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Che cosa non è la malattia mentale. Le derive del sistema psichiatrico istituzionale italiano
Che cosa non è la malattia mentale. Le derive del sistema psichiatrico istituzionale italiano
Che cosa non è la malattia mentale. Le derive del sistema psichiatrico istituzionale italiano
E-book180 pagine2 ore

Che cosa non è la malattia mentale. Le derive del sistema psichiatrico istituzionale italiano

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Info su questo ebook

L'autrice ci svela i lati oscuri del sistema psichiatrico istituzionale italiano odierno che, con il Trattamento Sanitario Obbligatorio, detiene uno strumento che spesso si trasforma in arma letale per il cittadino, le sue libertà e la sua dignità. Il libro intende scuotere le coscienze di tutti e fare del lettore il testimone della coercizione psichiatrica, di una prassi asservita alle case farmaceutiche, di una pseudoscienza medica complice di un ordine sociale e familiare, di una Legge, la 180, incustodita perché priva di figure di tutela, di dogmi scientisti che non sono altro che il surrogato dell'inquisizione, del male che diventa banalità, del totalitarismo che si traveste da paternalismo, di un'autorità arbitraria il cui controllo è sfuggito di mano. Un sistema psichiatrico che si fa beffe dei nostri diritti umani con un effetto collaterale gravissimo: "Nessuno deve pensare di esserne al riparo perché sano di mente".
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2018
ISBN9788827807873
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    Anteprima del libro

    Che cosa non è la malattia mentale. Le derive del sistema psichiatrico istituzionale italiano - Catterina Verona

    liberale.

    Capitolo 1.

    Come i desaparecidos.

    Ora, converrà fare qualche passo indietro; chiedo al lettore di immaginarmi non come una filosofa con gli strumenti dell’indagine filosofica, ma come una madre, commerciante, titolare di due negozi. Gestivo una merceria aperta nel 1993 a Brentonico e un negozio d’abbigliamento firmato uomo e donna, a Mori nel Trentino, aperto da poco più di quattro anni quando, un sabato mattina del novembre 2008, davanti al mio negozio di Mori si presentarono quattro vigili e due carabinieri per prelevare Luca, mio figlio che avevo chiuso nell’interno del mio esercizio commerciale perché questi uomini in divisa non lo prendessero.

    Luca era arrivato da me, correndo, ansimante, dicendomi:

    - Mamma, c’è uno scambio di persona, non ho fatto niente e mi vogliono portare via.

    Il tempo di rassicurare Luca con un sorriso allucinato e alzare gli occhi, e mi accorsi dei primi due vigili che stavano entrando nel viale che portava al negozio, seguiti, subito dopo, da altri due vigili.

    - Luca, resta qui, ci penso io!

    Ero spaventata a morte. Presi le chiavi della porta e chiusi Luca all’interno del locale. Appena fuori, vidi arrivare la macchina dei carabinieri con due militari.

    - Vi consegnerò mio figlio solo se mi dite cos’ha fatto.

    Tenevo strette le chiavi della porta in mano.

    - Suo figlio non ha fatto nulla, ma ci deve seguire.

    Avevo letto Isabel Allende¹⁴ e i suoi racconti sui desaparecidos, tutto quello che stavo vivendo in quegli istanti mi riportò a quei racconti. Com’era possibile che, in una democrazia, io potessi vivere questo? Tutti erano d’accordo nel dire che Luca non aveva fatto nulla perciò, per me, era un cittadino libero; questi uomini in divisa dovevano allontanarsi da noi, andare via dalle nostre vite e dalle nostre libertà. Non potevo sapere, in quel tempo ancora cullato da ingenuità, che anche nelle democrazie esistono poteri che, se lasciati fuori controllo, possono diventare sordidi, arbitrari, totalitaristici. Uno dei vigili urbani di Mori aveva in mano un documento e ben presto me ne mise a conoscenza: era un Accertamento Sanitario Obbligatorio, cioè un ASO¹⁵. Dopodiché, mi disse:

    - Lei, abbassi gli occhi quando mi parla!.

    Sentendo questa frase ebbi l’ultimo sussulto di ribellione perché, quando il mio avvocato al telefono mi spiegò che cosa era un ASO, non potei che convenire con Luca che era meglio recarsi al pronto soccorso di Rovereto e cedere a questi uomini in divisa, convinti tutti e due che sarebbe stato solo per una semplice formalità. Luca stava bene, io lo volevo a casa; per un’ingenuità che accompagna da sempre i nostri caratteri, è con un misto di fiducia e di dignità che da Mori ci mettemmo in viaggio per il pronto soccorso di Rovereto. Lì, Luca subì il suo terzo TSO. I due primi, mio figlio li aveva subiti mentre era a casa, dove viveva suo padre, con delle motivazioni che solo oggi, con la formazione e le conoscenze che ho, avrei potuto contrastare, ma in quegli anni, cosa ne sapevo di ASO e di TSO? Non mi ero nemmeno mai chiesta che differenza c’era tra uno psichiatra e uno psicologo. Nessuno durante l’attuazione dei precedenti TSO aveva ritenuto opportuno avvisarmi, lo venivo a sapere sempre a fatto compiuto, quando ormai Luca era già ricoverato e sedato. A quel punto ci trovavamo, Luca ed io, avvolti in una ragnatela e, come fa il ragno con le sue vittime, la psichiatria avvolgeva attorno a noi la sua bava sempre di più, come fa il boa con le sue vittime. La stretta psichiatrica era sempre più senza scampo, ma non potevamo rendercene conto.

    Luca non aveva fatto nulla per causare l’emissione di un TSO nei suoi confronti. C’era stata però la segnalazione del Comandante dei Carabinieri, operativo in un comune del Trentino, ai Carabinieri di Mori il giorno prima, solo perché Luca giocava a fare palle di neve aspettando la corriera per Rovereto. Quel carabiniere, vedendolo, aveva avvisato lo psichiatra di Rovereto e il comandante, suo collega, di Mori. Non essendoci però i presupposti per un TSO, lo psichiatra aveva chiesto un ASO, sapendo anche che il sindaco di Mori non avrebbe firmato una richiesta di TSO perché era in contatto con me, ma che sarebbe stato più facile far firmare tale richiesta al sindaco di Rovereto, che non conoscevo personalmente. Al lettore è dato sapere, per una maggiore comprensione e consapevolezza di come sia facile in Italia finire nelle maglie della coercizione psichiatrica, che il comandante dei Carabinieri di quel comune nel Trentino si era visto rifiutare da parte mia, tempo addietro, delle avances e così, per pura vendetta, Luca era diventato un suo bersaglio. Dai fatti riportati dai quotidiani italiani a proposito di molestie su donne da parte di carabinieri e dalla mia esperienza personale, mi viene da pensare che è meglio cedere a quelle molestie e farsi vedere compiacenti perché altrimenti si rischia la vendetta; infatti è stato così per me e Luca. Se quel giorno, quando il comandante, in caserma, mi fece vedere il suo pene in erezione, calandosi i pantaloni della tuta che indossava, invece di alzarmi e uscire da quel luogo indignata e schifata, avessi accettato le sue avances, cosa ne sarebbe oggi di Luca e di me? È un’eventualità che non sono mai riuscita a prendere in considerazione. Aggiungiamo a quel carabiniere uno psichiatra che non accettava che Luca fosse venuto a vivere da me, proprio perché volevo fare luce sui suoi due precedenti TSO ed evitare che ne subisse altri. Mettiamo assieme a quei due un padre accondiscendente, felice di affibbiare al proprio figlio, reo solo di non conformarsi alle sue aspettative, un’invalidità per malattia mentale e percepire la relativa pensione e la morsa è fatta, si tratta solo di stringere sempre più. Come potevo immaginare che questi personaggi, componenti della psichiatria, forze dell’ordine e, per finire quello che può solo che diventare un trio infernale per i cittadini, cioè i tribunali, andassero avanti indisturbati da anni, senza che mai nessuno avesse messo loro i bastoni tra le ruote, senza che mai nessuno si fosse preoccupato di capire perché non c’erano figure che tutelassero i cittadini italiani dai TSO? Perché a nessuno era venuto in mente di chiedersi com’era possibile che in una democrazia si potesse fermare un cittadino senza che quest’ultimo avesse commesso un reato, diagnosticarlo e riempirlo di psicofarmaci senza che gli fosse data la minima possibilità di un contradditorio, anche solo un avvocato? Mi sembrava di vivere un incubo. Quel giorno al Pronto Soccorso di Rovereto urlai con tutte le mie forze, sferrai una pedata allo psichiatra che chiese il TSO per Luca e offesi con tutta la mia anima la donna medico che firmò il TSO che privava Luca delle sue libertà; e questo senza nemmeno chiedersi cosa stesse facendo. Quella donna uscì dalla stanza in cui c’erano lo psichiatra e Luca dopo solo il tempo di apporre la sua firma; non ebbe il tempo di accertarsi di nulla. Se solo si fosse chiesta quello che stava facendo, si sarebbe ovviamente resa conto che Luca non aveva assolutamente bisogno di un Trattamento Sanitario Obbligatorio; era lucido e il suo comportamento era quello di tutti, anzi … Forse proprio lui rimase il più tranquillo di tutti. Questa donna, uscendo da quella stanza, osò guardarmi, sbuffando come a dire: Che cosa mi tocca fare oggi? Nessuno osa contrastare il comportamento degli psichiatri in Italia? Esternai una violenza verbale contro di lei che ancora oggi m’inquieta. La insultai in tutti i modi e feci l’elenco di tutte le parolacce di questo mondo, io che non avevo mai usato una parolaccia in vita mia. Non volevo che mio figlio fosse sedato e legato a un letto, volevo portarlo a casa nostra; non mi è stato possibile. Come non mi è mai stato possibile dimostrare che Luca, senza psicofarmaci in corpo, tornava ad avere comportamenti normali. Di questo avevano paura: che io riuscissi a tenere Luca abbastanza tempo senza assumere le loro sostanze per dimostrare che i suoi comportamenti sopra le righe erano dovuti proprio agli psicotropi che gli venivano prescritti e somministrati in modo coatto. Sarebbe bastato qualche giorno ancora per accertarsi che senza psicofarmaci Luca stava benissimo. E questo, suo padre, lo psichiatra e il maresciallo non lo volevano. Effettivamente, quel sabato mattina, ma già il venerdì, Luca aveva riacquistato tutta la sua lucidità. Avevo ricevuto, il lunedì precedente a quel TSO, sul mio cellulare, la sera tardi, una telefonata dello psichiatra che voleva sapere, in modo insistente, dov’era Luca. La cosa mi aveva parecchio infastidita. Ed è così che, il martedì mattina, quando una mia amica mi telefonò per dirmi che aveva visto Luca al Centro di Salute Mentale, cioè il CSM¹⁶ di Rovereto, completamente perso, che andava facendo discorsi assolutamente scuciti, mi infuriai. Era evidente per entrambe che quello stato di confusione in cui versava Luca era dovuto a una dose di psicofarmaci che lo psichiatra era riuscito a imporgli, sicuramente con la solita minaccia: se vuoi vivere da tuo padre, devi prendere la terapia. Chiusi il negozio e mi recai al CSM di Rovereto. Lì trovai Luca in uno stato robotico come non l’avevo mai visto. Riversai tutta la mia rabbia sullo psichiatra che l’aveva ridotto in quello stato, chiedendo a Luca di venire a vivere con me e minacciando lo psichiatra di essere denunciato se non ci lasciava in pace:

    Lei, deve dimenticare che esistiamo. Ora porto Luca a vivere da me e non voglio mai più sentire parlare della psichiatria di Rovereto, se no, la denuncio! La smetta di telefonare sul mio cellulare dopo le venti di sera per sapere dov’è mo figlio!

    Telefonai a Marco, mio compagno:

    - Marco, da oggi Luca viene a vivere con noi se no, lo perdo.

    Lo psichiatra telefonò al padre di Luca.

    - Signor Zenatti, c’è qui sua moglie che vuole portarsi via suo figlio.

    Ero incredula, non potevo credere a quello che stavo vivendo! Ma fino a dove poteva arrivare l’invadenza psichiatrica? Luca era maggiorenne, io ero sua madre, dovevamo rendere conto della nostra vita, delle nostre scelte a uno psichiatra? Veramente, non ci potevo credere!

    Suo marito ha detto che può portarselo via, che le dà anche gli alimenti.

    Per amor di verità, è bene precisare che quegli alimenti non li ho mai ricevuti; ma di cosa si impicciava quell’uomo? Luca era come uno straccetto, tutto mollo, che cosa gli aveva dato da assumere quel ciarlatano? Non potevo accettare la violenza che si stava svolgendo sotto i miei occhi e di cui Luca, mio figlio, era la vittima, e anch’io di conseguenza con lui. Per me era un crimine; ma quell’uomo esplicitava la sua prassi così liberamente che sembrava essere, se non legittima, almeno legittimata. Che cosa legittimava il fatto che un medico potesse imporre degli psicofarmaci, rendendo, per effetto di quelle sostanze, una persona incapace di ribellarsi, creare una connivenza con il genitore accondiscendente e una frattura con il genitore refrattario? Con gli studi e la capacità dialettica che mi hanno dato la Filosofia e il Diritto, saprei e so oggi come ridimensionare questi psichiatri, ma purtroppo, quel giorno, potei contare solo sul mio istinto di madre per rendermi conto che quello che stavamo vivendo era un abuso. Portai via quindi mio figlio da quel CSM, convinta di averlo finalmente tolto dalle grinfie di quello psichiatra, e che era bastata la mia o, per meglio dire, la nostra decisione di non tornare più per essere lasciati in pace. Prima di uscire dal quell’ufficio, lo psichiatra si rivolse ancora a Luca per l’ultima volta:

    - Luca, a quando fissiamo la prossima visita?

    - Mai più! Rispose Luca.

    - Faccio volare la sua agenda fuori dalla finestra, se non lascia in pace mio figlio.

    Ero furibonda! Riportai a casa mio figlio avendo la sensazione di viaggiare in macchina con un drogato. Non avevo un figlio che si drogava e me lo stava drogando la psichiatria italiana: era il colmo! Da quel martedì, Luca non assunse più nessuno psicofarmaco e io andai a trovare il maresciallo dei carabinieri di Mori per dirgli che Luca viveva con me. In quell’occasione, gli raccontai dell’episodio avvenuto al CSM di Rovereto, pregandolo di tollerare Luca se l’avesse visto, eventualmente, ballare in strada, cantare o parlare da solo giacché era stato sottoposto di nuovo a trattamenti psichiatrici mediante sostanze psicoattive. Quelle sostanze destabilizzavano Luca e quindi si poteva presumere di vederlo in preda a comportamenti strani. E poi, comunque, finché non faceva nulla di illegale, doveva essere lasciarlo libero. Ogni giorno che passava, effettivamente, Luca stava sempre meglio, riacquistava sempre più contatti con la realtà che lo circondava e, di conseguenza, riacquistava anche sempre più lucidità. Il senso di inadeguatezza dovuto all’assunzione degli psicofarmaci che lo sconnettevano

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