dimissioni per ragioni di salute. Una discreta pensione, che ben gli amministra l’altro suo fidato amico, Franz Overbeck, ma pur sempre 1500 franchi in meno rispetto allo stipendio che riceveva quando insegnava. E Nietzsche deve fronteggiare le spese di stampa dei suoi scritti, quelle che egli stesso definisce un costoso lusso
.
Torino in breve gli piace davvero in tutto: Palazzi che parlano al cuore
, scrive al musicista Carl Fuchs il 14 aprile "non fortezze del Rinascimento. E poi: scorgere le Alpi dal centro della città! Le lunghe strade che sembrano condurre in linea retta alle loro cime innevate! Aria limpida, asciutta. Non avrei mai creduto che una città, grazie alla luce, potesse diventare così bella. A pochi passi da me il palazzo Carignano, mio grandioso vis-à-vis, e dirimpetto a quello il teatro Carignano, dove si dà in modo encomiabile la Carmen. Si può passeggiare per