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Donne Pirata. Vite ribelli sul mare
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E-book365 pagine5 ore

Donne Pirata. Vite ribelli sul mare

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Info su questo ebook

Tradizionalmente, la storia dei pirati è incentrata sui leggendari predoni del mare attivi in Europa e nelle Americhe tra il XVI e il XVIII secolo. In realtà, pirati e corsari operarono in ogni tempo e in ogni mare, dalle isole britanniche al sud est asiatico, dal Mediterraneo alla Scandinavia, dai Caraibi all'emisfero australe.Tra di loro non vi furono solo omaccioni rozzi e barbuti ma anche donne che lasciarono la terraferma e scelsero il mare come spazio e strumento di emancipazione e di realizzazione individuale, salvandosi così da una vita subordinata, spesso misera o, semplicemente, noiosa. Ribelli, impavide e spregiudicate, forzarono il loro destino e non esitarono a ricorrere alla strategia, alla violenza e alla guerra per diventare protagoniste della loro esistenza. Per la libertà personale o del loro Paese, per sete di vendetta o di potere, per amore di un uomo o per puro piacere dell'avventura, le donne pirata hanno disubbidito, sfidato le leggi degli uomini e combattuto fino alla fine dei loro giorni. Talvolta vincendo, talvolta perdendo persino la vita ma senza mai rinunciare alla loro natura profonda e ai loro sogni di indipendenza. Regine,contadine, galeotte o prostitute, quelle donne forti, audaci e rivoluzionarie meritano che le loro vite siano sottratte al silenzio dell'oblio in cui sono rimaste per secoli, e che le loro storie siano, finalmente, raccontate.
LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2022
ISBN9791221432381
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    Anteprima del libro

    Donne Pirata. Vite ribelli sul mare - Rosaria Guerra

    1.

    La stratega di Alicarnasso

    Artemisia

    Turchia. VI-V secolo a.C.

    Lo storico greco Erodoto ci tramanda il nome e le avventurose gesta di una comandante di vascello che in tempi antichi si distinse per le sue abilità militari sulle acque del Mar Egeo al punto da guadagnarsi una taglia sulla testa con l’accusa di pirateria. Artemisia era originaria di Alicarnasso - l’attuale Bodrum - in Turchia, nella regione della Caria, al tempo colonia greca sotto il dominio dei persiani. Sua madre era una donna di stirpe cretese e suo padre, Lygdamis, ricopriva il ruolo di satrapo di Alicarnasso, ovvero il governatore cariano dell'impero persiano in Asia minore durante il regno di Dario I.

    Il nome di Artemisia deriva da Artemide, dèa della foresta e della caccia ma Erodoto la tramanda ai posteri con l’appellativo onorifico di «ebasíleuse» cioè regina, che in qualità di alleato di Serse I, prese parte alla spedizione persiana contro la Grecia nel 480 a.C. Lo storico non nasconde l’ammirazione che nutre per questa donna straordinaria, sua concittadina, e ne elogia le capacità di comandante e di stratega militare nelle battaglie che si combatterono tra le onde di quell’antico mare color del vino.

    Alla morte del marito, la cui identità è ignota, Artemisia assunse il ruolo di tiranno e di reggente della sua città nelle veci del figlio minore Pisindēlis. Nelle sue Storie (VII-VIII), Erodoto ne esalta il «coraggio virile» che la indusse a prendere parte alla spedizione militare di Serse:

    «Ora, degli altri comandanti non faccio menzione, perché non è necessario, ma di Artemisia sì, di lei di cui fa estremo scalpore l’aver combattuto contro la Grecia, lei, donna, che morto il marito, tenendo per se stessa il regno pur avendo un figlio in età per combattere, per il suo valore e la sua determinazione, partecipò alla guerra, senza costrizione alcuna»..

    Al comando supremo dell’armata fornita da Alicarnasso, Cos, Nisiro e Calydna, Artemisia mise a disposizione del Grande Re cinque delle sue splendide navi, che si dice siano state le più celebrate dell'intera flotta dopo quelle fenicie. Già in passato, nelle battaglie di Eubea, la comandante aveva reso servizi eccezionali al sovrano persiano ma ancora più notevole fu il ruolo che ella svolse prima e durante la battaglia di Salamina.

    Nel 490 a.C. i Persiani avevano subito una pesante sconfitta a Maratona. Dieci anni dopo, quando si trovarono a fronteggiare di nuovo i greci nei pressi di Salamina, Artemisia consigliò a Serse, attraverso Mardonio, di non lanciarsi in una battaglia navale: la flotta greca, benché fosse inferiore numericamente, sul mare era più abile di quella persiana e combattere poteva rivelarsi molto rischioso. Piuttosto, Artemisia raccomandò al re di avanzare rapidamente verso il Peloponneso perché, in quel caso, i Greci si sarebbero dispersi, avrebbero abbandonato la difesa di Atene e sarebbero fuggiti verso le loro rispettive città:

    «Sire, è giusto che ti manifesti la mia opinione, che penso forse sia la migliore. E ti dico questo: risparmia la flotta, non dare battaglia! I nemici sul mare sono tanto più forti delle tue truppe quanto gli uomini lo sono delle donne […] ed ecco come io ritengo si concluderà la guerra per i nostri avversari: se tu non avrai fretta di dare battaglia navale, se tratterrai qui la flotta e rimarrai sulla riva, oppure avanzerai nel Peloponneso, facilmente, o Sire, conseguirai gli scopi per cui sei venuto. Gli Elleni non saranno in grado di opporti alcuna resistenza. Tu li disperderai».

    Il discorso di Artemisia riportato da Plutarco, per quanto non possa essere preso alla lettera, mostra quanto lucida fosse la visione della comandante e quale stima Erodoto avesse di lei. Lo stesso Serse teneva Artemisia in grande rispetto e ricevette di buon grado il suo saggio consiglio; pur tuttavia decise infaustamente di non seguirlo e si lasciò convincere dalla maggioranza degli altri alleati, che non si sarebbero certo comportati da vili poiché il re stesso avrebbe partecipato personalmente alla battaglia. Pausania racconta che la regina compì grandi azioni in questa sfida sul mare e la descrizione delle sue gesta è arricchita con vari aneddoti che sfociano nella leggenda.

    In Temistocle, Plutarco scrive che pur sotto i colpi dei nemici Artemisia riuscì a recuperare dai flutti il corpo di Ariamene, il comandante in capo della flotta persiana, e ne riportò le spoglie intatte al Grande Serse perché potesse rendere al fratello gli onori funebri dovuti. Ma fu in una fase successiva della battaglia che la cariana mostrò la sua abilità di comandante di vascello riuscendo a sfuggire alla ferocia di una nave ateniese attraverso un astuto stratagemma: approfittando della confusione generale, Artemisia speronò e affondò una nave amica, proveniente da Calynda, in Caria, e guidata da Damasithymus, il re di quella città. Davanti a tale manovra, l’avversario greco smise di inseguirla, lasciò la preda e si allontanò, presumendo che la trireme di Artemisia fosse quella di un alleato e non di un nemico persiano.

    Si dice che la regina stessa avesse colto l’occasione di uccidere Damasithymus per sbarazzarsi di un incomodo rivale, senza correre il rischio di essere accusata di tradimento, perché nessuno della sua nave sopravvisse per poterlo raccontare:

    «Quando le forze del re furono travolte da una gran confusione, venne in quel frangente, la nave di Artemisia inseguita da una nave attica. Ella non poteva sfuggire […] e prese una decisione che, messa in atto, le riuscì vantaggiosa: investì con impeto una nave amica, a bordo della quale era il re Damasimo dei Calidni. Non saprei dire se avesse con lui qualche contesa o se la nave dei Calidni sia capitata per caso in collisione. Artemisia la investì, l’affondò e godette di una doppia fortuna. Il comandante della nave attica ritenne che la nave di Artemisia fosse ellenica o disertasse dai Barbari e combattesse per gli Elleni. Così, virò e si rivolse ad altre».

    L’episodio non è inverosimile se lo stesso Polenio racconta che Artemisia, come i più scaltri pirati, era solita cambiare bandiera e issare insegne e colori diversi, fingendosi nave greca o persiana a seconda degli eventi per confondere e ingannare gli equipaggi incrociati. Le sue triremi erano imbarcazioni leggere, molto agili e veloci, ideali per compiere azioni rapide di assalto e di pirateria: lunghi tra i trentacinque e i quaranta metri, larghi sei o sette e con un pescaggio ridottissimo, i velieri erano dotati di tre ordini di rematori che vogavano alla velocità di sei o sette nodi, fino a raggiungere i dieci nodi nel momento dell’attacco. Un rostro di bronzo fuoriuscente dalla prua serviva a speronare e ad affondare le navi nemiche, e quando i vascelli si trovavano molto vicini, l’equipaggio si lanciava con ferocia all’abbordaggio della nave avversaria, che non aveva scampo.

    Nei suoi Stratagemmi del I secolo d.C., il teorico militare Polieno racconta che Artemisia era esperta anche in operazioni militari sulla terra ferma. La comandante ricorse a un ingegnoso espediente per conquistare una città della confederazione ateniese nella regione della Jonia: Eraclea al Latmo, situata alle pendici sud-occidentali del monte Latmo, nel piccolo golfo che dal monte stesso prende il nome. Mentre i suoi uomini si appostavano non visti nei pressi della città, Artemisia si recava in processione con le donne e i musici lontano dalle mura di Latmo, al tempio della sua dèa protettrice Atena. Gli abitanti, non prevedendo l’inganno, si unirono al corteo per prendere parte alla cerimonia sacra e lasciarono la città indifesa, consentendo così all’esercito di Artemisia di impossessarsene facilmente.

    Dopo il disastro della flotta persiana nei pressi di Salamina, quando Mardonio suggerì al Grande Re di ritirarsi, Serse consultò nuovamente Artemisia, l’unica che gli aveva dato il giusto avviso prima di quella battaglia:

    «Mardonio mi esorta a restare qui per attaccare il Peloponneso […] vuole scegliersi lui trecentomila dei miei uomini per asservire l’Ellade e offrirmerla. E il suo suggerimento è che io mi ritiri in patria con il resto dell’esercito. Tu mi ha consigliato bene sulla battaglia navale […] consigliami dunque anche ora quale è la scelta giusta da fare tra le due».

    Artemisia non si esimette e appoggiò il sovrano nella sua decisione di ritirarsi in Asia, dove sarebbe stato al sicuro:

    «Nelle circostanze attuali, a me pare bene che tu torni indietro e che lasci qui Mardonio con le truppe. Se riuscirà nei piani che ha in mente, tua sarà la gloria dell’impresa, o Sire […] se invece avverrà il contrario, non sarà un disastro, poiché tu e la tua potenza persiana in Asia sarete sopravvissuti. Perché se tu e la tua dinastia perdurerete, gli Elleni dovranno combattere a lungo per la loro salvezza. E se Mardonio non avrà fortuna, non importa, né una vittoria degli Elleni contro un tuo servo sarà una vera vittoria. E tu tornerai dopo aver dato fuoco ad Atene, obiettivo vero della tua spedizione».

    Assicura Erodoto che il sovrano fu lieto del consiglio di Artemisia perché gli aveva suggerito proprio ciò che lui desiderava: se anche tutti lo avessero esortato a restare, Serse era colto da tanta paura che forse sarebbe partito comunque; per ciò, lodò Artemisia per le sue sagge parole e la congedò. Poi si mise in marcia via terra per l'Ellesponto, rientrò di nuovo Asia, e proseguì per Sardi. Intanto, la regina salpava per Efeso, scortando lì alcuni dei figli illegittimi di Serse e mettendoli in salvo. Seguendo il monito della sua fida alleata, il re poté trovare rifugio in Persia mentre Mardonio veniva sconfitto a Platea da Pausania, a capo della coalizione degli Elleni.

    Del destino di Artemisia negli anni successivi non si sa nulla. Fozio di Costantinopoli riporta una versione della sua morte che non sembra rendere onore al personaggio: secondo il patriarca ecumenico, la regina si era innamorata non corrisposta di un giovane di Abydos, e dopo avergli cavato gli occhi per vendicarsi, avrebbe deciso di togliersi la vita. Come l’antica poetessa Saffo, che il mito vuole suicida per amore con un tuffo dalla rupe di Leucade, Artemisia avrebbe posto fine ai suoi giorni saltando giù da una scogliera.

    Alla sua morte, al trono di Alicarnasso le succedette il figliastro Pisindēlis, padre di Ligdami II, che fu satrapo della città al tempo di Erodoto. Lo storico ritrasse Artemisia con grande ammirazione, e Plutarco lo rimproverò di lasciare più spazio a lei che al resoconto generale di quelle battaglie. Per lui, la regina era una donna risoluta, coraggiosa ed eroica, con una forte presenza mentale e un grande pragmatismo, e si era rivelata a tutti, fin dall’inizio, come la consigliera più saggia di Serse.

    Erodoto afferma che lei era l’unica comandante femminile di tutta la flotta persiana e che le sue triremi godevano di una reputazione seconda solo a quella delle navi provenienti da Sidone; inoltre, quando prese parte alla battaglia di Capo Artemisio contro la coalizione ellenica, Artemisia seppe distinguersi in modo «non inferiore» agli altri comandanti persiani.

    Anche Aristofane ricorda la regina di Alicarnasso come esempio di audacia femminile, riportando un commento di Serse su di lei che può essere considerato come un alto elogio, e non solo per quei tempi. Riconoscendone il valore militare, evidentemente non misurabile in base al genere, Serse è costretto ad ammettere di non poter fare distinzione tra i suoi campioni in battaglia: «i miei uomini sono diventati donne, le donne uomini».

    Tuttavia, i nemici ateniesi avevano un’altra opinione di Artemisia: parlavano di lei con disprezzo come di una vile pirata ma la temevano a tal punto da aver posto sulla sua testa una taglia di diecimila dracme per chi l’avesse catturata viva; una somma molta alta per l’epoca, che nessuno, però, ebbe la fortuna di incassare. Pur dandosi un gran da fare per acciuffarla, gli ammiragli ellenici non riuscirono mai nell’impresa.

    La storica Eva Cantarella ritiene che agli occhi dei greci, profondamente misogini, Artemisia apparisse come una figura intollerabile, da denigrare e da domare: «Una donna, che aveva osato minacciare e sfidare la potenza di Atene!». La regina cariana era stata allevata in un ambiente più aperto ed emancipato della polis ellenica, dove le donne venivano considerate esseri inferiori privi di intelligenza. I greci relegavano le donne al ruolo di mogli e procreatrici di eredi, senza riconoscere loro alcun diritto sociale o patrimoniale.

    Artemisia, invece, rappresentava le donne orientali, giudicate come l’orrido e pericoloso opposto di quelle greche: libere, indipendenti e con un ruolo sociale preminente, le donne persiane potevano contare su diritti sociali ed economici riconosciuti; era consentito loro di governare e, al pari di un uomo, di raggiungere i vertici del potere politico. Una donna persiana poteva persino comandare gli uomini in guerra e, come nel caso di Artemisia, essere una regina, una condottiera e una temibile pirata.

    Nelle commedie di Aristofane Lisistrata e Thesmophoriazusae - Le donne alle Tesmoforie - il coro, interpretando il sentimento comune della polis greca, descrive Artemisia di Alicarnasso come una donna guerriera fiera e arrogante al pari delle antiche Amazzoni e scongiura che le donne ateniesi possano diventare come lei.

    Eppure, la storica inglese Jo Stanley ritiene che nell’antichità ellenica la pirateria, così come la pesca o altre attività svolte sul mar Egeo, non dovessero essere solo una prerogativa maschile. Un’iscrizione sull’isola di Samo testimonierebbe che nel V secolo a.C. il saccheggio per mare veniva condotto dai greci con il consenso del governo e con la benedizione della dea Era, e:

    « […] la realtà deve essere stata che molte donne di località costiere, né maligne né divine, erano impiegate in lavori legati al mare, come proprietarie di barche, pescatrici, madri e prostitute per marinai e pirati, come fornitrici di provviste e di ingaggi. Ma la loro storia manca».

    Narra Polieno che al termine della guerra, il re Serse donò al capitano della nave di Artemisia una rocca e un fuso mentre omaggiò la regina cariana di un’armatura greca completa, degna di una grande comandante. Ma questo non fu l’unico gesto compiuto in riconoscimento del suo valore. Una statua in marmo sarà eretta in suo onore nel cosiddetto Foro Persiano dell’agorà di Sparta, edificato con il ricco bottino proveniente dalle guerre persiane.

    Nel 1857, tra i ruderi del Mausoleo di Alicarnasso, costruito da Artemisia II per onorare il marito Mausolo tra il 353-350 a.C., l'archeologo britannico Charles Thomas Newton rinvenne un vaso in alabastro che riporta un’interessante iscrizione in quattro lingue: l'antico persiano, l’egiziano, il babilonese e l’elamita.

    L’incisione sul vaso - oggi al British Museum - fa riferimento a «Serse il grande re» e induce gli studiosi a ipotizzare che la preziosa giara sia stata donata dal sovrano achemenide ad Artemisia I quale pegno per i suoi meriti nella Seconda Guerra Persiana contro i greci; il vaso, annoverato tra le sette meraviglie del mondo antico, sarebbe poi stato conservato nei secoli a venire, in sua memoria, dalla stirpe cariana dei suoi discendenti.

    Come un’indomita guerriera, Artemisia sarà raffigurata nel dipinto La battaglia di Salamina, realizzato dal pittore tedesco Wilhelm von Kaulbach nel 1868, in cui la regina, figura centrale e illuminata della scena, è colta nell’atto di tendere l’arco per scagliare il suo dardo sulle teste dei nemici, evocando così la potenza e l’invincibilità divina della sua protettrice, Artemide.

    Mai dimenticato, il suo personaggio è stato recentemente rispolverato dalle ceneri della Storia e le sue vicende sono arrivate al grande pubblico anche attraverso il cinema. Nel 1962 uscì nelle sale il Kolossal: L’eroe di Sparta (The 300 Spartans) in cui Artemisia appare come una bellissima regina che seduce Serse I con il suo fascino, per poi accompagnarlo nella sua guerra contro i nemici.

    La pellicola, girata in Grecia, precorre il film del 2014 dal titolo 300. Rise of a Empire - L’alba di un impero, ispirato al romanzo a fumetti Xerxes, scritto e illustrato da Frank Miller; in questa ultima versione cinematografica dalle aspirazioni epiche, Artemisia di Alicarnasso viene ritratta come la vera artefice della metamorfosi di Serse, che da uomo si trasforma in semidio guerriero per aiutarla a compiere la sua vendetta contro gli odiati elleni.

    Spregiudicata, sanguinaria e crudele, la regina piuttosto che arrendersi preferirà morire trafitta dalla spada di Temistocle. Ma con le sue gesta eroiche si guadagnerà gli onori della memoria e della Storia, e il suo personaggio finirà per assurgere a leggenda:

    «La sua ferocia è inferiore solo alla sua bellezza, la sua bellezza è pari solo alla devozione al suo re».

    2.

    La regina dell’Adriatico

    Teuta

    Croazia/Albania. III secolo a.C.

    Nelle fonti greche, con il termine Illiria o Illiride si indicava il territorio abitato dagli Illiri, antico popolo indoeuropeo respinto dagli invasori celtici sul versante adriatico meridionale della Penisola Balcanica. Gli Illiri erano divisi in vari gruppi: Dalmati, Dardani, Giapidi, Istri e Liburni. I greci li descrivono come pirati barbari e feroci ma anche come mercenari di cui loro stessi si avvalevano in tempo di guerra per rinforzare l’esercito ellenico.

    Gli Illiri si nascondevano tra le numerose isole e insenature della costa e da lì compivano fulminee azioni di pirateria ai danni dei mercanti greci e italici in viaggio nello Jonio e nel mar Adriatico, le cui acque sono già notoriamente infide per i forti venti che soffiano da Nord. Le loro imbarcazioni, i lembi, erano legni leggeri e velocissimi, senza rostro ma con una prora sottile, con uno o due ordini di remi ed equipaggi di cinquanta marinai. Le continue scorrerie, compiute con il beneplacito del loro governo, provocarono l’inevitabile intervento di Roma e portarono alla prima guerra illirica nel 229-228 a.C.

    Nel III sec. a.C. la regione dell’Illiria – comprendente le attuali Croazia e Albania - era governata dal re Agrone e da sua moglie, la regina Teuta, che gli succedette alla morte nel 231, diventando rapidamente una temibile avversaria per i vicini Greci e Romani. Narra Polibio nelle sue Storie (II) che Agrone fu colto da morte prematura per aver esagerato col cibo e col vino durante un grandioso banchetto:

    «[…] oltre modo lieto di aver vinti gli Etoli tanto superbi e tronfi, si diede all’ubriachezza e ad altre siffatte gozzoviglie, e cadde in un’infiammazione di petto, dalla quale fra pochi giorni morì. Gli succedette nel regno la moglie Teuta, la quale nella particolar amministrazione degli affari giovavasi della fede degli amici».

    Rimasta improvvisamente vedova, la regina assunse il potere nelle veci del figliastro Pinnes, allestì un esercito e una flotta agguerrita, e permise ai suoi di predare chiunque incontrassero navigando, imponendo «di trattar ogni terra come nemica».

    Gli Illiri si diedero a saccheggiare non solo le navi di passaggio ma i villaggi sulle coste adriatiche e sulle isole greche, costringendo i popoli dell’Epiro e della Macedonia, terrorizzati da quelle continue incursioni, ad allearsi con Teuta. I Romani a quel tempo si fronteggiavano con Cartagine per la supremazia sul Mare Tirreno e sul Mediterraneo occidentale ma le acque dell’Adriatico non erano sotto il loro controllo. Forse gli abitanti di Issa, unica isola a non essersi ancora sottomessa al dominio di Teuta, invocarono il loro aiuto, o forse furono i Romani a decidere di intervenire per arginare la crescente minaccia illirica ai danni delle loro colonie e dei loro commerci.

    Per questi motivi, racconta Polibio, Roma inviò due ambasciatori a trattare con la regina Teuta:

    «Gli Illiri oltraggiavano le navi che per traffico venivano dall’Italia, e quando soggiornavano a Fenice, parecchi di loro, staccatisi dall’armata, molti mercanti italiani parte spogliarono, parte uccisero, e non pochi menarono prigionieri. I Romani, che non avevano in addietro dato ascolto alle accuse contro gli Illiri, essendone allora di molte giunte al Senato, elessero ad ambasciatori per l’Illiria, a fine di esaminar le cose anzidette, Cajo e Lucio Coruncanii. Teuta, come ritornarono a lei le barche dall’Epiro, stupefatta della moltitudine e della bellezza delle robe condotte (che Fenice allora molto avanzava in prosperità le altre città dell’Epiro) da duplicato coraggio si sentì stimolata alle offese dei Greci. Acconciati prestamente gli affari degli Illiri ribellati, assediò Issa, che sola non le ubbidiva ancora».

    Polibio dice che la regina accolse i diplomatici romani con ferocia e superbia. Alla loro richiesta di far cessare immediatamente le azioni di pirateria, la donna rispose che il suo governo non avrebbe offeso e danneggiato di proposito gli interessi di Roma, ma che «privatamente, non esser costume dei re Illiri di vietare ai loro popoli il vantaggiarsi col far prede in mare». Stizzito dalla risposta inaspettata, il più giovane dei legati, Lucio Coruncanii, ebbe l’ardire di minacciare la sovrana: «...vedremo modo di costringerti a corregger di buon grado e sollecitamente gli statuti regii a prò dègl’lllirii». Ma una tale sfrontatezza non poteva restare impunita.

    Sull’esito infausto dell’incontro ci sono differenti versioni. Secondo Plinio, i legati furono uccisi entrambi per ordine di Teuta. Floro racconta che vennero colpiti con la scure e che i comandanti delle navi romane furono arsi nelle fiamme. Polibio, a sua volta, narra che Teuta, al momento dell'imbarco, fece uccidere l’insolente ambasciatore fornendo al Senato romano il casus belli per dichiarare la guerra contro gli Illiri nella primavera successiva, dopo aver armato la flotta e organizzato le legioni.

    La regina si preparò a sua volta allestendo una flotta navale ancora più potente e inviandola verso il porto di Durazzo e poi nelle acque di Corcira, l’odierna Corfù, occupando le isole vicine e la costa dell'Epiro, punto strategico per attendere l’assalto dei nemici. L’improvvisa invasione nell’Egeo sfociò in una tumultuosa battaglia presso l’isola di Paxos tra gli Achei e gli Illiri, affiancati dai loro rispettivi alleati. Si racconta che, in questa occasione, Teuta diede prova di grande abilità nel saper condurre una vittoriosa guerra sul mare. Decise infatti di sacrificare alcune delle sue navi per compiere una mossa vincente e inaspettata: i vascelli degli illiri vennero legati insieme a quattro a quattro e così uniti si gettarono contro gli avversari. Quelli penetravano con i loro rostri il fianco delle imbarcazioni nemiche restandovi incastrati, senza più possibilità di manovra e di scampo, consentendo così agli Illiri di saltare sulle coperte delle navi achee e di sopraffarne gli equipaggi. In tal modo, Teuta e i suoi si impadronirono di cinque navi greche, spingendo i loro alleati alla ritirata o alla resa.

    Ma la reazione dei romani fu tempestiva. Il console «Gneo Fulvio salpava da Roma con duecento navi, mentre Aulo Postumio partiva con le forze di terra». Intanto, Demetrio di Faro, signore dell’isola di Faro e pretendente al trono degli Illiri, già al centro di calunnie mosse contro di lui, essendo caduto in disgrazia presso Teuta e temendo per la sua sorte, si apprestava a ordire subdole trame contro la regina: il comandante fingeva lealtà alla sua sovrana mentre, in gran segreto, inviava dei messaggeri ai Romani offrendosi di consegnare loro l’isola di Corcira senza opporre alcuna resistenza.

    Così la flotta romana fece vela verso Apollonia mentre l’esercito guidato da Postumio, composto da ventimila fanti e duemila cavalieri, salpava da Brindisi e sbarcava sul versante opposto dell’Adriatico. Gli Illiri, consci della superiorità numerica degli avversari, batterono in ritirata, e i Romani poterono marciare fino alla capitale Skodri (l’attuale Scutari) e impadronirsene.

    Teuta, costretta a fuggire, si ritirò con pochi fedelissimi a Risano, nelle Bocche di Cattaro, regione impervia e montuosa, al riparo dalle incursioni che potessero giungere via mare. Gneo Fulvio rientrò a Roma con la maggior parte delle forze navali e terrestri mentre Postumio fu lasciato con quaranta navi e con un esercito composto di uomini provenienti dalle città sottomesse per organizzare il protettorato militare nei territori sottratti agli Illiri. Nella primavera del 228 a.C., Teuta si vide costretta a inviare degli ambasciatori a Roma per contrattare la resa. La regina dovette ritirarsi da quasi tutta l’Illiria, pagare i tributi imposti dai vincitori e impegnarsi a non navigare oltre Lisso con più di due barche disarmate. Postumio inviò dei diplomatici anche agli Etoli e agli Achei per rendere noti gli accordi firmati con gli Illiri, considerati nemici comuni, e allacciare relazioni amichevoli con gli Ateniesi e con i Corinzi; e questo gliene valse l’ammissione di Roma, per la prima volta, ai giochi Istillici di Corinto.

    Polibio non riporta notizie sulla fine di Teuta. Qualcuno sostiene che la potente regina dei pirati decise di darsi ella stessa la morte, non potendo sopportare la sconfitta e la grave umiliazione per le condizioni di resa imposte dai Romani. Verosimilmente, i sospetti di Teuta nei confronti di Demetrio non erano infondati. Qualcuno racconta che il comandante si unì ai Romani per vendicarsi della sovrana che aveva rifiutato il suo corteggiamento, e che il suo reale intento era la presa del potere in modo legittimo, attraverso delle nozze regali. In seguito alla morte della regina, Demetrio riuscì infatti a portare a compimento la sua ascesa al trono sposando la madre di Pinnes, Triteuta, diventando così egli stesso tutore del giovane erede e nuovo sovrano degli Illiri.

    I Romani, fedeli al patto con Demetrio, lo avevano posto a capo di un esteso territorio composto da protettorati controllati dalle guarnigioni romane. Ma il traditore si ribellò ben presto anche contro Roma, spogliò le città illiriche e se ne fece signore, dedicandosi a sua volta alla pirateria. Accordatosi con il fratello di Agrone, Scerdilaida, stabilì un’alleanza con gli Etoli; in seguito, posto sotto assedio e vinto dai Romani a Dimale, si rifugiò sotto la protezione di Filippo di Macedonia. Fu eseguendo un ordine di quest’ultimo, durante un assalto alla città di Messene, nel Peloponneso, che Demetrio trovò infine la morte nel corso di una battaglia.

    La leggenda vuole che sull’isola croata di Sant’Andrea in Pelagio (Svetac), nel castello chiamato «della Regina», si accumulassero preziosissimi tesori provenienti dalle razzie dei pirati illirici sul mare: scrigni colmi d’oro e d’argento, di gemme e di perle, provenienti dalle ville romane di Dol, Sucúrai (San Giorgio) e dall’isola di Hvar (Lesina). I bottini e gli equipaggi catturati venivano portati sull’isola e lì, per ordine della loro regina, solo ai marinai più attraenti, giovani e forti, era risparmiata la vita perché destinati al piacere della voluttuosa pirata. Dopo una notte di vino e d’amore, Teuta avrebbe fatto uccidere i suoi amanti uno a uno, senza pietà, e ciò spiegherebbe il gran numero di tombe nei pressi del castello in cui sono state ritrovate ossa umane, si dice, di grandezza sovrannaturale.

    L’isola nasconderebbe ancor oggi, interrato sotto la fortezza, il magnifico tesoro che la regina dei pirati maledì prima di morire. Chi, nei secoli, avesse provato a cercarlo, sarebbe stato colpito da una sorte orribile e nefasta. Per questa ragione, gli inglesi la ribattezzarono l’Isola del Diavolo.

    A distanza di oltre venti secoli da quegli avvenimenti, il personaggio di Teuta è ricordato nella città di Tirana con una statua che tiene in braccio Pinnes fanciullo e un busto di marmo che la raffigura è conservato nel museo storico di Scutari. Nel 2000 la Repubblica di Albania le ha dedicato una moneta commemorativa su cui è impressa l’effige della sovrana rappresentata in posa fiera e regale, con lo scudo e la lancia, come si addice a una grande guerriera. Ma l’epopea dei pirati dei Balcani non si concluse affatto con la sua morte.

    Nel saggio Pirati (2009), Eletta Ravelli e Ignazio Cavalletta raccontano che, molto tempo dopo le vicende della Regina Teuta e del popolo degli Illiri, le acque dell’Adriatico furono teatro di nuove scorribande di predoni locali, giunti sulle coste dalmate dalle regioni dell’Europa orientale. Erano conosciuti come narentani perché abitavano i territori dove si apriva la foce del fiume Narenta, in quella che i cristiani del VII secolo d.C. chiamavano Pagania, ovvero la terra dei pagani non ancora convertiti alla religione di Cristo.

    I narentani erano detti anche mariani perché abitanti le marine; forse di origine vichinga, discendenti di quei viaggiatori nordici che lungo la Via dell’Ambra erano giunti dal Mar Baltico nell’Europa meridionale, i narentani pirateggiarono l’Adriatico per ben sette secoli, fino a quando la Dalmazia venne occupata dalla Repubblica di Venezia, contendendosi i saccheggi con altri predoni molti attivi lungo tutto la costa, da Trieste fino al Salento.

    Tra di loro, ricordiamo i dulcignotti, originari di Dulcigno, oggi città del Montenegro al confine con l’Albania, a cui si unirono i galeotti maghrebini lì deportati dai turchi, i quali li armarono e utilizzarono come corsari contro i nemici veneziani. I dulcignotti erano conosciuti anche come «lupi di mare» e alternavano le razzie al contrabbando e al commercio di grano dall’Albania, utilizzando imbarcazioni così piccole e agili che apparivano e scomparivano tanto velocemente da far nascere leggende sull’esistenza di vascelli fantasma. Il podestà e capitano veneto Alvise Foscari agli inizi del Cinquecento li definì «gente non misera e affamata» come gli altri

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