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Studium - Desideri, figli, gender
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E-book272 pagine3 ore

Studium - Desideri, figli, gender

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Info su questo ebook

In un'epoca che soffre di eccesso di informazione, in larga misura omologata, la rivista segue in profondità filoni essenziali del pensiero, lo stretto rapporto tra scienza e filosofia, l'evoluzione della società, con sensibilità storica e aderenza a valori ideali perenni. Dà voce inoltre a momenti alti della letteratura e della spiritualità, ponendo in luce le ragioni della speranza nella complessità del nostro tempo.

Mario Belardinelli: 110° anniversario di Studium

Giuseppe Dalla Torre: Legalità

Desideri, figli, gender. A cura di Massimo Borghesi

Adriano Pessina: Il controverso figlio del desiderio. La de-generazione

Massimo Borghesi: Femminismo e utero in affitto. Due anime della sinistra a confronto

Laura Palazzani: I disturbi della differenziazione sessuale e l'intersessualità: una questione gender tra teoria e prassi

Giacomo Scanzi: Giorgio Rumi e il caso Brescia

Mario Belardinelli: Ricordo di Fausto Fonzi

Fabio Piemonte: L'aequitas come criterio di giustizia nel pensiero di san Tommaso d'Aquino

Sergio Novani: L'epistemologia della paura della morte

Giorgio Campanini: Dopo la cristianità. Gli ottant'anni di Umanesimo integrale

Claudia Villa: Il pastore "senza legge" e l'applicazione delle leggi canoniche in Inferno XIX

Osservatorio politico. A cura di Paolo Carusi

Antonio Scornajenghi: Il Papa e l'Italia. Da Pio IX a Francesco

Rassegna bibliografica-letteratura. A cura di Giuseppe Leonelli

Domenico Bilotti, Federico Zamengo, Gabriella Seveso, Stefano Zamagni: La Nostra Biblioteca
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2016
ISBN9788838244797
Studium - Desideri, figli, gender

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    Studium - Desideri, figli, gender - Domenico Bilotti

    Mario Belardinelli, Domenico Bilotti, Massimo Borghesi, Giorgio Campanini, Giuseppe Dalla Torre, Sergio Novani, Laura Palazzani, Adriano Pessina, Fabio Piemonte, Giacomo Scanzi, Antonio Scornajenghi, Gabriella Seveso, Claudia Villa, Stefano Zamagni, Federico Zamengo

    Desideri, figli, gender

    ISBN: 9788838244797

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    MARIO BELARDINELLI. 110° anniversario di Studium

    Incominciando

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Legalità

    Desideri, figli, gender. A cura di Massimo Borghesi

    ADRIANO PESSINA. Il controverso figlio del desiderio. La de-generazione

    MASSIMO BORGHESI. Femminismo e utero in affitto. Due anime della sinistra a confronto

    LAURA PALAZZANI. I disturbi della differenziazione sessuale e l'intersessualità: una questione gender tra teoria e prassi

    STORIA

    GIACOMO SCANZI. Giorgio Rumi e il caso Brescia

    MARIO BELARDINELLI. Ricordo di Fausto Fonzi

    FILOSOFIA

    FABIO PIEMONTE. L'aequitas come criterio di giustizia nel pensiero di san Tommaso d'Aquino

    SERGIO NOVANI. L'epistemologia della paura della morte

    ANNIVERSARI

    GIORGIO CAMPANINI. Dopo la cristianità. Gli ottant'anni di Umanesimo integrale

    LECTURAE DANTIS VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE

    CALUDIA VILLA. Il pastore senza legge e l'applicazione delle leggi canoniche in Inferno XIX

    OSSERVATORIO POLITICO. A cura di Paolo Carusi

    ANTONIO SCORNAJENGHI. Il papa e l'Italia. Da Pio IX a Francesco

    RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-LETTERATURA. A cura di Giuseppe Leonelli

    LA NOSTRA BIBLIOTECA

    Domenico Bilotti

    Federico Zamengo

    Gabriella Seveso

    Stefano Zamagni

    A questo numero hanno collaborato:

    MARIO BELARDINELLI, professore ordinario di Storia contemporanea, Università Roma Roma Tre.

    GIUSEPPE DALLA TORRE, rettore emerito, Università LUMSA, Roma.

    MASSIMO BORGHESI, professore ordinario di Filosofia morale, Università di Perugia.

    ADRIANO PESSINA, professore ordinario di Filosofia Morale, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica.

    LAURA PALAZZANI, professore ordinario di Filosofia del Diritto, Università LUMSA, Roma; Vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica.

    GIACOMO SCANZI, direttore editoriale del Gruppo Editoriale Bresciana.

    FABIO PIEMONTE, dottore di ricerca in Storia della filosofia medioevale, Università di Salerno.

    SERGIO NOVANI, Professore di Logica e Filosofia della scienza, Epistemologia e Psicologia, Istituto Privato Universitario Svizzero, IPUS (Private Swiss University Institute), Chiasso.

    GIORGIO CAMPANINI, professore di Storia delle dottrine politiche, Università di Parma.

    CLAUDIA VILLA, professore ordinario di Filologia medioevale e umanistica, Università di Bergamo e Università di Pisa.

    ANTONIO SCORNAJENGHI, ricercatore di Storia contemporanea, Università Roma Tre.

    MARIO BELARDINELLI. 110° anniversario di Studium

    Il 15 gennaio 1906 esce il primo numero di Studium. Rivista universitaria, introdotto dall’articolo Incominciando, pubblicato a seguire, e firmato La Redazione. Fondatore della Rivista e redattore capo era Mario Augusto Martini, animatore del circolo universitario fiorentino e presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana: non designato dall’alto, ma eletto nel Congresso di Firenze del maggio 1905 (Martini sarebbe poi divenuto deputato del Partito Popolare Italiano, membro della nuova Democrazia Cristiana e della Resistenza). Come appare chiaro dall’esposizione programmatica, l’impegno culturale che ispira la Rivista (capire la realtà attraverso la scienza, connettendola alla Fede della nostra vita, e agire in un’Università legata alla vita intensa della nostra giovane nazione) si colloca in un quadro di svolta nell’attività cattolica laicale organizzata. Mentre si rivendica indipendenza rispetto a schieramenti di partito, si intende sottrarsi al ruolo di semplice organo di Istituzioni cattoliche (vincolate al controllo dell’autorità ecclesiastica) e si accetta senza riserve l’unità nazionale. Emerge un’affermazione di autonomia del laicato in politica e nella ricerca che, manifestata in un momento critico della vita religiosa italiana, porta ad accuse di tendenze moderniste da parte di ambienti integralisti, insospettiti dalla presenza in questo primo numero di articoli di padre Semeria (Germania docet) e del vescovo conciliatorista di Cremona Bonomelli (Ai giovani universitari cattolici). In realtà Studium, distanziandosi da posizioni politiche clericali, non apriva ad innovazioni dottrinali, ma portava avanti un suo discorso di attenzione al mondo contemporaneo in campo culturale e di responsabilità delle scelte in campo profano.

    Mario Belardinelli

    Incominciando

    Le consuete parole di prefazione s’impongono a noi in questo primo numero della Rivista, perché divengono una dichiarazione del programma, che Studium intende svolgere nella vita che si augura e spera lunga e feconda.

    Chiamati dalla fiducia dei nostri consoci della Federazione Universitaria Cattolica d’Italia a dare una pubblicazione periodica, noi pensammo con essi che la nuova pubblicazione non dovesse restringersi in un campo di partito come semplice organo di Istituzioni cattoliche, ma dovesse entrare in un campo di cultura, ben più vasto e più aperto dell’altro. In questo – noi abbiamo pensato – da un lato possono esercitarsi le attitudini più varie e gl’ingegni e le forze di tutti con serenità, e con utilità maggiore, dall’altro (come è sicura fiducia e convinzione nostra) tutto ciò che è metodo e ritrovato veramente di scienza si armonizza senza dubbio in rapporti più o meno diretti con ciò che è il substrato della nostra coscienza, la Fede della nostra vita. – Questo centro di cultura volemmo poi che fosse universitario, non tanto perché emana da Universitari ma perché anche vuole raggruppare intorno al massimo Istituto della nostra cultura nazionale tutta quanta la sua attività. È forse ora l’Università accosto alla vita intensa della nostra giovane nazione? piuttosto è da credersi che l’Università ne è spesse volte estranea; sconosciute spesso le indagini e il valore di quei valenti, che sono molti nei nostri Istituti ad insegnare con intelletto e con amore, estranei alla sua vita gli studenti che spesso cercano altrove l’alimento del pensiero che allora si forma. Il consenso di discepoli intorno ad una cattedra di Maestro, nel fervido lavoro di seminari e laboratori scientifici, il seguito di pubblicazioni di studenti e di ricerche particolari fatte da loro (spesso così utili al lavoro della scienza), quel corporativismo simpatico, che intorno all’Accademia ha agitato in altri tempi, e, ancora, in altre nazioni lo spirito goliardico dei giovani, la simpatica fratellanza della famiglia universitaria, – questi, ed anche altri, sono fatti rari nei nostri Annali della scuola. – Ora se è da prepararle un avvenire migliore, il merito di crearlo non sarà certo dovuto né ai desiderati né all’opera d’individui o d’istituzioni; come tutti i grandi fatti, sarà l’opera della coscienza progressiva di tutti; ma intanto noi vogliamo dare a quest’opera, colle nostre Istituzioni con questa Rivista un contributo modesto, ma volenteroso, lieti se un giorno potremo nascondere l’opera nostra in un resultato, a cui abbiano cooperato quanti amano la forza d’Italia e i destini della più grande nazione latina. – Con questi intenti Studium entra nel suo primo anno di vita, come rivista di cultura universitaria.

    Non facciamo promesse sopra il modo col quale da noi si tenterà di raggiungere lo scopo; l’opera nostra sarà la più vera dimostrazione dei propositi che ci animano, delle cure sempre crescenti che da questo primo numero – ancora (lo confessiamo) incompleto – dedicheremo alla nostra Rivista. Le due parti principali di cui Studium è composto (Articoli di letteratura, arte, scienze; – Nelle Università e nelle scuole) rispondono al duplice concetto, di svolgere ampiamente nell’una la parte metodica degli studi e di dare una cognizione ampia ed esatta dell’attività universitaria, nell’altra più generale di accogliere studi originali compiuti da professori universitari, da studenti, dai migliori nostri scrittori e di tenerci per questo mezzo al corrente delle questioni intellettuali più interessanti. – Intanto ringraziamo vivamente gl’insigni collaboratori che hanno dimostrato fra tante difficoltà una seria fiducia in quest’opera, e i corrispondenti che dall’Università nostre e dall’Estero seguiteranno nei numeri successivi e formare le nostre Cronache; speriamo nella cooperazione degli uni e degli altri, e in quella del lettore, per molte ragioni collaboratore anch’esso prezioso di ogni pubblicazione periodica.

    LA REDAZIONE

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Legalità

    Pensavamo che quella di mani pulite fosse ormai una stagione passata, relegata negli archivi della memoria, nei fascicoli polverosi accatastati in depositi degli uffici giudiziari, nella storia politica del nostro Paese. Una stagione che riporta agli anni Novanta del secolo scorso, al tramonto della cosiddetta Prima Repubblica, al declino delle forme della politica che si erano affermate con l’esperienza democratica nel secondo dopoguerra. Una stagione in cui le Procure avevano impugnato rudemente la ramazza, per fare pulizia in un contesto di illegalità che era venuto crescendo. Un’opera meritoria, anche se – occorre pur dirlo – non priva di eccessi e di errori, non di rado svelatisi tardivamente, con i suoi roghi mass-mediatici e con le sue vittime.

    Singolare dover constatare che quell’espressione mani pulite, coniata da un importante uomo politico della Repubblica nata dalla resistenza, Giorgio Amendola, in una polemica degli anni Settanta sull’onestà degli amministratori pubblici locali del PCI, dovesse segnare proprio il momento della fine del sistema politico-partitico nel quale era nata.

    Dunque: pensavamo che quella di mani pulite fosse una stagione ormai alle spalle. Con gli avvenimenti degli ultimi tempi dobbiamo invece, con sorpresa e rammarico, prendere atto che sta tornando o, forse, non è mai stata superata. La grande criminalità organizzata che spadroneggia da molte parti, le pericolose collusioni fra criminalità e politica, poteri finanziari che si sentono al di sopra di tutto, la debolezza delle reazioni istituzionali alle sistematiche violazioni delle leggi, la stessa consistenza del fenomeno della micro-criminalità, fanno percepire sempre più al cittadino il senso di una legalità insidiata e sfrangiata. Tra l’altro, con gravi conseguenze diseducative nel corpo sociale, sia perché l’impunità induce con maggior audacia a contravvenire alle regole, sia perché l’uomo comune non di rado teme le reazioni della criminalità nei confronti di chi intende prestare il giusto ossequio alla legge.

    Come noto il termine legalità viene ad indicare, in via generale, la conformità dell’agire umano al diritto contenuto nella legge. Ciò vale per la comunità umana, nelle singole persone che la costituiscono e nelle formazioni sociali in cui esse sono organizzate; ciò vale, in un ordinamento democratico, in uno Stato di diritto, per coloro che sono investiti di potere pubblico, i quali sono chiamati ad agire non arbitrariamente, ma all’interno dello spazio normativamente definito, quindi nel rigoroso rispetto dei limiti che la legge pone.

    Altrettanto noto è che il termine legalità si distingue dalla legittimità, parola con cui si fa riferimento al fondamento del potere. Con la consueta chiarezza Norberto Bobbio diceva: «un potere legittimo è un potere il cui titolo è giuridicamente fondato, un potere legale è un potere che viene esercitato secondo le leggi».

    La distinzione tra legalità e legittimità può peraltro avere un altro significato. Nel senso che agire legalmente sta a significare agire secondo la legge, mentre agire legittimamente può significare agire secondo giustizia. In questo caso la distinzione tra legalità e legittimità entra in rilievo nel momento in cui la legge, cioè la regola giuridica posta dal legislatore positivo, non sia giusta, cioè sia contraria al diritto; con la conseguenza che l’agire nel rispetto della legge, se è legale, non è legittimo. Ciò significa che, nel contrasto tra legalità e legittimità, il comportamento dell’agente che voglia essere giuridicamente giusto ed eticamente buono debba consistere nella disobbedienza alla legge positiva. Si apre qui il capitolo, delicato e complesso, delle varie forme di disobbedienza alla legge, di contravvenzione alla legalità, di cui l’obiezione di coscienza – fenomeno in crescita nell’odierna società pluralistica – è una delle espressioni maggiormente rilevanti.

    Ma torniamo alla crisi della legalità. Questa scaturisce da molti fattori, dei quali alcuni vanno sottolineati.

    Un primo è a ricercarsi proprio sul terreno normativo. La superfetazione del nostro ordinamento giuridico, pieno di leggi non sempre chiare, spesso contraddittorie, non senza lacune, non facilita certo un ordinato svolgersi della vita sociale entro parametri giuridicamente definiti. All’onesto rimane talora difficile, se non arduo, muoversi nei labirinti di una normativa, resi spesso ancora più oscuri ed impenetrabili da un incomprensibile burocratese. Si pensi esemplarmente in materia fiscale, dove la pluralità di norme, la complessità delle modulistiche, la pluralità delle scadenze, induce a pensare che lo Stato non solo toglie una parte non effimera del reddito individuale, cosa già in sé non indolore; ma lo toglie anche nel modo più tormentoso possibile.

    Per il disonesto, viceversa, il marasma normativo è occasione ghiotta per sottrarsi alla legalità, celando i propri comportamenti nella giungla intricata di comandi legali. Come si legge in un, ancora attualissimo, documento pubblicato il 4 ottobre 1991 dalla Commissione Giustizia e Pace della Conferenza Episcopale Italiana e intitolato Educare alla legalità, è necessario stabilire norme che garantiscano una buona convivenza perché, in assenza di una normativa chiara, «la forza tende a prevalere sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto». Con la conseguenza, tra l’altro, della messa a rischio della stessa libertà individuale e collettiva.

    Spesso manca, nella formazione delle norme, quella trasparenza dei processi di elaborazione e scrittura che sarebbe necessaria, e senza la quale lobby ed azioni lobbistiche di vario genere sviano la produzione normativa dall’obiettivo dell’interesse generale.

    Se poi dai profili formali si scende alla sostanza, vien fatto di domandarsi se non esista una correlazione fra indebolimento della legalità e sussistenza di provvedimenti normativi nei quali l’obiettivo fondamentale e imprescindibile del bene comune è assente o fiocamente rappresentato, nei quali la direttiva costituzionale dell’eguaglianza in senso sostanziale è dimenticata, nei quali la prioritaria esigenza di tutelare i più fragili è accantonata, nei quali è resa difficile, se non impossibile, a tutti, e specialmente ai più deboli, l’efficace tutela dei propri diritti.

    Sul piano dell’esperienza giuridica, poi, è di comune osservazione che la reattività delle istituzioni alle violazioni delle norme è non di rado lenta, occasionale, rapsodica, diseguale.

    Meno percepito un fenomeno che pure ha una sua consistenza. Il riferimento è allo scarto tra il diritto scritto ed il diritto vivente, che evidentemente inficia – a cominciare a livello di psicopedagogia di massa – il senso della legalità e della necessità di agire secondo quanto prescritto dalla legge. Si tratta di uno scarto in cui, paradossalmente, anche la giurisprudenza può avere una responsabilità.

    Nella scorsa estate un dibattito si è sviluppato sulle colonne del maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera sul tema della cosiddetta giurisprudenza creativa. Così ad esempio un autorevole costituzionalista, Michele Ainis, denunciava l’assenteismo della politica italiana sui grandi temi emergenti, con la conseguenza un vuoto normativo insopportabile e superato dal sempre più accentuato interventismo dei giudici. Da parte sua un sociologo altrettanto autorevole, Giuseppe De Rita, notava che la funzione giurisprudenziale sta prendendo il sopravvento su quella legislativa, osservando acutamente che quella che un tempo era una strategia minoritaria praticata dai radicali, ora è divenuta una importante tendenza di massa. In sostanza il primo, da giurista, sottolineava come i giudici non possano non rispondere alle domande di giustizia loro rivolte; il secondo, da sociologo, si soffermava sul fatto che il crescente ruolo giurisprudenziale è risposta al crescente dominio del concetto di equità, ormai un comandamento sociale primario.

    Come osservavo in un commento su Avvenire, si tratta di analisi certamente condivisibili, che dovrebbero far riflettere i politici italiani: sul loro ruolo, sulle abdicazioni a quanto ci si attenderebbe da loro, più in generale sulle effimere derive della politica.

    Qui però si impone un’altra osservazione. La denunciata iperfetazione della funzione giurisprudenziale sulla politica, senz’altro patologica rispetto a quel bilanciamento dei poteri che è requisito di una sana democrazia, finisce per avere anch’essa una influenza nell’orientare il sentire del cittadino circa la imperatività della legge.

    Giova notare al riguardo che in molti casi la giurisprudenza non si limita a colmare un vuoto legislativo e quindi a supplire alla inattività del legislatore di fronte a fenomeni nuovi non normati, ma si allarga a creare diritto; le sentenze creative non si contengono nel colmare un vuoto, ma producono diritto disapplicando o innovando il diritto vigente.

    Gli esempi al riguardo potrebbero essere tanti: come in materia di alimentazione forzata a persone in stato vegetativo, di procreazione medicalmente assistita, di matrimonio tra persone dello stesso sesso, di adozione da parte di omosessuali, fino alla giurisprudenza innovativa della Cassazione in materia di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni canonici. In tutti questi casi, ed altri ancora, la giurisprudenza non ha creato la norma inesistente, non ha colmato il vuoto giuridico, ma ha disatteso la normativa vigente sostituendosi al legislatore.

    Dal punto di vista costituzionale si potrebbe osservare che il secondo comma dell’art. 101 Cost. recita: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Dunque non soggiacciono ad altri poteri ed autorità, ma alla legge sì. È noto, ancora, che le leggi sono il frutto di un ampio dibattito nelle aule parlamentari e nel Paese, costituendo così convergenza del volere dei più intorno a regole condivise, cosa che non è possibile ai giudici. D’altra parte i parlamentari rispondono del loro operato agli elettori, mentre – e giustamente – i giudici sono sottratti a qualsiasi controllo, che non sia quello interno e proprio alla giurisdizione.

    Ciò che qui si vuole sottolineare è però altro. Ed è connesso alla ricordata, giusta osservazione di De Rita: quella che un tempo era una strategia minoritaria praticata dai radicali, ora è divenuta una importante tendenza di massa. Vale a dire la strategia della volontaria, pubblica, pubblicizzata violazione della legge per ottenerne l’abrogazione o la radicale modifica. La ricordiamo tutti tale strategia: dall’aborto all’assunzione e distribuzione di sostanze stupefacenti.

    Insomma: si è venuto sviluppando un sentire per cui, per il cambiamento delle leggi può ritenersi giustificato il ricorso alla loro violazione. Sentire pericoloso, perché insidiante in maniera quasi impercettibile la coscienza, in generale, della doverosità del rispetto della legge giusta.

    E qui si tocca, conclusivamente, un punto fondamentale: quello della educazione alla legalità.

    Si tratta di un aspetto importante perché l’ordinato e pacifico vivere sociale presuppone un diritto garante e regolatore delle spettanze di ciascuno e del bene di tutti. Ma anche perché – e questo è un dato di comune esperienza – l’effettività del rispetto della legge riposa, in definitiva, nella coscienza di ogni persona; lì trova il fondamento più solido. Se la stragrande maggioranza delle persone osserva le norme penali che puniscono l’omicidio o il furto, ciò non è solo per ossequio formale alla legge, ma anche e soprattutto perché quelle norme trovano riscontro e fondamento nella coscienza morale di ciascuno. Tant’è vero che il timore dei carabinieri, dei giudici, delle sanzioni penali, non ha mai dissuaso le coscienze traviate della criminalità dalle loro azioni illegali.

    Si pone dunque un problema di educazione, che interpella in maniera particolare le agenzie educative per eccellenza: la famiglia, la scuola, le comunità religiose. Ma anche tutti quei soggetti pubblici i quali, con le loro parole od i loro comportamenti, hanno oggettivamente la forza di incidere sul costume e di plasmarlo. E sotto questo profilo, di nuovo, i politici hanno una particolare responsabilità.

    Di recente un uomo politico di rilevanza nazionale, che con il suo compagno ha adottato un bambino nato all’estero con la tecnica del cosiddetto utero in affitto, ha pubblicamente giustificato il suo comportamento contra legem dicendo: «Uso provocatoriamente questo mio sogno contro la pigrizia della politica sul tema dei diritti civili». Non è un caso isolato: i viaggi all’estero per realizzare desideri, pretesi come diritti negati in Italia dicono che siano frequenti (a vantaggio però dei soli abbienti). Ma abbiamo visto anche primi cittadini di alcune tra le più importanti città italiane sbandierare pubblicamente la istituzione, contro la legge e al di là di ogni loro competenza, di registri di unioni civili o la registrazione di matrimoni tra persone dello stesso sesso.

    È da domandarsi: sono positivi questi comportamenti? Favoriscono il senso di legalità o invece costituiscono un forte fattore della sua destrutturazione nelle coscienze?

    Certamente più apprezzabile, in ogni senso, sarebbe stato un atteggiamento ispirato alla seguente linea di pensiero: mi batterò perché la legge

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