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Sovranismo. Un destino idiota
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E-book235 pagine3 ore

Sovranismo. Un destino idiota

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Da diversi anni il termine "sovranismo" è divenuto d'uso quotidiano, tanto da risultare oggi addirittura abusato e trito, quindi svuotato di un chiaro significato.

L'autore Domenico Lombardini, cerca di tracciare il profilo socio-psicologico del sovranista, attraverso le aspirazioni, contesto sociale, linguaggio e l'ambito psicologico.

Il testo continua con una diagnosi dei mali del Paese e tratteggia una possibile "terapia".

In ultimo, esorta gli italiani a liberare l'Italia dai "barbari interni", ossia da tutti quegli italiani che stanno abbracciando pulsioni sovraniste, autarchiche e autocratiche, sia dentro sia fuori il Parlamento.
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2022
ISBN9791221435504
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    Anteprima del libro

    Sovranismo. Un destino idiota - Domenico Lombardini

    I

    Introduzione

    Una conversione al contrario

    Il 15 settembre 2008 la Lehman Brothers, famosa banca d’affari statunitense, comunica ufficialmente di volersi avvalere del Chapter 11, in altri termini di dichiarare fallimento. È l’inizio del dissesto finanziario che propagandosi in tutto il mondo avrebbe causato il fallimento a catena di diverse banche, alcune delle quali di importanza sistemica. Alcuni governi profusero ingenti risorse pubbliche per il salvataggio di banche nazionali (il cosiddetto bailout pubblico di banche private). Presto la crisi finanziaria si sarebbe convertita in una crisi dell’economia reale che avrebbe portato, pochi mesi dopo, alla crisi dei debiti sovrani. In quel periodo frequentavo il corso di dottorato in neuroscienze sperimentali presso l’Università di Genova. Mi sentivo fortunato: dopotutto, la borsa di studio era stata aumentata a mille euro (prima era pari a ottocento euro) e io facevo un lavoro che mi appassionava. Malgrado il magro stipendio, il mutuo e il fatto che mia moglie fosse precaria presso l’Ospedale San Martino di Genova, una certa dose di incoscienza associata alla giovane età ci faceva guardare al futuro con ottimismo. Questo ottimismo si sarebbe presto sostanziato nello stato di gravidanza di mia moglie: Viola sarebbe nata il 7 settembre del 2009. Da quell’anno il Paese sarebbe entrato in uno stato di crisi cronica, le cui radici e i cui prodromi rimontavano, tuttavia, a periodi ben anteriori. Ma non precorriamo i tempi.

    In quegli anni cominciavo a interessarmi alle questioni economiche. Intuivo che se il mio scopo fosse stato capire qualcosa di ciò che stava accadendo, allora avrei dovuto migliorare le mie conoscenze, in particolare quelle di economia. Perché alcune economie crescono, mentre alcune stagnano o addirittura decrescono, come la nostra? Come avviene una crescita economica? Quali sono i suoi motivi? Come ha fatto l’Italia a passare, nel volgere di due o tre decenni (a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta), da un’economia perlopiù agricola e arretrata a una industriale e sviluppata? Avevo bisogno di rudimenti di teoria economica, modelli di crescita economica, politica economica e politica monetaria. Ma al tempo non sapevo che esistessero queste discipline né sapevo il significato dietro a tali parole.

    Apprendere o almeno dotarsi dei rudimenti di una nuova disciplina implica l’apprendimento di un nuovo linguaggio e io ero letteralmente analfabeta per l’economia. Così come sapevo il significato del lessico della biologia e delle neuroscienze (neuroni piramidali, potenziali d’azione, mielinizzazione, neuroni dopaminergici ecc.), allo stesso modo avrei dovuto apprendere il linguaggio fondamentale dell’economia. Ma l’apprendistato per dominare o quantomeno cominciare a comprendere una disciplina e il suo linguaggio è lungo e disseminato di rigide tappe evolutive. Se non studi la chimica inorganica non puoi capire la chimica organica, se non studi la chimica organica non puoi capire la biochimica; e così via, fino a giungere alla biologia cellulare e molecolare e ai livelli superiori di organizzazione della materia vivente. A un certo punto lessi il libro di Alberto Bagnai Il tramonto dell’euro. Nella mia naïveté mi sembrava che il testo di Bagnai, nelle sue poche pagine, spiegasse tutto. Credetti di avere tra le mani una risorsa che mi offriva strumenti per capire finalmente ciò che stava accadendo con la qualità inestimabile della semplicità. Secondo il libro il pluridecennale declino dell’Italia era dovuto esclusivamente all’euro e alla sua adesione all’Unione europea. Inoltre, il libro comprendeva tanti grafici e dati. Pertanto, almeno formalmente veniva soddisfatta la mia deformazione culturale: dopotutto, ero uno scienziato in erba. Solo dopo alcuni anni mi accorsi del mio fondamentale errore: malgrado non avessi studiato economia né avessi appreso il suo lessico, avevo preso come acriticamente buone le proposizioni di quel libro e, ciò che peggio, mi stavo facendo delle opinioni su fatti straordinariamente complessi attingendo a un bagaglio culturale vistosamente inadeguato.

    Iniziavo ad essere vittima del primo bias: WYSIATI – What you see is all there is. In altri termini, visto che non intendevo dedicarmi allo studio dell’economia (dovevo già studiare i neuroni ippocampali), la mia neghittosità associata all’ansia di voler capire velocemente ciò che stava succedendo mi indussero a pensare che ciò che vedevo fosse tutto ciò che esisteva (What you see is all there is), ossia che la visione di Bagnai nonché quella di altri autori e persone che la riecheggiavano fossero tutto ciò che importava per farmi un’opinione fondata sulla realtà.

    Essendo tetragono nella mia convinzione circa la correttezza dei motivi alla base del declino dell’Italia, anziché approfondire le mie conoscenze con altre letture fuori dalla vulgata anti-euro e anti-Ue (con le quali avrei potuto mettere alla prova le mie assunzioni), mi trincerai all’interno della bolla alimentandola viepiù con nozioni simili e stando bene attento a escludervi quelle eretiche o comunque poco ortodosse. Questo mi diede la ferma consapevolezza di aver capito tutto: è tutta colpa dell’euro, della Ue, dell’operato dei politici italiani euro-fanatici che ci avevano venduti e che avevano compromesso il futuro del Paese per aderire a un progetto antidemocratico, se non apertamente dispotico, ossia quello dell’adesione dell’Italia all’Unione europea.

    Sotto questa temperie psicologica e sottoculturale mi avvicinai a un’associazione che aveva il nome di Associazione Riconquistare la Sovranità (ARS), che sarebbe diventata, diversi anni dopo, il partito politico Fronte Sovranista Italiano. Fui contattato direttamente dal suo fondatore, il professore universitario di diritto privato Stefano D’Andrea, allorquando dimostrai interesse per l’attività online dell’associazione. Alla quale mi associai senza indugi. Sicuro di avere in mano infallibili strumenti culturali ed ermeneutici per comprendere la realtà economica e politica, coinvolsi nel mio fervore anche amici e conoscenti. Difettavo di senso critico, ma questo sarebbe stato motivo di impaccio all’ardore del mio proselitismo. Cominciai a militare, quindi a cercare simpatizzanti e proseliti e a portare il verbo sovranista alle genti. Partecipai a riunioni annuali del partito, feci volantinaggi, partecipai a iniziative di raccolta fondi, misi a disposizione il mio ufficio (nel frattempo avevo lasciato ogni velleità di carriera universitaria per passare a quella della libera professione nel settore dei servizi linguistici) per le riunioni della sezione locale. Sentivo il calore di far parte di un movimento collettivo, di un gruppo di persone che si adoperava in modo disinteressato per il Paese. Mi sentivo dalla parte del bene. Far parte di un partito soddisfaceva il mio profondo bisogno di trovare significato alla mia esistenza, ma al costo (e di questa cosa fui consapevole solo dopo) di mettere in permanente sordina il mio spirito critico. In gruppo siamo forse meno soli, ma nulla garantisce di essere più intelligenti.

    Tuttavia, un bel giorno cominciai a cogliere alcune aporie, per così dire, alcune stecche che disturbavano l’eufonia del coro di voci che costituivano l’impianto teorico della, chiamiamola così, dottrina sovranista (È tutta colpa della Ue!, È tutta colpa del neoliberismo!, I trattati europei sono in contrasto con la Costituzione!). Quella eufonia prese a diventare pian piano una cacofonia. Il dubbio prese a insinuarsi tra le pieghe delle mie già traballanti sicurezze. Ciò mi metteva di cattivo umore: avevo investito molto di me (tempo sottratto alla famiglia e al lavoro, denaro, significato, senso di appartenenza, senso dell’identità personale ecc.) in quella iniziativa, e ora che la vedevo perdere di fondatezza sentivo una sgradevole sensazione di vertigine. Pensai di dover mettere alla prova le mie assunzioni: dopotutto, cosa sarebbe potuto accadere? Ero convinto che le cose fossero come le avevo lette e sentite, ed ero sicuro che dalla prova le mie assunzioni sarebbero uscite meglio, non peggio.

    Nel tentativo di rivitalizzare uno spirito critico per troppo tempo intorpidito dal disuso, cominciai a cercare fonti e riferimenti al di fuori della bolla sovranista. Non fu necessario molto tempo prima di accorgermi dell’insensatezza delle proposte dei sovranisti e del loro radicale errore nella diagnosi del pluridecennale declino italiano. Fu sufficiente leggere alcuni (buoni) libri di storia economica, paper scientifici e le opere di autori di ben altra levatura rispetto a quelli che avevo avuto modo di frequentare, e tutta quella raccogliticcia, rudimentale e infondata teoria, a cui pure ancora aderivo, collassò davanti ai miei occhi. Ne seguì una strana sensazione commista di trionfo (in fondo, mi ero avvicinato di più alla verità) e perdita (non potevo di certo continuare a militare in un partito che propagandava menzogne e scempiaggini, malgrado mi offrisse significato esistenziale).

    Ovviamente, da lì a poco lasciai il partito. Per tale motivo fui segnato a dito come nemico da molti dei miei ex correligionari sovranisti. Tra di loro anche un amico. Ma, si sa, col nemico non si scende a patti. Il nemico è un reprobo e un degradato. Mi vergognai per loro, ma rivolsi tale moto di riprovazione anche nei miei confronti: anche io, e non erano passati molti mesi, avevo applicato la stessa etichetta di nemico (e non di avversario) a chiunque non la pensasse come me, anzi come noi. È il pensiero collettivo, è il pensiero del noi a creare la stessa nozione di nemico e a farci sentire nella confortevole, calda e idiota posizione di partigiani del Bene e della Verità.

    Questo libro è il resoconto della mia sequela, che è allo stesso tempo esistenziale, culturale e, in un certo senso, spirituale. Credo possa essere un utile caveat per chiunque si affatichi nel tentativo di trarre significato esistenziale da un percorso di lotta politica collettiva. Nella vita ciò che importa è la ricerca della verità: una volta messi coerentemente su questo sentiero è necessario essere brutali, soprattutto con sé stessi. Come nell’economia, anche nella ricerca della verità non esistono pasti gratis. Ricercare la verità implica accettare di perdere coerenza non solo con ciò che si pensa, ma anche con la persona che si crede di essere: l’adesione a un’ideologia, che è in definitiva una verità posticcia e mummificata, espone al rischio di identificare parti della propria persona con quella verità, donde la strenua resistenza a cambiare idea. Per l’ideologo l’ideologia è soprattutto un problema di identità personale, che trova precisazione nella relazione triadica identità-desiderio-ideologia, che pretende dall’ideologo una coerenza e una collimazione assolute. L’ideologia è una mappa che si pretende buona una volta e per sempre, e che l’ideologo è molto poco incline a modificare per descrivere meglio il territorio. All’ideologo interessa di più la coerenza interna della mappa che non la sua capacità di descrivere il territorio. Mi ero reso conto che la mia mappa descriveva un territorio che non esisteva.

    Il sovranismo

    Da diversi anni il termine sovranismo è divenuto d’uso quotidiano, tanto da risultare oggi addirittura abusato e trito, quindi svuotato di un chiaro significato, e comunque quasi sempre utilizzato a fini di polemica politica, per qualificare o, molto più spesso, squalificare l’avversario politico. L’àmbito semantico del termine rinvia a precise dottrine politiche ed economiche, ma anche alla crudezza di sentimenti come l’odio immediato per il diverso da sé o l’aperto razzismo. Alcuni sovranisti si dichiarano tali, in quanto il concetto di sovranità è inscritto nel dettato costituzionale dell’Italia repubblicana. Come noto, il secondo comma del primo articolo della Costituzione italiana recita: "L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (enfasi aggiunta). Molti di loro fanno riferimento a un vero e proprio pantheon" di maître à penser nostrani e stranieri, le cui opere, più o meno compulsate, più o meno comprese, avrebbero la pretesa di offrire le basi teoriche e tecniche a supporto delle proposte politiche sovraniste, in particolare di politica economica. Ma, come si vedrà nel séguito del testo, il ricorso alla scienza economica è, per i sovranisti, un mero esercizio retorico e tattico ai fini di propaganda: non essendo per nulla interessati all’analisi economica empirica (che considerano ideologica e che liquidano spicciamente e con solenne disprezzo di àrcadi con frasi del tipo le scienze sociali, inclusa l’economia, dicono tutto e il contrario di tutto) vestono la loro ideologia di dati rinvenuti qua e là nel web, e il cherry picking diventa abitudine inveterata, automatismo e vizio, convertendosi presto in perversione del pensiero. Secondo costoro, le proposte del sovranismo sarebbero quelle improntate a un radicale costituzionalismo, ossia a politiche (soprattutto economiche) la cui genuinità sarebbe garantita ipso facto dall’essere (dal pretendere d’essere) risultato diretto dell’applicazione della Costituzione (qualsiasi cosa voglia dire applicare una carta costituzionale, che è sì la prima legge dello Stato, ma in definitiva, in buona parte, una perorazione di princìpi, un insieme di obiettivi a cui tendere). In questo caso si parlerebbe quindi di sovranismo costituzionale.

    Questo particolare tipo di idealista non si approssima mai alla politica come dovrebbe fare qualsiasi persona assennata e accorta, ovverosia con cautela e i piedi ben affondati nei fatti e nella pragmatica risoluzione dei problemi. Al contrario, il comportamento immediato, passionale e spregiudicato, il temperamento irriflessivo e la ferma consapevolezza di avere in mano la verità, un passe-partout per risolvere tutti i problemi, ne fanno un Masaniello, un demagogo e un arruffapopolo inadatto a ricoprire qualsiasi carica, pubblica o privata, fosse anche la più infima.

    Il presente lavoro non è né un pamphlet polemico né un saggio di psicologia, di economia, di politica o di sociologia, ma qualcosa di tutti e cinque. Ha certamente limiti e difetti, tra questi appunto il rischio insito nell’eclettismo contenutistico. Sarà offerta una panoramica dei movimenti e partiti sovranisti, saranno fatti esempi di sovranisti notevoli. Si cercherà di individuare l’estrazione sociale dei sovranisti e la loro psicologia media. Si cercherà di descriverne il linguaggio e le teorie economiche. L’assunto fondamentale del testo è che l’offerta politica italiana, di oggi come di ieri, rientra tutta nello spettro sovranista: in Italia l’agire politico è stato sempre improntato alla relazione signore-politico elargitore di regalie e servo-cittadino che le chiede. Il sovranismo, così come lo fu il fascismo, è l’ennesima recrudescenza di questa condizione di arretratezza delle relazioni sociali e politiche del Paese, della sua mancata maturazione in senso compiutamente liberale.

    Il testo intende dimostrare come il sovranismo sia nient’altro che una declinazione del socialismo o, meglio, del rossobrunismo, o, se si vuole, del nazionalsocialismo. Nella categoria del rossobrunismo ricadono tutti coloro che, pur definendosi socialisti, comunisti o addirittura marxisti, si trovano ad avere più punti di convergenza con l’estrema destra cosiddetta antisistema che con la sinistra cosiddetta riformista. Un’ideologia, certamente; ma, ancor più profondamente, un abito psicologico che è endemico in Paesi in cui lo Stato è pletorico e asfissiante, come in molti Paesi del Mediterraneo e, in particolare, in Italia. Il sovranismo nei Paesi del Mediterraneo non potrà che assumere quasi sempre la forma di sovranismo socialista o guevarista o peronista, mentre quello (eventuale) dei Paesi anglosassoni si manifesterà sotto forma di indipendentismo (si pensi al Regno Unito), talvolta sfumato di leggera xenofobia, ma pur sempre sul solido spirito democratico, individualista e liberale di quei popoli. Il sovranismo socialista è, quindi, un fatto soprattutto latino. Ciò non toglie che tra i sovranisti latini non vi possano anche essere delle nuances razziste o xenofobe (come vi sono) e che tra gli (eventuali e più o meno sinceri) sovranisti anglosassoni non vi siano afflati socialisti. Nondimeno, il contenuto relativo alle due tendenze tra i due sovranismi sarà immancabilmente quello sopra delineato. Nel presente lavoro i termini sovranismo, rossobrunismo, neosocialismo, nazionalsocialismo, nazionalismo, neofascismo e populismo saranno spesso usati in modo quasi intercambiabile. Sebbene la semplificazione (tali tendenze ideologiche hanno retroterra storico-culturali differenti e, spesso, proposte apparentemente opposte in termini di contenuti, moventi, propositi e mezzi con cui ottenere gli obiettivi), tutte queste tendenze sono accomunate da scaturigini psicologiche comuni. In tutte si ravvisa il desiderio di annegare le contraddizioni e gli inevitabili scontri sociali nel mare indistinto di un’unanimità, ora rappresentata dal popolo come un tutto

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