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Studium- I Giusti: storie e riflessioni: Rivista bimestrale 2017 (3)
Studium- I Giusti: storie e riflessioni: Rivista bimestrale 2017 (3)
Studium- I Giusti: storie e riflessioni: Rivista bimestrale 2017 (3)
E-book291 pagine4 ore

Studium- I Giusti: storie e riflessioni: Rivista bimestrale 2017 (3)

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Info su questo ebook

Vincenzo Cappelletti Università concreta ricchezza, Giuseppe Dalla Torre Sovranismo, Sante Maletta Introduzione, Ulianova Radice La Giornata europea dei Giusti, Pietro Kuciukian I Giusti Ottomani nel genocidio armeno, Maria Peri I Giusti italiani della Shoah, Vincenzo Rizzo Il Giusto in Dostoevskij, Saverio A. Matrangolo Il giusto come dissenso. Il caso Patočka, Marta Busani Da Gioventù Studentesca a Comunione e Liberazione. Cinquant’anni di dibattiti, Maria Teresa Antonia Morelli L’associazionismo del secondo dopoguerra: il ruolo del Centro Italiano Femminile, Mario Castellana Simone Weil e la scienza come preparazione alla libertà, Giuseppe Guglielmi Motivi teologici della metafisica di W. Pannenberg, Matthew Fforde The Brexit Referendum: a Popular Revolt of Social Conservatism?, Claudia Villa Un memoriale per Cangrande: l’epistola XIII (2), Alberto Barzanò Novità nella bibliografia scientifica di storia antica.

 
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2017
ISBN9788838246005
Studium- I Giusti: storie e riflessioni: Rivista bimestrale 2017 (3)

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    Studium- I Giusti - Marta Busani

    AA.VV.

    STUDIUM

    Rivista bimestrale - 2017 (3)

    ISBN: 9788838246005

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    EDITORIALE

    IL PUNTO

    SANTE MALETTA- I Giusti. Storie e riflessioni

    ULIANOVA RADICE- La Giornata europea dei Giusti

    1. L’appello per la Giornata europea dei Giusti e la ratifica del Parlamento europeo

    2. Il ruolo di Gariwo, la foresta dei Giusti

    3. Rendere utile la memoria

    4. Creare sinergie per la prevenzione dei crimini contro l’Umanità

    5. Perché una Giornata dedicata ai Giusti?

    6. Andare oltre

    PIETRO KUCIUKIAN-I Giusti Ottomani nel genocidio armeno

    MARIA PERI- I Giusti italiani della Shoah

    VINCENZO RIZZO-Il Giusto in Dostoevskij

    1. Processo giusto?

    2. Pretesa di Giustizia

    3. Essere giusti con Dostoevskij

    4. Giusto davanti a Dio: Dmitrij Karamazov

    SAVERIO A. MATRANGOLO-Il giusto come dissenso. Il caso Patočka

    1. La democrazia tradita. Tra sistemi post-totalitari e dissidenza

    2. Vivere nella verità. L’esempio di Patočka

    STORIA

    1. Le accuse di integrismo religioso e la crisi di Gioventù Studentesca

    2. Vent’anni di polemiche

    3. Gli anni Novanta e le interpretazioni della sociologia religiosa

    ​4. La storia di Gioventù Studentesca e il pensiero di don Giussani

    5. Gioventù Studentesca e la recezione del Concilio Vaticano II

    6. «Vogliamo essere i primi ad aprire al nostro tempo vie nuove» . Don Giussani e Giovanni Battista Montini nella diocesi ambrosiana

    MARIA TERESA ANTONIA MORELLI- L’associazionismo del secondo dopoguerra: il ruolo del Centro Italiano Femminile

    FILOSOFIA

    TEOLOGIA

    1. L’apporto della metafisica nella ricerca storico-critica: la conoscenza del fatto

    2. Escatologia e storia universale

    3. Rilievi conclusivi

    Conclusione

    OSSERVATORIO POLITICO

    MATTHEW FFORDE-The Brexit Referendum: a Popular Revolt of Social Conservatism?

    LECTURAE DANTIS. VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE

    1. Il principato cesareo

    RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-STORIA ANTICA

    Anno 113 - mag./giu. 2017 - n° 3

    studium - Rivista bimestrale

    A questo numero hanno collaborato:

    Giuseppe Dalla Torre, rettore emerito, Università LUMSA, Roma.

    Sante Maletta, professore associato di Filosofia politica, Università di Bergamo.

    Ulianova Radice, direttore della onlus Gariwo, La Foresta dei Giusti.

    Pietro Kuciukian, cofondatore della onlus Gariwo, La Foresta dei Giusti.

    Maria Peri, storica e saggista.

    Vincenzo Rizzo, dottore di ricerca in Filosofia, docente nei licei, cultore del pensiero filosofico russo.

    Saverio A. Matrangolo, dottore di ricerca e cultore della materia, Filosofia politica, Università di Bergamo.

    Marta Busani, dottore di ricerca, assegnista di ricerca in Storia contemporanea, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

    Maria Teresa Antonia Morelli, dottore di ricerca in Pensiero politico e comunicazione nella storia , Università di Teramo.

    Mario Castellana, professore associato di Storia della scienza, Università del Salento, Lecce.

    Giuseppe Guglielmi, docente di Antropologia teologica, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - Sez. S. Luigi (Napoli), e caporedattore della rivista Rassegna di Teologia.

    Matthew Fforde, ricercatore in Relazioni internazionali, Università Lumsa, Roma

    Claudia Villa, professore ordinario di Filologia medioevale e umanistica, Università di Bergamo e Università di Pisa.

    Alberto Barzanò, ricercatore confermato di Storia romana, Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia.

    EDITORIALE

    VINCENZO CAPPELLETTI- Università concreta ricchezza

    L’Università rischia la dimenticanza? I problemi sembrano essere altri, teorici e pratici, rispetto ai programmi, a tematiche di cui è stata compresa l’imprescindibilità rispetto a punti di vista sui quali parrebbe prevalsa l’obsolescenza del sapere. Chi frequenti le aule universitarie o anche soltanto ne raccolga echi di non sicura autorevolezza, il problema deve porselo. Si può prescindere da qualcosa di sostanziale, è raffigurabile un apprendere lacunoso, discontinuo, affidato alla curiosità e non alla scelta, e ancor prima alla convivenza sinottica del diverso?

    I devoti all’Università, quelli che vi hanno cercato e spesso trovato novità insospettate, implicazioni illuminanti, e all’opposto fondamenti fallaci almeno da rettificare a vantaggio dell’intero sapere, costoro formano un esercito – il termine può far sorridere, ma eccede assai meno di quanto sembri – che impedirà l’oblio, il passare accanto irridente e saccente.

    Proprio così. La scuola universitaria ha impartito lezioni che altri, dopo averle ascoltate, ha potuto convertire, a condizione di non opporvisi, in un’evidenza che potrebbe chiamarsi originaria o, ancor meglio, originante. Che la prassi o il cosiddetto modo di vivere possano rifiutarsi di rinunciare alla consapevolezza di un sapere che fornisce motivate risposte a quesiti semplicemente oggettivi, ai quali può se mai chiedersi la gradualità del chiedere, è legittimo e ovvio. Ma perché chiedere, se non ci fosse l’inevidente accanto all’ovvio e l’assoluto accanto al precario? L’Università, questo è vero, ne ha un imprescindibile bisogno. Chi tutto voglia relativizzare, si trova nell’impossibilità di esistere, che ha pur sempre la dignità di essere tale, e non puramente o semplicemente la casualità di un evento fortuito. E non basta restare quel che si è: occorre crescere, sollevare problemi, aver l’aria di lavorare contro i propri gusti e interessi. Comanda il pensiero, diciamolo francamente: «in principo erat Verbum » . Attenuare le cose, lasciar correre, semplificare è tutto fuorché una strategia che domani possa, anzi debba considerarsi vincente. È una sfida che subdolamente l’esistere tenta di imporre all’essere. Grandiosa parola, quest’ultima, con la quale affrontiamo il severo tribunale della coscienza.

    Che la nostra sia una militanza etica e non nozionistica, è la verità che ci fa degni di appartenere alla comunità universitaria. Legittima il nostro orgoglio, la scoperta accennata. Largo dunque al sapere, alla ricerca: termine dalle infinite vibrazioni, che ha avuto il privilegio di dare il nome alla nostra Rivista. Noi siamo gli epigoni di quella prima, sagacissima decisione: per la quale la superbia, l’arroganza, l’aver già concluso la propria missione, sono negate in radice. Altri ha lavorato per noi e ci ha dato non l’opposto del desiderio di sapere, ma la sua intensificazione. Siamo ricercatori della verità: l’unico termine, nell’ambito logico, che unisca alla seduzione del richiamo il fascino del perennemente incompiuto. Siamo ricercatori di verità: perennemente insodddisfatti, di tutto, fuorché del compito che umilmente abbiamo deciso di assicurarci. L’Università resti la nostra casa, abitata di sogni che si traducono in crescente ricchezza.

    Vincenzo Cappelletti

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE- Sovranismo

    Un orrendo neologismo, e suoi derivati, sta inflazionando da qualche tempo le pagine dei giornali e il dibattito pubblico: sovranismo.

    Il vocabolario on-line della Treccani attesta che si tratta di neologismo, di evidente derivazione dal francese, apparso sulla stampa già all’inizio del nuovo Millennio e lo definisce come la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione».

    Lasciando da parte gli aspetti linguistici, che si inseriscono nel noto processo di evoluzione ed al tempo stesso di impoverimento dell’italiano, ma che qui ed ora non interessano, giova invece soffermarsi sul fenomeno che il sovranismo sta ad indicare.

    Si tratta di fenomeno che costituisce la reazione al processo di globalizzazione avanzata che ormai caratterizza il nostro tempo. Le correnti politiche che in tutta Europa, ma ora anche nell’America di Trump, reclamano un recupero di sovranità da parte degli Stati, colgono ed esprimono sentimenti che sono sempre più evidenti nel corpo sociale. Si tratta di stati d’animo segnati in molta parte da chiara emotività, prodotti dalle ricadute negative della globalizzazione nella sfera degli interessi individuali e di gruppi, che non sempre e non necessariamente sono d’ordine economico. La globalizzazione è fenomeno dalle molte facce: come tutte le cose umane, accanto agli aspetti positivi reca con sé aspetti negativi, che sempre più spesso producono allarme sociale: un allarme sovente ingiustificato, o quantomeno parziale, perché non sembra cogliere le utilità che il fenomeno pure comporta e comunque non sembra bilanciare con oggettività i suoi effetti di diverso segno.

    In realtà sussiste una ragione più profonda dell’appello al sovranismo, che va al di là della questione delle mere utilità personali. È una ragione che va individuata nelle sfere dell’inconscio dell’individuo; che va colta nelle pieghe della psicologia sociale, che muove e commuove le collettività nelle quali l’individuo si trova inserito. A ben vedere, è una ragione che si può cogliere in un fenomeno connesso alla globalizzazione, la cui manifestazione è di più antica data rispetto alla rivendicazione di un recupero di sovranità: i localismi.

    È ormai da tempo che nel vecchio Continente si manifesta la tendenza a riguardare i problemi socio-economici e politici, ed a prospettarne le relative soluzioni, da un punto di vista strettamente locale, cioè limitato ad una piccola realtà sociale delimitata geograficamente. I localismi tendono a rivendicare le proprie tradizioni e la propria cultura, ad esaltare la propria identità accentuando la differenza con le altre identità sussistenti nella più grande realtà nazionale, a valorizzare le proprie radici, a potenziare le produzioni storicamente caratterizzanti il territorio. Si sono via via affermati movimenti politici tendenti a farsi carico di tali sentimenti, rivendicanti sempre più ampi spazi di autonomia rispetto allo Stato, se non addirittura l’indipendenza. La Catalogna e i Paesi Baschi in Spagna, Corsica e Bretagna in Francia, Scozia e Irlanda del nord nel Regno Unito costituiscono ormai degli esempi classici di localismo; ma si pensi alla vicenda singolare del Belgio, che da Stato unitario ha fatto il percorso a ritroso verso forme federalistiche per soddisfare le inquietudini di fiamminghi e valloni; si pensi alla irrequietezza di alcune popolazioni dell’est-Europa; si pensi al leghismo in Italia, con le utopiche rivendicazioni di una grande regione del nord-est.

    Ora, al di là delle differenze che si possono cogliere in tutte queste esperienze, legate a situazioni locali e storiche talora assai diverse, non pare arbitrario cogliere sottesa a tutte una identica ragione riconducibile alla psicologia collettiva: la reazione, inconscia, alla globalizzazione. A fronte del pericolo sempre più incombente di una sorta di omogeneizzato universale, frutto appunto di una globalizzazione che annienta le diverse identità appiattendo tutti in una cultura insapore, si comprende la reazione di quanti si attaccano alle proprie identità tradizionali. Per certi aspetti quanto più l’omogeneizzazione avanza, tanto più si avverte l’esigenza di salvaguardare la propria identità. Del resto non si dice, al punto di essere divenuto un luogo comune, che per far fronte in maniera saggia e positiva al fenomeno immigratorio – fenomeno epocale, inarrestabile, che però bisogna cercare di governare – occorre da parte delle comunità accoglienti una forte identità?

    Ma c’è una ragione più prossima, più concreta, più chiaramente percepibile per il reclamato sovranismo. Si tratta di una ragione che è legata al processo di unificazione europea che dipartitosi dai Trattati di Roma del 1957 ha portato alla costituzione dell’Unione Europea, con la progressiva aggregazione di più Stati e il progressivo allargamento delle competenze delle istituzioni europee.

    Soprattutto nei Paesi fondatori, o comunque in quelli di più antica adesione al nucleo originario, si avverte sempre più diffuso nel corpo sociale un atteggiamento di disamoramento, di disillusione, di critica, di distacco, addirittura di avversione nei confronti di una realtà di cui si percepiscono – ancora una volta – solo gli aspetti critici e gli effetti negativi incidenti sugli interessi particolari. Aspetti critici ed effetti negativi che certamente ci sono anche qui, come in tutte le cose umane, ma che sembrano vieppiù oggetto di una superfetazione, dimentica delle positività che il processo di unificazione europea ha sicuramente prodotto. Pare quasi che quanto più è lontana la memoria dell’adesione all’Unione, tanto più forti sono le dimenticanze dei benefici ottenuti: tutto al contrario di quanto accade per gli Stati di più recente aggregazione, i cui cittadini manifestano un prevalente senso di apprezzamento per l’appartenenza.

    Come è facile notare, quello della Brexit è divenuto un paradigma di riferimento per orientamenti politici che intendono raccogliere e farsi portatori delle istanze anti UE dei cittadini dei vari Paesi ad essa appartenenti.

    Dunque il sovranismo ha delle cause che si possono comprendere ed è frutto di apprensioni che, almeno in parte, si possono pure condividere. Il problema è che quella sovranista non è la reazione adeguata ed opportuna.

    L’idea di poter restaurare – o in altri casi mantenere – una sovranità nazionale, secondo gli antichi modelli, appare antistorica ed utopistica. Essa è frutto evidente, ma velenoso, della mancanza di cultura e sensibilità storica che segna una società, l’attuale, la quale non si rivolge al passato per costruire il futuro, ma si accontenta di guardare miopemente e provvedere modestamente al presente.

    Nel divenire della storia i processi si sviluppano senza soluzioni di continuità, nonostante le apparenze; le lancette della storia non si possono riportate all’indietro; i mutamenti culturali, sociali, economici, giuridici, politici sono tali, che non consentono restaurazioni. Queste possono nominalmente avvenire, ma nella sostanza sono sempre qualcosa di diverso dal passato. La restaurazione voluta dal Congresso di Vienna (1814-1815), intimamente divisa fra sentimenti di ritorno al passato o di compromesso con quanto trascorso, non ridiede vita alla realtà dell’ ancien régime; molti cambiamenti intercorsero, al di là delle intenzioni dichiarate, nella geo-politica. La Repubblica di Venezia e quella di Genova non furono resuscitate; i Cavalieri di Malta non riebbero l’isola da cui prendono il nome; nacque il regno dei Paesi Bassi. Molte altre novità nella geografia politica del vecchio continente videro la luce.

    La storia insegna anche che certi eventi epocali sono irresistibili. La potenza romana non riuscì, alla fine, a resistere alle invasioni barbariche, nonostante legioni e valli militari; allo stesso modo è illusorio frenare le invasioni dei nuovi barbari, ora che i popoli si sono rimessi in movimento verso luoghi in cui possono sperare in migliori – o possibili – condizioni di vita. La globalizzazione del modello di Stato liberale, che segue gli eccessi delle rivoluzioni di fine Settecento e l’autoritarismo delle baionette dell’ armée napoleonica, avviene nel continente europeo ed in quello americano nonostante i tentativi, molteplici, di reazione legittimista nei diversi Paesi.

    La storia è un libro aperto che mostra come certi processi vadano conosciuti, per essere governati, senza apporre inutili – e spesso dolorosi – contrasti.

    Ma nel moto sovranista c’è anche una gran dose di utopia, che fa immaginare il ritorno ad una società politica perfetta, o quantomeno più libera, più eguale, più dispensatrice di benessere a tutti.

    Non è così. Proprio la storia ci dimostra che la nascita dello Stato sovrano, con l’avvento dell’età moderna, ha nel tempo prodotto ben altro: l’assolutismo degli Stati del Seicento e del Settecento, che segnò la massima compressione della persona umana e dei suoi diritti da parte dell’autorità pubblica; l’astensionismo dello Stato liberale ottocentesco, economicamente ispirato a quel principio del laissez faire che favorì l’avvento di un capitalismo selvaggio, fonte di diseguaglianze e marginalità sociali mai viste; il totalitarismo degli Stati ideologici del Novecento, che fece conoscere la tragedia dei lager e dei gulag. La sovranità ha significato anche la pretesa dell’autorità politica di penetrare nelle coscienze dei sudditi-cittadini, imponendo loro che cosa credere o non credere (in senso religioso, ma anche in senso ideologico). Ad essa sono attribuibili secoli di guerre che hanno insanguinato il terreno dell’Europa.

    Anche qui, naturalmente, non tutto è male. La dinamica dei diritti umani scaturisce proprio dalla reazione alla compressione che lo stato sovrano, il quale per definizione non ha sopra di sé altra autorità o altra legge, neppure quella morale (è legibus solutus), esercita sulla persona umana. Il principio di sussidiarietà si afferma nel diritto pubblico per emancipare le comunità locali da un potere lontano e spesso non attento alle loro concrete esigenze, assicurando spazi di autonomia ed autogoverno.

    Ma non si può sognare la restaurazione di una sovranità degli Stati come panacea dei mali in cui oggi versiamo.

    Il sovranismo è utopia anche perché si può essere sovrani realmente, solo se si è capaci di piena autonomia; se si è capaci di controllare ogni fenomeno; se si riesce a restaurare confini – non solo in senso fisico – efficienti. L’idea di sovranità poggia sul principio di effettività. Ed invece nella realtà contemporanea nessuno Stato, anche il più grande e potente, riesce a controllare tutto ciò che si svolge sul proprio territorio. Più avanza la globalizzazione nei diversi ambiti – economia, scienza e tecnologia, sicurezza militare, cultura, ecologia ecc. –, più gli Stati perdono pezzi di sovranità.

    Non è difficile vedere come oggi i veri poteri sono altri, diversi rispetto a quello politico. L’economia è governata dalle grandi centrali finanziarie e dalle multinazionali, non dai parlamenti o dai governi; la distruzione della foresta amazzonica o la desertificazione dell’Africa centrale produce effetti anche nel nord del mondo, ma gli Stati chiusi nella propria sovranità nulla o quasi possono fare in merito; sulla grande rete internet, che ormai fascia tutto il globo, le autorità statali non riescono ad intervenire efficacemente.

    Anche su situazioni drammatiche come guerre tribali o genocidi si riesce a fare ben poco: l’impotenza dell’ONU è legata al fatto che non è un governo degli Stati, ma l’assemblea degli Stati sovrani, ognuno dei quali rivendica gelosamente la propria autorità sul proprio territorio e sul proprio popolo. Sicché il grandioso programma della Organizzazione, che ha come finalità la salvaguardia dei diritti umani e della pace, è troppo spesso stoppato dall’opposizione degli Stati, che si appellano alla disposizione del suo statuto che sancisce il principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati.

    In luogo del sovranismo, che vuole in sostanza eliminare tutte le forme di organizzazione della comunità politica al di sopra, ma spesso anche all’interno, dello Stato, i fenomeni della globalizzazione impongono un ampio e più profondo ripensamento delle forme politiche. Alle insensatezze delle derive disgregatrici – nell’Unione Europea, ma negli stessi Stati del vecchio continente –, si devono opporre progetti costruttivi e di integrazione di ampio respiro, a più livelli ed in più ambiti. Detto altrimenti, il sovranismo porta diritto diritto all’insignificanza politica a livello continentale e planetario, né è in grado di arrestare quei processi di globalizzazione cui nessun sovrano è più in grado di opporsi.

    Come ha detto papa Francesco ricevendo in udienza i capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, in occasione del sessantesimo della firma dei Trattati di Roma, «Nel generale allungamento delle prospettive di vita, sessant’anni sono oggi considerati il tempo della piena maturità. Un’età cruciale nella quale ancora una volta si è chiamati a mettersi in discussione. Anche l’Unione Europea è chiamata oggi a mettersi in discussione, a curare gli inevitabili acciacchi che vengono con gli anni e a trovare percorsi nuovi per proseguire il proprio cammino. A differenza però di un essere umano di sessant’anni, l’Unione Europea non ha davanti a sé un’inevitabile vecchiaia, ma la possibilità di una nuova giovinezza. Il suo successo dipenderà dalla volontà di lavorare ancora una volta insieme e dalla voglia di scommettere sul futuro». Ed ha aggiunto: «A Voi, in quanto leader, spetterà discernere la via di un nuovo umanesimo europeo fatto di ideali e concretezza. Ciò significa non avere paura di assumere decisioni efficaci, in grado di rispondere ai problemi reali delle persone e di resistere alla prova del tempo».

    Parlava ovviamente dell’Unione Europea, ma può essere inteso come un invito rivolto a tutti coloro che hanno responsabilità per il futuro dell’intera comunità umana.

    Giuseppe Dalla Torre

    SANTE MALETTA- I Giusti. Storie e riflessioni

    Introduzione

    Quello del giusto – dell’essere umano giusto – è un tema difficilmente maneggiabile e in ultima istanza concettualmente imprendibile . Chi può dire di un essere umano che è giusto, se non Dio? I contributi presentati in questo dossier intendono muoversi su questo piano scivoloso tenendosi aggrappati alle biografie di giusti, ai casi storici di donne e uomini con una fisionomia ben definita, anche se abitati da un ultimo segreto.

    La concretezza delle vicende particolari ha sfidato i non molti studiosi che, a partire dalla seconda metà del Novecento, hanno cercato di comprendere il fenomeno dei giusti attraverso gli strumenti concettuali tipici delle scienze umane. Focalizziamoci sul caso più studiato, quello di coloro che aiutarono gli ebrei durante la Shoah. Si tratta di un tema a cui anche il grande pubblico ha avuto accesso grazie soprattutto alla pellicola di Steven Spielberg Schindler’s List (1993). La Commissione appositamente istituita dallo Yad Vashem di Gerusalemme per assegnare il titolo di giusto tra le nazioni alla fine del 2015 riconosceva ufficialmente 26.120 giusti. Ma il loro numero è destinato a salire ulteriormente e comunque non comprenderà mai tutti i casi. Che cosa accomuna tutte queste persone tra loro? Ci sono giusti di tutte le età e di entrambi i sessi. L’estrazione sociale è varia, anche se sembrano più diffuse le umili origini. Ci sono analfabeti e laureati; semplici cittadini e funzionari statali anche di alto livello; atei, agnostici e religiosi; cristiani e musulmani (i casi di ebrei che hanno aiutato altri ebrei non sono contemplati); progressisti e conservatori, radicali e moderati. Sembra quindi che la sociologia non fornisca efficaci strumenti esplicativi.

    Per quanto più complesso e metodologicamente problematico da perseguire, l’approccio della

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