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Infertile
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E-book351 pagine4 ore

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(...) Fece scorrere leggermente la modanatura del bordo destro del piano dello scrittoio e sul lato del mobile si aprì un’anta. Il vano conteneva tre piccoli cassetti. Dal primo Diego trasse una grossa busta gialla e, dopo averne controllato il contenuto, la infilò in una delle tasche della giacca. Indi dal secondo trasse un involucro che svolse. Ne uscì la pistola Smith&Wesson con i due caricatori che Artemi gli aveva dato, prima di partire partigiano per le montagne della Sabina, davanti al cancello della villetta di Corso Trieste e la pose sul piano della scrivania. Infine dal terzo cassettino tirò fuori il tubetto di metallo che gli aveva dato il dottor Sestini a Ventotene e, postolo accanto alla pistola, restò per alcuni minuti a fissare l’uno e l’altra, indeciso (...)
LinguaItaliano
Data di uscita25 apr 2013
ISBN9788897733720
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    Anteprima del libro

    Infertile - Romolo Borgna

    moglie

    PRIMA PARTE

    1

    Nei primi giorni del mese di settembre 1943, l’architetto Diego de Micheli, confinato politico all’isola di Ventotene, liberato all’indomani del 25 luglio, arrivò a Casamala dopo un viaggio che dire avventuroso è un eufemismo. Salutato il camionista che gli aveva dato un passaggio da Roma ed entrato in paese grande fu la sua meraviglia nel constatare che coloro che incontrava per le strade non lo degnassero d’uno sguardo, come se non lo conoscessero. Arrivato a piazza Farnese, la trovò deserta, eppure era martedì, giorno di mercato. Giunto davanti a palazzo de Micheli tirò la cordicella che pendeva dal portone e dopo qualche minuto gli fu aperto.

    «Chi è?» gli chiese una voce nota.

    In fondo all’androne, al sommo della scala che portava al piano giorno, Giuditta e Marcello lo guardavano perplessi.

    «Come, chi sono... non mi riconoscete nemmeno voi?»

    I due ebbero un attimo di esitazione, davanti a quell’uomo smagrito e con il volto scavato, poi, scoppiarono in grida di giubilo.

    «Oh» sor Diego! Siete voi? Ben tornato» gridarono in coro e si precipitarono in fretta giù per la scala, per quanto l’età avanzata permettesse loro. L’architetto fece appena in tempo a lasciare il suo sacco a terra che gli furono addosso abbracciandolo e festeggiandolo e dimostrandogli che, nonostante la lunga assenza, il loro affetto non era scemato e, anzi, Giuditta, accarezzandolo e baciandolo sulle guance, gli gridava, tra le lacrime:

    «Ben tornato, tesoro della tua Titta!».

    Finiti gli abbracci e i baci di benvenuto, saliti i pochi gradini, entrarono nel salone.

    «Ora siedi che ti preparo qualcosa» disse Giuditta. «Scommetto che non hai mangiato nulla da stamane. Si sa con questi, lumi di luna...»

    «No, stai tranquilla, insieme al camionista a Monterosi abbiamo mangiato qualcosa a mezzogiorno. Sono solo stanco...»

    «La tua camera è pronta. Lo è stata sempre, perché sapevamo che saresti tornato un giorno o l’altro. Ti chiamerò per la cena» disse la tata.

    L’architetto Diego de Micheli si sentì a casa.

    La mattina dopo uscì per tempo; voleva girare un po’ per le vie del paese, prima di arrivare in farmacia e salutare l’amico Pietro. Casamala non sembrava gran che cambiata, nonostante gli anni di guerra e le drammatiche vicende seguite al venticinque di luglio. Poca la gente per le strade, per lo più persone anziane perché gli altri erano al lavoro nei campi, nelle officine, nelle botteghe. Le donne sfaccendavano in casa, anche se alcune sedevano fuori degli usci delle case a chiacchierare o a far la calza. Il nuovo e ancora incerto assetto politico non sembrava aver prodotto a Casamala, a quanto ebbe a dirgli Pietro, dopo l’affettuoso abbraccio di bentornato, grandi cambiamenti o sconvolgimenti, né vi erano stati in paese particolari atti di rivalsa nei confronti dei fascisti, come era accaduto in altre città e paesi d’Italia.

    «Qualche cosa, tuttavia» aggiunse Pietro, con un velo d’ironia nella voce, «è successo anche a Casamala, subito dopo il 25 luglio. Fu costituito, infatti, un comitato antifascista, presieduto da Domenico Artemi che, come primo provvedimento, emise un’ordinanza con la quale si ordinava a tutti coloro che si fossero compromessi con l’odiato regime o avessero avuto incarichi o mansioni, di restare chiusi nelle loro case e di non di farsi vedere in giro per il paese, fino a nuovo ordine, pena l’arresto. L’ukase, però» continuò Pietro, «ebbe lo stesso effetto delle grida di manzoniana memoria, poiché nemmeno i più pavidi ne furono impressionati. Tanto che, coloro che dovrebbero star chiusi in casa, non solo girano tranquillamente per il paese senza che alcuno li importuni, ma siedono al bar, come tuo zio Assuero che sta, lo puoi vedere tu stesso, laggiù in piazza, seduto fuori del bar con il suo degno amico Sante Grimaldi, sorbendo il suo caffè».

    Lo zio, però, avendo scorto lo ‘sciagurato’ nipote, che immaginò tornato dal confino, conversare con il suo amico farmacista, temendo che si avvicinasse e lo affrontasse, si alzò e, insieme all’amico se la batté, attraverso l’arco di Santa Lucia, giù per via Vivaldi.

    Anche se i compaesani incontrati venendo in farmacia non se l’erano svignata come lo zio Assuero, lo avevano, tuttavia, guardato come se avessero visto un fantasma e se ne lamentò con il suo amico.

    «Non c’è ostilità nello stupore della gente, ma solo curiosità, nel rivederti tornato sano e salvo a Casamala. Non ci far caso. Vedrai che nel giro di qualche giorno, nessuno si meraviglierà più di te».

    Avendogli chiesto Pietro quali progetti avesse per l’immediato futuro, rispose che doveva fare un po’ di mente locale e vedere lo zio Romildo che aveva curato i suoi interessi mentre era al confino. Certamente sarebbe tornato a Roma per riprendere i contatti con i vecchi amici e colleghi. Poi, finita la guerra e la vita civile stabilizzata, avrebbe deciso come organizzarsi.

    Sia Pietro che Giulio Martire, il suo avvocato, che incontrò nel pomeriggio, si dissero d’accordo che lasciasse il paese, poiché, secondo loro, c’era da aspettarsi un ritorno alla grande dei fascisti e dei tedeschi.

    «E in una città, tra tanta gente, dove nessuno sa chi tu sia, conducendo una vita ritirata, ti sarà più facile mimetizzarti e passare inosservato», conclusero.

    Dopo alcuni giorni, durante i quali ebbe modo di vedere lo zio Romildo, il ragionier Falcetti e Mecuccio Artemi, Diego, fattosi accompagnare da Marcello alla stazione di Ronciglione, partì in treno per Roma. Arrivato a Corso Trieste, dovette convenire con la Giuditta che non gli sarebbe stato facile sistemarsi, perché la casa, chiusa da anni, era in condizioni pietose. Tutto, infatti, era coperto di polvere e di ragnatele e dovette darsi da fare per spolverare, pulire e rimettere in ordine anche se solo le stanze indispensabili per condurre una vita decente: la cucina, il soggiorno e la camera da letto. Per ora lo studio, che egli chiamava affettatamente l’atélier, le sue tele e i suoi colori potevano aspettare, poiché, come riteneva, la sola cosa che importava in quel momento era sopravvivere. Evitava, perciò, di uscire di casa e se lo faceva, lo faceva solo per consumare i pasti in una trattoria in Via Salaria e per una breve passeggiata, nel parco della vicina Villa Paganini.

    Provò a contattare, già dai primi giorni, gli amici e il primo fu, ovviamente, don Angelo Steppani, ora importante officiale della Congregazione di Propaganda Fide e monsignore, il cui numero telefonico gli era stato dato da Attilio Verduchi, suo vecchio conoscente e cronista a Il Messaggero che incontrò, casualmente, a Villa Paganini.

    Angelo fu felice di sentirlo e gli promise che senz’altro nel pomeriggio sarebbe venuto a Corso Trieste.

    Quando don Angelo se lo vide di fronte, stentò a riconoscerlo e, abbracciatolo, lo trovò molto dimagrito. Si scosto alquanto e, squadratolo, si rese conto che aveva le tempie ingrigite, il volto, smunto e sfilato, segnato da profonde rughe che lo facevano sembrare più vecchio della sua età e il bel naso aquilino era diventato, come dire, troppo importante. Dopo i soliti convenevoli, Diego gli raccontò, a grandi linee, la sua vita a Ponza e a Ventotene, sgradevole e, tuttavia, migliore di quella che conducevano, non avendo le sue possibilità economiche, alloggiavano in grandi cameroni e consumavano i pasti alla mensa comune.

    «A me e ad altri come me fu, invece, concesso di affittare una casetta e di avere una donna del luogo per accudirci. Ciò che era insopportabile era la fiscalità dei continui controlli a tutte le ore del giorno e della notte e le innumerevoli assurde limitazioni nei movimenti e nelle frequentazioni».

    E continuò raccontandogli come, una volta liberato, poté raggiungere Gaeta e da qui, grazie alla bontà di un camionista che portava un carico di verdure in Toscana, Casamala. Gli disse anche che aveva deciso di lasciare il paese e di venire ad abitare a Roma, sia perché infastidito dall’eccessiva meraviglia dei paesani nel rivederlo, quasi si trovassero di fronte ad un resuscitato, ma perché quale ex confinato e antifascista, avrebbe potuto avere in paese più fastidi dal ritorno in sella di fascisti e tedeschi.

    Angelo, dopo aver convenuto con lui che a Roma gli sarebbe stato più facile confondersi tra la folla anonima della grande città, lo ragguagliò, a sua volta, sulle sue vicende in quel di Prodo, fino alla chiamata a Propaganda Fide, poco dopo l’inizio della guerra, grazie all’interessamento di Monsignor Paffetti, ch’era stato suo prefetto al Seminario Romano Maggiore.

    Angelo gli riferì che cose grosse stavano bollendo in pentola e che, dopo il trasferimento del governo Badoglio a Salerno stava diventando estremamente rischioso anche a Roma per chi fosse in odore di antifascista e, quindi, doveva stare molto accorto e restare per quanto possibile defilato. E, infatti, molti antifascisti, alcuni anche membri del costituito CLN, compreso Degasperi, siano stati arrestati.

    «Ad ogni modo» concluse don Angelo andandosene, «il consiglio che ti do è di condurre una vita appartata quanto più possibile. In caso, però, ti accorgessi di essere oggetto di attenzione da parte di qualcuno, fosse anche un semplice pizzardone, trova il modo di contattami e cercherò di venirti in aiuto».

    Diego, disattendendo le raccomandazioni dell’amico, nei giorni successivi, cercò di contattare vecchi amici di partito e colleghi e per primi Roversi e Gualandri. Verduchi, gli disse, però, che i due erano fuori Roma, rifugiati in un paese della Cociaria e gli consigliò di rendersi anche lui, se poteva, uccel di bosco, perché era in arrivo un’ordinanza della prefettura che ordinava l’arresto di tutti i sovversivi nemici della patria, in particolare gli ex confinati antifascisti. Diego, perciò, si fece ancor più prudente, recandosi in trattoria solo per il pasto di mezzogiorno e arrangiandosi la sera in casa con pane, affettati e formaggi.

    In quei giorni si ebbero violenti scontri nella zona di Porta San Paolo tra soldati dell’esercito italiano e reparti della milizia e della Wermacht. Ne derivò l’occupazione tedesca, manu militari, di Roma e si ebbero maggiori controlli da parte della polizia italiana sui cittadini. Un giorno, verso la fine di settembre, mentre faceva i soliti quattro passi per i viali di Villa Paganini, sfuggì per il rotto della cuffia ad un controllo della polizia e il giorno dopo, mentre pranzava, fecero irruzione nella trattoria alcuni poliziotti, i quali, dopo aver intimato agli avventori di rimanere seduti e di continuare a mangiare, si diressero verso un tavolo sul fondo del locale, dove quattro avventori stavano pranzando e chiesero loro i documenti. Esaminati i quali, li dichiararono in arresto e li trascinarono via in manette. Usciti gli agenti, il trattore cercò di tranquillizzare i clienti rimasti, palesemente scossi da quell’improvviso fuori programma, affermando che gli arrestati erano pericolosi sovversivi e concluse: «Voi, signori, continuate pure a mangiare, perché non avete nulla da temere».

    Diego, non poté non domandarsi perché il trattore avesse affermato con sicurezza che i quattro arrestati erano dei sovversivi e si chiese se non fosse stato proprio lui a segnalare alla polizia la loro presenza nel locale. Tutto era possibile di quei tempi a Roma. Da quel giorno, pur avendo cambiato trattoria, non si sentiva, tuttavia, tranquillo, perché vivere nel timore di finire di nuovo, un giorno o l’altro, nelle grinfie della polizia politica, non era un bel vivere. Decise, perciò, di rivolgersi a don Angelo e, recatosi a Propaganda Fide, gli raccontò dell’irruzione della polizia nella trattoria e dell’arresto dei quattro avventori e di come aveva evitato un posto di blocco e, infine, di aver l’impressione da qualche giorno di essere seguito.

    «Hai fatto bene a rivolgerti a me, perché, forse, posso fare qualcosa» gli disse monsignore, dopo aver pensato per un po’. «Qualche tempo fa ho fatto un piccolo favore al priore del convento dei Carmelitani Scalzi di Caprarola e credo di non fare nulla di male se gli chiedo di ricambiarmelo, dandoti ospitalità nel suo convento fino a che non passerà questa buriana. D’altronde non saresti il primo a trovare rifugio in un convento di questi tempi».

    «Ti ringrazio. Sapevo di poter contare su di te».

    «Aspetta a ringraziarmi. Si dà il caso che padre Simeone sia in questi giorni a Roma e mi ha promesso, prima di tornare a Caprarola, che sarebbe passato a salutarmi. Lo dovrei trovare ancora a Santa Maria della Scala».

    Don Angelo alzò il telefono e formò un numero.

    «Convento di Santa Maria della Scala? Sono Monsignor Steppani di Propaganda Fide, vorrei parlare con padre Simeone, il priore del convento di Caprarola, che è vostro ospite. Grazie».

    Contrariamente a quanto avviene di solito nei conventi, dopo pochi minuti il frate era al telefono.

    «Pronto, Monsignore. Sono tutto tuo».

    «Ascolta, ho urgente bisogno di parlarti. Puoi passare da me in mattinata?».

    «Aspetta, che ora è? Ti va bene tra le dodici e le dodici e mezza?».

    «Perfetto. A fra poco».

    Posata la cornetta, don Angelo si rivolse a Diego, e:

    «Sono sicuro che padre Simeone non mi dirà di no. Torna a Corso Trieste ed aspetta la mia telefonata. Intanto, per guadagnare tempo, potresti chiudere in una borsa, non una valigia che darebbe nell’occhio, qualche tuo effetto personale. Ricordati di portare con te del denaro. È roba del diavolo, ma serve sempre».

    Giunto Diego davanti al cancelletto d’ingresso della casa di Corso Trieste, qualcuno lo chiamò a bassa voce: «Archité, archité!».

    Si voltò e vide Domenico Artemi che, dall’altra parte della strada, correva verso di lui.

    «Che sei venuto a fare?» gli chiese, sgridandolo. «Può essere pericoloso per uno come te venire a Roma, con questi lumi di luna, e incontrare uno come me».

    «Sono venuto proprio perché ho ritenuto che potevate essere in pericolo e per farvi la proposta di venire con me in montagna, sui monti della Sabina. Li sareste al sicuro».

    «Ti ringrazio, ma don Angelo mi ha trovato un rifugio che credo sia più adatto per me».

    «In verità, sono anche venuto per portarvi questa» e così dicendo gli porse un pacchetto. «Vi può essere utile. È una rivoltella».

    «E che ci faccio?»

    «Come che ci fate! La usate se, malauguratamente, ce ne fosse bisogno. Adesso, visto che state bene in salute, prima di andare in montagna, passerò per Casamala e tranquillizzerò la Giuditta. È lei che mi ha mandato. Se non fossi venuto ne avrebbe fatto una malattia. Vi saluto archité e auguri».

    «Ti ringrazio e auguri anche a te. Dille, comunque, che sto bene e che non si preoccupi per me, perché so badare a me stesso».

    Si salutarono, abbracciandosi. Poi il fedele Domenico, allontanatosi di corsa, girò per via Col di Lana e sparì.

    2

    Poco dopo l’alba di un giorno di metà ottobre dell’anno 1943, dal convento di Santa Maria della Scala in Roma, uscirono due frati che si diressero verso la fermata del tram. Il più anziano camminava spedito, mentre l’altro, anche se più giovane, gli veniva dietro procedendo con qualche difficoltà. Salendo sul tram, infatti, inciampò nel saio.

    «Accidenti a...»

    Un’occhiataccia di padre Simeone gli troncò l’imprecazione in gola. Diego de Micheli, in verità, si sentiva alquanto a disagio, chiuso dentro quel lungo e pesante sacco di panno marrone.

    Era stato padre Simeone a volere che gli fosse fatta la tonsura e che indossasse il saio, perché, aveva detto, un signore in abiti civili e di buon taglio in compagnia di un religioso, avrebbe potuto suscitare l’interesse dell’occhiuta polizia politica.

    Alla stazione di Trastevere, mentre stavano salendo sul treno che li avrebbe portati a Caprarola, un carabiniere si avvicinò e chiese dove fossero diretti. A Diego si gelò il sangue. Pensò subito alla Smith&Wesson che aveva nella borsa. Padre Anselmo, non si perse d’animo e, chiudendo lo sportello, rispose pronto: «Dove volete che vadano due poveri frati? In convento, no?...».

    Il treno, fortunatamente, cominciò a muoversi e il sangue riprese a scorrere nelle vene di Diego.

    Arrivati alla stazione di Caprarola, un autobus li portò in paese e l’autista che aveva confidenza con padre Simeone, se ne uscì ridacchiando e con il tono di uno che la sa lunga:

    «O, sor priore, e che avete trovato un nuovo fratorso?»

    «Sì, Gioacchino» rispose pronto, il frate, «ne avevamo proprio bisogno».

    Dalla piazza dov’era la fermata dell’autobus, i due religiosi, salita l’erta via dritta e percorso il lungo e tortuoso viale Regina Margherita, giunsero sul piazzale dove si ergeva la chiesa e il complesso conventuale di Santa Teresa. L’anziano frate, anziché dirigersi verso il portone d’ingresso del convento, entrò nel tempio, sollecitando Diego che, per deformazione professionale si era fermato ad osservare la facciata della chiesa, opera del Rainaldi, a seguirlo. Percorso uno stretto corridoio lungo la parte sinistra della navata, si trovarono di fronte ad una piccola porta. Il priore tirò la corda di una campanella e, poco dopo, la porta fu aperta da un fratello laico, un tipo tracagnotto, la faccia bruciata del contadino, che scrutò diffidente il confratello che accompagnava il priore.

    «Bentornato, padre» salutò. E, poi, con diverso tono di voce salutò Diego con un’Ave Maria.

    «Grazie, fra Giovanni». Il frate laico, presa dalle mani di padre Simeone la borsa, continuò a guardare perplesso il nuovo venuto. Il priore, cui non sfuggì la curiosità del frate portiere, lo informò che il confratello si chiamava fra Diego e sarebbe stato per qualche tempo ospite del convento e gli ordinò di preparare per lui una delle celle della foresteria. Fra Giovanni capì che non doveva fare ulteriori domande.

    Padre Simeone, riunito, quindi, il capitolo e presentato Diego ai confratelli, li informò che, con la piena autorizzazione del Superiore Generale, era stata concessa, all’architetto de Micheli, per motivi umanitari, ospitalità nel convento.

    «Il nostro ospite» precisò, «che si tratterrà con noi per qualche tempo, appartiene ad un’antica famiglia di Casamala, da sempre benefattrice del nostro convento. L’architetto, che è anche un valente pittore, sarà per tutti, dentro e fuori del convento, soltanto fra Diego».

    Padre priore, quindi, lo accompagnò nella cella a lui riservata e, prima di lasciarlo, gli consigliò di vestire il saio in ogni circostanza e di osservare, per quanto possibile, orari e abitudini della vita conventuale, onde evitare che qualcuno di quei pochi paesani, che per ragioni di lavoro avevano accesso al convento, parlasse in paese di uno strano frate, sollevando curiosità da parte della gente e l’interesse dei carabinieri.

    Orari e abitudini del convento, per uno che non era stata la vocazione a portarlo lì dentro, si rivelarono per Diego alquanto gravosi e antipatici, come ad esempio, la sveglia alle cinque del mattino.

    «Fra Giovanni» lo informò, infatti, il priore, «la sveglierà bussando alla porta della sua cella con un’ Ave Maria. Non sarà necessario che lei partecipi alle nostre ore di preghiera in coro che vanno dalla prima, alla tertia, alla sexta, e così via fino all’ultima, quella di compieta che ha luogo dopo la cena. Se vuole, però, anche se per curiosità, farci qualche volta compagnia in coro gliene saremmo grati. Oh, dimenticavo... i pasti sono serviti in refettorio: prima colazione tra l’ora prima e l’ora terza, cioè verso le otto del mattino, pranzo alle undici e cena, dopo l’Ave Maria, alle otto della sera. I pasti si consumano in silenzio mentre un confratello legge vite di santi o brani della Bibbia o del Vangelo. Ora, se prima di cena desidera riposare, la lascio, perché per me è ora del vespro».

    Uscito il priore, Diego si distese sul lettuccio che trovò molto confortevole.

    3

    Per ben sette mesi, fino cioè al 6 di giugno del 1944, le ore e i giorni tra le mura del convento si susseguirono per Diego con lentezza esasperante. Per ingannare il tempo aveva preso l’abitudine di trascorrere gran parte della sua giornata nella ricca biblioteca del convento, che occupava due grandi stanze divise da un arco. Le pareti delle due stanze erano interamente coperte da scaffalature e i volumi vi erano ordinati secondo la materia trattata, filosofia, teologia, mistica, letteratura italiana e straniera, agiografie di santi o di sante e libri di lettura edificante e devozionale e nella stanza più piccola, una sorta di ridotto, erano conservati, invece, libri stampati dopo l’invenzione della stampa meccanica, in massima parte opere di diritto e di letteratura. Lo incuriosirono maggiormente le opere conservate nella stanza più grande. Trovò e lesse con interesse, Le Confessioni e La città di Dio di Agostino d’Ippona, e opere di altri dottori della chiesa come San Giovanni Damasceno e San Gregorio Magno. Estremamente interessanti trovò tra le opere di Santa Teresa d’Avila Il Castello Interiore e L’epistolario che lo impressionarono fortemente.

    La monotonia delle giornate e l’incertezza del futuro lo immelanconivano, tuttavia, anche se il priore e gli altri religiosi facessero del tutto per rendergli la ...prigionia meno pesante e opprimente. Come quando vollero sorprenderlo, festeggiando il giorno del suo compleanno, dichiarato dal priore giorno di ricreazione straordinaria, in cui è permesso ai frati di mangiare carne. Ma la vera sorpresa fu quando il frate cuoco entrò in refettorio con una torta con su quarantacinque candeline.

    La notizia della liberazione di Roma, Diego l’apprese da fra Giovanni la mattina del 7 giugno. Dopo aver bussato, il frate lo informò, attraverso la porta, che Roma era stata liberata dagli americani.

    Quella mattina, per la prima volta dopo otto mesi, non indossò il saio, ma vestì l’abito di grisaglia che era restato per tutto il tempo chiuso nell’armadio. Quando l’ebbe indosso, provò la strana sensazione di non essere vestito. Sceso in refettorio per la prima colazione, i frati, che stavano commentando tra di loro la grande notizia, lo guardarono curiosi.

    «Scusate» disse Diego un po’ impacciato, «ma ritenendo che per me e per voi ogni pericolo sia, ormai, passato, è mia intenzione lasciare il convento in mattinata. Ho, pertanto, dismesso il saio e indossato l’abito che più mi si addice».

    E, dopo colazione, attorniato dai frati che si congratulavano con lui per il ritorno in libertà, il priore si disse dispiaciuto che con l’arrivo degli americani, Diego li avrebbe lasciati e sarebbe tornato al suo mondo e alla sua vita.

    «La ringrazio, reverendo padre» disse allora Diego. Penso che tornerò oggi stesso a Casamala, ma non mi fermerò a lungo in paese. Desidero esprimere a lei e a tutti voi padri la mia gratitudine e vi assicuro che lascio il convento con rincrescimento. Con voi e con il vostro ordine ho contratto un grosso debito e prometto che, per quanto mi sarà possibile e secondo le tradizioni della mia famiglia, troverò il modo di sdebitarmi con ciascuno di voi e con il convento per l’ospitalità e le gentilezze ricevute».

    «Ma non c’è nulla di cui lei debba sentirsi debitore», lo rassicurò padre priore. «Le chiediamo solo di pregare per la salute delle nostre anime».

    «Beh, padre, è un discorso che avremo tempo di fare non appena, finita la guerra, tornerà la pace. Ora, col suo permesso, uscirò in paese, dove spero di avere ancora qualche amico che potrà aiutarmi a raggiungere Casamala».

    Diego e padre Simeone, uscendo dal refettorio si trovarono di fronte fra Giovanni che annunciò loro esservi in parlatorio due signori venuti da Casamala che chiedevano dell’architetto. Diego fu certo che il fedele Marcello non aveva perso tempo, ma non riusciva ad immaginare chi fosse l’altro che era con lui.

    I due ‘signori’ in parlatorio erano, infatti, proprio il suo autista e il cugino Ludovico. Marcello era l’immagine della felicità,

    «Ci siamo archité» gli urlò, appena Diego entrò in parlatorio. «Giuditta v’aspetta. Ha preparato per voi un pranzo coi fiocchi, perché, ha detto, che chissà quanto avrà penato quel povero ragazzo, (per lei l’architetto è sempre il suo ragazzo), con quello che gli passava il convento..., perché la cucina dei frati, secondo Giuditta, non è che sia molto varia e raffinata...»

    «Marcello!» lo riprese Diego.

    «La Giuditta ha ragione» intervenne padre Simeone. «Noi frati dobbiamo far penitenza, infatti. Così, siete venuti a portarci via il nostro architetto, vedo».

    «Beh, gliel’avevo promesso» disse Marcello. «Subito dopo che in paese si era sparsa la notizia della liberazione di Roma e che l’ultimo tedesco aveva lasciato il paese, tenendo fede alla promessa che mi ero fatta, tirata fuori la vecchia auto e avervi versato la benzina, che avevo conservata in una tanichetta ben nascosta in cantina, sono subito partito con il dottor Ludovico per Caprarola. Le promesse, padre, bisogna mantenerle» concluse serio Marcello.

    Erano appena le dieci del mattino quando Diego, abbracciato il priore e salutato padre Alberto, l’economo, e tutti gli altri frati, partì per Casamala portando con sé un buon ricordo del tempo trascorso tra tante persone amiche, anche se, nei primi tempi, aveva avuto il sospetto che alcuni dei padri più anziani non accettassero di buon grado la presenza di un laico in convento.

    Diego, Marcello e Ludovico arrivarono

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