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Il figlio perduto di Roma
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Il figlio perduto di Roma
E-book470 pagine6 ore

Il figlio perduto di Roma

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Oltre 50.000 copie in Italia

Un grande romanzo storico

Roma, 51 d.C.
Finalmente, dopo otto anni di guerre, il condottiero britanno Carataco è stato sconfitto e viene portato da Vespasiano al cospetto dell’imperatore Claudio. Ma il nemico giurato di Roma non riceve un’esemplare punizione, bensì il perdono. Dietro la decisione dell’imperatore c’è la mano della moglie Agrippina, pronta a manovrare le sorti dell’impero sfruttando la debolezza del marito. A corte poi ci sono Narciso e Pallante che tramano anch’essi alle spalle di Claudio, e che sono divisi proprio sul ruolo di Agrippina. Il primo vorrebbe cacciarla, il secondo salvarla. Vespasiano, invece, è un personaggio troppo scomodo per gli intrighi dei palazzi romani e viene inviato in Armenia, dove un nuovo culto ebraico sta destabilizzando quei territori. La missione però non inizia nel migliore dei modi: Vespasiano viene catturato… 

Una serie di successo 
Tradotta in 8 Paesi

Il fascino della grande storia di Roma antica

«Azione, avventura, divertimento. Una serie decisamente interessante.»
Liberi di scrivere

«Guerriglie ed esaltanti spaccati di storia romana nella saga di Roberto Fabbri.»
Sololibri
Roberto Fabbri
è nato a Ginevra e vive tra Londra e Berlino. Per venticinque anni ha lavorato in produzioni televisive e cinematografiche. La passione per la storia, in particolare per quella dell’antica Roma, lo ha spinto a scrivere la serie dedicata all’imperatore Vespasiano, di cui la Newton Compton ha già pubblicato Il tribuno, Il giustiziere di Roma, Il generale di Roma, Il re della guerra, Sotto il nome di Roma e Il figlio perduto di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2017
ISBN9788822703231
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    Anteprima del libro

    Il figlio perduto di Roma - Roberto Fabbri

    en

    1430

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli avvenimenti descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: Rome’s Lost Son

    Copyright © Robert Fabbri, 2015

    The moral right of Robert Fabbri to be identified as the author of this work has been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act of 1988.

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Rosa Prencipe

    Prima edizione ebook: febbraio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0323-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Roberto Fabbri

    Il figlio perduto di Roma

    omino

    Newton Compton editori

    Per i miei suoceri, Eddie e Christel Müller, mia cognata Liane Olbertz, suo marito Sven e il loro figlio Fabian, ringraziandoli per avermi accolto nella loro famiglia

    mappa

    PROLOGO

    Ponto Eusino, settembre 51 d.C.

    Il chiarore della luna riluceva sulla superficie del Ponto Eusino scura come lo Stige e si rifletteva, argenteo e luminoso, negli occhi afflitti di Tito Flavio Sabino. Gemette mentre si sporgeva oltre la balaustra di una trireme che oscillava all’ancora, con l’acqua che ne schiaffeggiava lo scafo, di fronte alla foce del fiume Tyras. Il riflesso della luna veniva allungato dal moto ondoso e poi spezzato in mille repliche, prima di riemergere e ricomporsi in un’immagine quasi perfetta, mentre la nave si alzava e si abbassava con i flutti che si infrangevano sulla costa, ad appena un centinaio di passi da babordo e tribordo.

    Le costanti rotazioni dell’unico punto luminoso nel suo campo visivo non contribuivano ad alleviare il subbuglio nelle devastate viscere di Sabino. Con un altro stanco spasmo, mandò sulle assi già macchiate uno schizzo di bile e vino rosso, che finì per gocciolare sull’ultima fila a tribordo. I suoi lamenti si mescolarono con il cigolio di una corda che si tendeva e del legno.

    Dalla sua posizione accanto ai due timoni a poppa della nave, il trierarca finse di non notare l’involontaria e stridula flatulenza che accompagnò l’ultimo conato di Sabino, né il fatto che avesse scelto di vomitare sopravvento. Il governatore delle province imperiali di Mesia, Macedonia e Tracia poteva dare di stomaco ovunque più gli aggradasse, per quanto riguardava il trierarca.

    Certo, durante il viaggio di due giorni da Noviodunum, la base della flotta del Danubio, a circa un centinaio di miglia dal delta del fiume, fino a quel punto desolato sulla costa dell’Eusino, il rappresentante dell’imperatore aveva scelto una varietà di posti in cui dare di stomaco, e non tutti fuori bordo.

    Con respiri rapidi e poco profondi, Sabino maledisse la malasorte che lo aveva costretto a imbarcarsi su una nave e rimanervi a bordo molto, molto più a lungo del contenuto del suo stomaco; non aveva mai avuto la pretesa di essere un marinaio. Tuttavia, con la nomina a governatore, tre anni prima, era giunta una responsabilità non solo nei confronti dell’imperatore ma dello stesso impero.

    Se le informazioni riservate che aveva appreso da una spia infiltrata nelle tribù di geti e traci, a nord del Danubio, erano affidabili, l’impero – o per lo meno la sua parte orientale – poteva essere in serio pericolo.

    Dubitare della veridicità del rapporto era fuori questione: l’agente era leale a Trifena, l’ex regina della Tracia. Pronipote di Marco Antonio, Trifena era una cittadina romana e accanita sostenitrice dell’impero. Malgrado adesso vivesse a Cizico, sulla costa della provincia dell’Asia – avendo abdicato su richiesta di Caligola – si faceva un dovere di essere ben informata sulle questioni dei suoi ex sudditi e dei loro nemici. Se l’agente di Trifena aveva riferito di una minaccia all’impero, allora doveva essere preso molto seriamente.

    Quando, dopo un rischioso viaggio via terra, l’uomo aveva raggiunto Noviodunum per riferire a Sabino dell’arrivo di una delegazione di Vologase, il Grande Re della Partia, presso i re delle tribù trans-danubiane, la notizia era già vecchia di quattro giorni. Sabino aveva quindi preso le tre biremi e la trireme nel porto ed era salpato alla volta dell’Eusino. Poi si era diretto a nord lungo la costa, fermandosi nei pressi di Tyras, una colonia greca sotto l’influenza del re dace Coson, che non era affatto amico di Roma.

    Alcuni doveri erano così cruciali da non poter essere delegati; Sabino sapeva che se avesse riferito all’imperatore Claudio o, ancora più importante, all’imperatrice Agrippina e al suo amante Pallante, i veri detentori del potere a Roma, di aver inviato un sottoposto a intercettare la missione partica, senza riuscirci, allora tale fallimento sarebbe stato imputato a lui. Almeno se avesse fallito in prima persona, non avrebbe avuto altri da biasimare se non se stesso; ma Sabino non aveva alcuna intenzione di fallire. Poteva immaginare quale fosse stato l’argomento di discussione. I re dei daci, dei geti, dei sarmati e dei bastarni tutti riuniti, secondo l’agente, in un campo sulle pianure cinquanta miglia a ovest di Tyras, non potevano offrire niente alla Partia se non un unico elemento comune: l’odio per Roma. Mentre quell’odio si riversava sui confini settentrionali dell’impero, la Partia, il più acerrimo nemico di Roma a est, avrebbe imperversato a ovest nel tentativo di riprendersi le coste della Siria e quindi l’accesso al mare di Roma per la prima volta da quando l’impero si era esteso fino a oriente. Oppure si sarebbe diretta a nord, attraverso i regni clienti di Roma, l’Armenia e il Ponto, per conquistare l’accesso all’Eusino.

    In entrambi i casi, le province orientali di Roma erano in pericolo.

    Tuttavia adesso Sabino aveva a portata di mano l’opportunità di scoprire tempistica e direzione di una mossa tanto audace; sapendo come, dove e quando i colpi sarebbero stati sferrati, era possibile sventarli. Era di vitale importanza, perciò, che gli ambasciatori venissero catturati e interrogati mentre salpavano da Tyras, le cui luci fioche erano visibili sulla sponda meridionale dell’estuario dell’omonimo fiume.

    Con un altro conato e l’involontaria emissione di aria – uno secco stavolta, l’altra meno – Sabino tirò su la schiena, sudato malgrado il vento fresco che soffiava dal mare. Osservò il riflesso cangiante della mezzaluna inghiottita da uno scuro banco di nuvole; il bordo argenteo si increspò sulla superficie dell’acqua per qualche momento prima di scomparire e diventare tutt’uno con il mare che scuriva. Sabino alzò lo sguardo; la nuvola aveva bloccato tutta la luce nel cielo per la prima volta da quando avevano cominciato la loro veglia dal tramonto all’alba tre notti prima. Una volta giorno, si sarebbero messi in panna al di là dell’orizzonte, lontano dalla vista delle torri di vedetta di Tyras, ma comunque in grado di intercettare eventuali navi che fossero salpate dall’estuario per seguire la costa fino al porto amico da cui era partita la delegazione di parti.

    Ma Sabino dubitava che i parti sarebbero ripartiti di giorno visto che l’agente l’aveva informato che erano arrivati a Tyras nel cuore della notte; sapeva che non era impresa da poco perfino per il trierarca più esperto. Inoltre non si faceva alcuna illusione sul fatto che, malgrado le precauzioni, la loro presenza fosse passata inosservata; perciò i parti avrebbero atteso la totale oscurità, un momento come quello, prima di avventurarsi in mare.

    Continuando a reggersi alla balaustra, Sabino si girò verso il trierarca. «Fa’ tenere pronti i rematori, Xanthos, e segnala alle tre biremi di prepararsi all’azione». Mentre il trierarca riferiva l’ordine ai banchi di voga in basso, Sabino si asciugò un filo di vomito dal mento e guardò a prua. Riusciva a distinguere appena le sagome della mezza centuria di marinai seduti attorno alla carrobalista montata sul ponte, rispettando l’ordine notturno dell’assoluto silenzio. Fece segno al loro centurione affinché si alzassero e si tenessero pronti.

    Dal basso giunsero i suoni smorzati dei centoventi rematori della nave che prendevano posto, un uomo ciascuno sulla fila inferiore di remi e due su quella superiore. Cercando di schiarirsi la mente, offuscata dalla nausea, Sabino abbassò lo sguardo e vide i remi allineati pronti per la vogata iniziale, che avrebbe spinto in avanti l’imbarcazione, mentre le prime gocce di pioggia picchiettavano il mare e colpivano il ponte della nave con un lento tamburellare irregolare.

    Quando la nave fu pronta, Sabino si sistemò il mantello di lana rossa in modo che gli scaldasse le braccia; strinse la fascia rossa attorno alla vita della corazza di bronzo e regolò la bandoliera così che la spada gli pendesse dritta sul fianco destro. Dopo aver infilato di nuovo l’elmo e legato la cinghia sotto il mento, prese lo scudo semicilindrico d’ordinanza, raggiunse la prua con passi più stabili possibile, si mise accanto al centurione di marina, sotto lo svettante corvus che usavano per abbordare le navi nemiche, e si preparò ad aspettare per le restanti tre ore della notte, scrutando nell’oscurità che si faceva più profonda man mano che la pioggia si intensificava.

    All’inizio fu solo un’intuizione. Non si vedeva niente attraverso la pioggia e nessun suono si propagava al di sopra dell’incessante picchiettare su acqua e legno ma, a meno di un’ora dall’alba, Sabino ebbe la certezza che non fossero da soli. Si asciugò le gocce dagli occhi e scrutò attraverso quell’interminabile diluvio; era un muro nero d’acqua, di tanto in tanto penetrato da un bagliore di luce proveniente dalla cittadina distante più di un miglio. Ma poi una nuova sensazione si affacciò nella sua coscienza: un suono, davvero flebile, ma senz’altro non quello della pioggia battente, del cigolio del legno o delle corde che si tendevano mentre la nave lottava contro la potenza del mare. Si ripeté, lungo e grave. Sabino contò fino a cinque e il rumore ricomparve. Adesso non potevano esserci più dubbi: era un ritmo costante, i grugniti di fatica di decine e decine di rematori che vogavano a tempo.

    Si voltò, alzò un braccio rivolto al trierarca e segnalò di avanzare. I mozzi a ciascuna estremità della nave si misero all’opera e levarono le ancore e, nel giro di pochissimo, la nota stridula del capovoga annunciò la prima spinta dei remi; si erano messi in moto.

    «Fa’ caricare la balista ai tuoi uomini, Tracio», ordinò Sabino al centurione di marina, «e controlla che i mozzi stiano presidiando il corvus e siano pronti con i rampini».

    Tracio salutò e andò a eseguire gli ordini mentre la trireme guadagnava slancio un colpo di remo dopo l’altro. Attorno a Sabino la nave entrò in fermento mentre i bracci a torsione della carrobalista venivano caricati; i mozzi erano al lavoro attorno al sistema di carrucole per liberare il corvus spinato perché si abbattesse e bloccasse una nave nemica, creando un ponte, mentre i soldati di marina controllavano il proprio equipaggiamento e i marinai erano disposti lungo le balaustre e a prua con i rampini di abbordaggio pronti all’uso. I grugniti di fatica dei rematori si intensificarono man mano che fendevano le onde, accelerando l’andatura dell’enorme imbarcazione. Vi si aggiungevano quelli provenienti dalle tre biremi, una a ciascun lato e una dietro, producendo una cacofonia che Sabino sapeva avrebbe avvertito i parti della loro presenza. Ma ciò non lo impensieriva; non poteva fare niente a riguardo poiché era impossibile che così tanti uomini remassero in silenzio. Quello che gli interessava, tuttavia, era scorgere la nave nemica prima che sfuggisse loro. Scrutava la notte davanti a sé, la nausea ormai un ricordo, mentre il rostro in basso agitava le acque nere in una schiuma grigia.

    E finalmente la vide; un’ombra più scura sul mare, appena messa in controluce dalle fioche lanterne del porto alle sue spalle. Grida dalla nave indicarono che anche altri membri dell’equipaggio avevano scorto la macchia spettrale. Imprecisa e irregolare, ma senza dubbio reale, si fece sempre più distinta a ogni sonoro colpo di remi, man mano che la trireme filava veloce verso la sua preda. Sabino aveva dato ordini al trierarca di intercettare e speronare e sentì la nave mutare leggermente rotta per fare proprio quello. Sorrise tra sé e poi, trasalendo, si accorse che l’ombra non era singola ma divisa in tre, quando una massa scura si dispose a tribordo, una a babordo, lasciando la terza, quella centrale, a meno di cinquanta passi, in rotta di collisione con la trireme. Ai lati, le biremi si staccarono per intercettare le due navi in fuga.

    «Lanciate!», urlò Tracio. Con un improvviso schianto, i due bracci della balista scattarono in avanti, scagliando il dardo sull’ombra che sopraggiungeva. L’impatto fu segnalato da un tonfo sordo a cui però non seguirono urla.

    «Tenetevi pronti!», ruggì Tracio mentre la distanza tra le due imbarcazioni diminuiva drasticamente; i suoi uomini si chinarono su un ginocchio, con gli scudi e i pila simili a giavellotti.

    Da poppa giunse un ordine urlato, amplificato da un apposito corno; fu seguito dal raspare in massa dei remi che venivano issati a bordo per evitare conseguenze rovinose nel caso in cui il nemico avesse tentato di scontrarsi con la fiancata. Sabino si aggrappò alla balaustra e si mise in ginocchio mentre l’ombra incombente si rivelava quella di una trireme di uguale grandezza. E fu con lo stesso peso e lo stesso stridore di fasciame che le due imbarcazioni finirono una contro l’altra, entrando in collisione con le prue di tribordo. Sganciato, il corvus cigolò sulle sue carrucole e si abbatté sulla balaustra nemica, fracassandola; ma le navi non erano allineate e la punta lunga un piede strisciò lungo lo scafo, fallendo nel tentativo di conficcarsi nel ponte. Lo slancio spinse in avanti le navi e i rostri rimbalzarono a vicenda sugli scafi ricurvi, facendole ruotare, entrambe a babordo, fuori controllo, con gli equipaggi scaraventati lungo il ponte.

    Alzata la testa al di sopra della balaustra, Sabino vide che l’imbarcazione romana stava ruotando sul proprio asse, da destra a sinistra, con la poppa che andava dritta verso quella della nave nemica, che girava, lenta, maestosa, inesorabile, nella direzione contraria, come in una bizzarra danza nautica.

    «Tracio, riporta indietro i tuoi uomini e cerchiamo di bloccarli con le corde quando ci scontriamo».

    Il centurione si rialzò dal ponte, urlando ai marinai con i rampini di abbordaggio e ai suoi uomini di seguirlo. Sabino osservò con distaccato interesse le due navi che giravano una verso l’altra. Con un poderoso impatto e il sonoro stridere del legno sotto sforzo, entrarono in collisione più o meno nello stesso punto in cui Sabino aveva vomitato prima. Tracio e i suoi uomini ruzzolarono a terra per rialzarsi un istante dopo, al comando urlato del centurione, mentre, dall’oscurità dietro la trireme, emergeva la terza bireme romana che procedeva a tutta velocità sospinta dai remi. Avanzava, con i grugniti degli affaticati rematori che si udivano chiaramente a ogni rapida vogata e la prua che apriva un solco temporaneo nelle acque agitate, dritta verso la fiancata della nave partica.

    E senza perdere slancio, la nave più piccola piombò sulla trireme, conficcando il rostro di bronzo nel solido legno dello scafo, un piede sotto la linea di galleggiamento, con uno schianto esplosivo che coprì il suono della fatica dei rematori e le forze della natura. Affondando nel ventre dell’imbarcazione dei parti, l’elementare arma della bireme ne lacerò le viscere con un’eruzione di acqua fino a che la prua, sbattendo contro la fiancata della nave nemica, le impedì di penetrare ulteriormente; ma adesso la nave romana dondolava avanti e indietro, muovendo l’ariete conficcato e squarciando ancora di più la falla.

    Allora i rampini sfrecciarono nell’aria e Tracio schierò i suoi uomini per l’abbordaggio. Le corde furono assicurate mentre le prime frecce cominciavano a piovere dalla nave intrappolata, schiantandosi sugli scudi dei soldati o sibilando invisibili al di là della trireme per scomparire nell’oscurità. Qua e là l’urlo di un marinaio che cadeva sul ponte contorcendosi trafitto da un’asta impennata. Con un ruggito rauco e indefinito, Tracio balzò sulla balaustra e si lanciò sulla nave nemica; senza esitare, i suoi uomini lo seguirono mentre sagome scure si affannavano a schierarsi in una linea di difesa sul ponte partico.

    Sabino si alzò in piedi e si avviò verso la poppa. Non aveva alcuna fretta; non era affare suo rischiare la vita nell’umile compito di sgomberare una nave nemica. Inoltre, sembrava che Tracio e i suoi uomini, schierati in due linee e piombati sui difensori, stessero facendo un lavoro egregio. Pioggia e vento flagellavano il ponte ondeggiante, diluendo il sangue che colava sulle assi fradice, mentre il ferro cozzava con il ferro, risuonava sul legno coperto di cuoio e tagliava carne e ossa tra le urla pietose dei mutilati e moribondi.

    Alle spalle dei soldati, i timonieri e il trierarca parti giacevano morti sotto le pale del timone, insieme a un paio di arcieri colti di sorpresa quando gli uomini di Tracio avevano assaltato la nave. Vicino ai cadaveri, i loro uccisori romani, una mezza dozzina di soldati, stavano di guardia al corridoio che conduceva alle plance di voga; con lunghe lance, i soldati minacciavano l’equipaggio terrorizzato che cercava di sfuggire all’acqua che allagava la parte sottostante, per evitare che arrivasse alle spalle dei loro compagni, impegnati a respingere i difensori orientali con la brutale disciplina che Sabino si aspettava da truppe regolari in ordine serrato. Trovando la via di fuga sbarrata, molti dei rematori si infilarono nelle scalmiere per cercare scampo in mare.

    Dietro di loro, la bireme stava remando all’indietro nel tentativo di disincagliarsi dall’imbarcazione partica paralizzata e che ormai sbandava visibilmente. Le pale dei remi frustavano l’acqua già turbolenta, soffocando le urla degli uomini che annaspavano e rendendone vani gli sforzi. Molti furono risucchiati sotto mentre altri furono feriti gravemente dai remi che si abbattevano su teste e volti. Con il tormentoso stridere di legno che grattava e squarciava altro legno, la bireme arretrò poco per volta.

    Sabino scavalcò la balaustra e atterrò sulla nave colpita; sguainò la spada e avanzò a grandi passi verso la mischia, che adesso aveva quasi raggiunto l’albero maestro, superando i numerosi morti e feriti lasciati nella sua scia. La nave sbandò mentre la bireme riusciva a liberarsi e poi si stabilizzò, inclinata vistosamente verso il lato squarciato. Sabino incespicò ma ritrovò l’equilibrio; aveva ancora lo stomaco in subbuglio per via del rollio della nave. Il leggero movimento di un moribondo alla sua sinistra lo indusse a fermarsi per conficcargli la punta della spada nella gola, ruotando la lama a destra e sinistra, non volendo essere attaccato alle spalle da un nemico che si fingeva inerme. Estrasse l’arma, con un gorgoglio di aria che esplose dal liquido denso, e fece per proseguire. Ma si fermò bruscamente. Scrutò il volto dell’uomo nell’oscurità. Era barbuto ma con una barba folta, in stile greco, non la versione più scolpita in uso in Partia. Gli osservò le gambe: indossava calzoni orientali ma mancava la lunga tunica che doveva coprirli parzialmente. Si guardò attorno; tutti i nemici morti portavano calzoni ma nessuno tuniche o barbe di foggia orientale, né erano armati alla maniera partica – corazza a piastre, scudi di vimini, archi, corte lance e spade – ma nello stile greco dell’Eusino settentrionale, ovvero thureoi ovali, giavellotto e spada corta. Sabino imprecò sottovoce e tornò di corsa lì dove giaceva il trierarca nemico. L’uomo aveva una barba color rame, naturale, non tinta. Questo tagliava la testa al toro: decisamente non era un partico.

    Quella non era la nave con a bordo la delegazione.

    Assalito dal panico, corse alla balaustra a guardare il mare; a babordo vide che una delle navi di scorta era stata abbordata da una bireme, ma a tribordo non riuscì a scorgere nulla.

    Dietro di lui, gli uomini di Tracio spezzarono quanto restava della resistenza dei marinai sulla nave.

    «Voglio prigionieri!», urlò Sabino mentre il centurione si abbatteva contro il nemico che arretrava, con i suoi uomini intenti a mietere un sanguinoso raccolto ai suoi lati. Corse alla retroguardia dei soldati, facendosi largo a spintoni, urlando loro di fare prigionieri, fino a raggiungere Tracio. «Prigionieri! Devo avere un paio di prigionieri!».

    Il centurione si girò verso di lui e annuì, con gli occhi dilatati dalla furia omicida e le braccia ricoperte di sangue; urlò agli uomini lì intorno, che si lanciarono alla carica, inseguendo il nemico sconfitto. Sabino fece altrettanto, controllando i corpi dei caduti per vedere se in uno di essi ci fosse vita sufficiente a fornirgli l’informazione di cui adesso aveva disperato bisogno. Si maledisse per aver lasciato che il mal di mare gli annebbiasse la mente: nel suo stato indebolito, aveva dato per scontato che la delegazione partica avrebbe semplicemente cercato di eludere la sua flottiglia e non aveva considerato la possibilità di un diversivo. Quale delle altre due navi ospitava gli ambasciatori? Poi la parola gli riecheggiò all’improvviso nella mente: diversivo, diversivo. La bile gli risalì in gola e stavolta la causa non fu il movimento della nave: era stato beffato; i parti non erano a bordo di nessuna di quelle navi. Corse a prua dove Tracio e i suoi uomini stavano disarmando le ultime due dozzine di nemici; guardò a nord, mentre le prime luci dell’alba scaldavano la fitta coltre di nuvole.

    «Dove vuoi interrogarli, signore?», domandò Tracio, spingendo in ginocchio uno dei prigionieri. Gli tirò indietro i capelli e gli puntò una lama insanguinata alla gola scoperta.

    Sabino osservò desolato l’agile e piccola liburna, appena visibile nella luce crescente, che a vele spiegate e i remi in acqua li superava a un quarto di miglio di distanza a una velocità che né la trireme né le biremi potevano sperare di eguagliare a lungo. «Non ne ho più bisogno. Finiteli».

    Un’esplosione di suppliche terrorizzate si levò dai prigionieri quando il primo di essi venne ucciso e Sabino ebbe un moto di disgusto per se stesso per aver ordinato la loro morte solo per l’irritazione di essere stato superato in astuzia. «Aspetta, Tracio!».

    Il centurione si fermò proprio mentre la punta della spada pungeva la gola di un secondo prigioniero urlante e alzò lo sguardo sul suo superiore.

    «Gettateli in mare; possono cercare scampo insieme agli altri. Poi riporta i tuoi uomini sulla nostra nave».

    Mentre i soldati obbedivano all’ordine, Sabino tornò alla trireme, riflettendo su quella che sapeva sarebbe stata una lettera molto difficile da scrivere a Pallante, il liberto preferito di Claudio, nonché il vero uomo che deteneva il potere all’ombra del trono di uno sciocco bavoso e malleabile. Neanche suo fratello Vespasiano che, grazie all’influenza di Pallante, era destinato a diventare console suffetto per gli ultimi due mesi dell’anno, sarebbe stato in grado di proteggerlo dall’ira di chi era al potere.

    E la loro ira sarebbe stata giustificata.

    Sabino non si faceva illusioni; aveva fallito in modo catastrofico e adesso la delegazione si avviava a fare rapporto al Grande Re nella sua capitale, Ctesifonte, sul Tigri.

    Non ci sarebbe stato modo di nascondere la sua colpa. Era una certezza il fatto che Pallante avesse agenti anche tra i daci e la notizia del fallimento di Sabino lo avrebbe raggiunto nel giro di un mese o due. Anche Narciso e Callisto, i liberti rivali che Pallante aveva superato in astuzia, rendendo Agrippina imperatrice, e relegando a un ruolo secondario Claudio, avrebbero saputo senz’altro del suo fallimento. Avrebbero fatto in modo di sfruttarlo come arma politica nella feroce lotta intestina che imperversava nel palazzo imperiale.

    Sabino maledisse la debolezza dell’imperatore che dava luogo a una politica tanto esplosiva e maledisse gli uomini e le donne che volgevano a proprio vantaggio tale debolezza. Ma soprattutto maledisse la propria debolezza: la nausea che lo assaliva ogni volta che metteva piede su una nave. Quella sera lo aveva frastornato, inducendolo in errore.

    A causa di quella debolezza, aveva deluso Roma.

    PARTE PRIMA

    Roma, dicembre 51 d.C.

    Capitolo I

    Persistente e acuto, il grido riecheggiò tra le mura e le colonne di marmo dell’atrio; un tormento per coloro che dovevano sopportarlo.

    Tito Flavio Vespasiano digrignò i denti, deciso a restare indifferente al pietoso gemito che si levava e poi calava, cessando di tanto in tanto per un affannoso respiro, prima di esplodere di nuovo a pieni polmoni con rinnovato vigore. La sofferenza che trasmetteva doveva essere affrontata e Vespasiano sapeva che se gli fosse mancato il coraggio, avrebbe perso lo scontro di volontà in atto. E quella era una cosa che non poteva permettersi di fare.

    Una nuova cacofonia di angoscia giunse dal fagotto fremente tra le braccia della moglie e i suoi movimenti furono illuminati dal tremolante chiarore del fuoco di ciocchi che crepitava e scoppiettava nel focolare dell’atrio. Vespasiano fece una smorfia e poi alzò la testa e piegò il braccio sinistro davanti a sé mentre lo schiavo personale gli drappeggiava la toga attorno al corpo muscoloso e compatto, sotto lo sguardo di Tito, il figlio undicenne.

    Con il pesante indumento di lana finalmente disposto in modo soddisfacente e gli ululati che non davano segno di diminuire, Vespasiano indossò le calzature senatoriali di cuoio rosso che lo schiavo gli porgeva.

    «I talloni, Hormus». Hormus fece scorrere un dito attorno al retro di ciascun stivaletto in modo che i piedi del padrone fossero ben calzati. Poi si alzò e indietreggiò con deferenza, lasciando Tito al cospetto del padre.

    Facendo del suo meglio per restare calmo mentre il frastuono raggiungeva nuove vette, Vespasiano osservò Tito per qualche momento. «L’imperatore continua a venire ogni giorno per controllare i progressi di suo figlio?»

    «Quasi tutti i giorni, padre. E oltre a Britannico, fa domande anche a me e agli altri ragazzi».

    Vespasiano trasalì a uno strillo particolarmente acuto e si sforzò di ignorarlo. «Cosa succede se sbagliate?»

    «Sosibio ci picchia dopo che Claudio se n’è andato».

    Vespasiano nascose al figlio l’opinione, affatto favorevole, che aveva del grammaticus. Erano state le mendaci accuse di Sosibio, su richiesta di Messalina, che tre anni prima avevano messo in moto la serie di eventi culminati con la falsa testimonianza di Vespasiano contro l’ex console, Asiatico, allo scopo di proteggere suo fratello, Sabino. Servendosi di Vespasiano come strumento consenziente, tuttavia, Asiatico aveva avuto la sua vendetta dalla tomba e Messalina era stata giustiziata. Vespasiano era stato presente mentre Messalina strillava e imprecava fino all’ultimo respiro. Ma Sosibio era ancora al suo posto, dal momento che le accuse montate erano state corroborate dalla falsa testimonianza di Vespasiano.

    «Vi picchia spesso?».

    Il volto di Tito si indurì in un’espressione sofferta, sorprendendo Vespasiano per quanto il figlio gli somigliava. Il naso grosso non così pronunciato, i lobi non così lunghi, la mascella non così forte e la testa piena di capelli invece della mezza corona attorno alla cima; ma non ci si poteva sbagliare: Tito era suo figlio. «Sì, padre, ma Britannico dice che è perché la sua matrigna, l’imperatrice, gli ha ordinato di farlo».

    «Allora negate ad Agrippina quel piacere e assicuratevi che Sosibio non abbia motivo di picchiarvi oggi».

    «Se lo fa, sarà l’ultima volta. Britannico ha pensato a un modo per farlo mandare via e al tempo stesso insultare il suo fratellastro».

    Vespasiano arruffò i capelli di Tito. «Non farti coinvolgere in alcuna faida tra Britannico e Nerone».

    «Sosterrò sempre il mio amico, padre».

    «Solo assicurati di essere discreto». Vespasiano prese nella mano il mento del ragazzo e gli esaminò il viso. «È pericoloso, capisci?».

    Tito annuì adagio. «Sì, padre, credo di sì».

    «Bene, va’ adesso. Hormus, accompagna Tito alla sua scorta. I ragazzi di Magno stanno aspettando?»

    «Sì, padrone».

    Mentre Hormus conduceva via Tito, gli strilli continuarono. Vespasiano si voltò verso Flavia Domitilla, sua moglie da dodici anni. Lei sedeva fissando il fuoco senza fare niente per confortare il neonato tra le braccia. «Se davvero vuoi che i miei clienti ti scambino per la nutrice quando li faccio entrare per la salutatio mattutina, mia cara, allora ti suggerisco di attaccarti al seno il piccolo Domiziano e cantargli ninnananne galliche».

    Flavia sbuffò col naso e continuò a fissare le fiamme. «Per lo meno penseranno che possiamo permetterci una nutrice gallica».

    Vespasiano spinse in avanti la testa, perplesso, incapace di credere a quanto aveva appena udito. «Di cosa stai parlando, donna? Abbiamo una nutrice gallica; è solo che stamattina hai scelto di non chiamarla e sembri invece decisa a far morire di fame il bambino». Per sottolineare il suo ragionamento, prese un pezzo di pane della colazione da poco abbandonata, lo intinse nella ciotola di olio d’oliva e prese a masticarlo con gusto.

    «Non è gallica! È spagnola».

    Vespasiano soffocò un sospiro di esasperazione. «Sì, viene dall’Hispania ma è una celta, una celtibera. Appartiene alla stessa razza di grossi uomini delle tribù che tutte le più raffinate donne di Roma scelgono per fare allattare i propri figli. È solo che quando i suoi antenati varcarono il Reno, non si fermarono in Gallia ma continuarono al di là delle montagne, fino in Hispania».

    «E perciò produce latte così acquoso che neanche un gattino sopravviverebbe».

    «Il suo latte non è diverso da quello di qualsiasi altra celta».

    «Tua nipote si fida ciecamente della sua donna allobrogia».

    «Come Lucio Giunio Peto sceglie di viziare sua moglie è affare suo. A ogni modo, secondo me, lasciare che un neonato patisca la fame perché la sua nutrice non proviene da una delle più eleganti tribù celtiche è l’azione di una madre irresponsabile».

    «E secondo me, trascinare una moglie a vivere nello squallore del Quirinale e poi non consentirle di comprare il personale di cui ha bisogno per occuparsi della famiglia è l’azione di un marito e padre insensibile e senza cuore».

    Vespasiano sorrise tra sé ma mantenne un’espressione neutra, adesso che erano giunti al cuore del problema. Due anni e mezzo prima Vespasiano aveva sfruttato i suoi buoni rapporti con Pallante, mentre il liberto si conquistava la posizione più prestigiosa alla corte di Claudio, per allontanare Flavia e i loro figli dall’appartamento nel palazzo imperiale, dove avevano vissuto per gran parte dei quattro anni che aveva passato come legato della ii Augusta in Britannia. La soluzione era stata proposta da Claudio apparentemente perché i rispettivi figli potessero essere educati insieme e anche perché Messalina, all’epoca moglie di Claudio, avesse compagnia a palazzo. Tuttavia Vespasiano sapeva che era stato il fratello di Messalina, Corvo, a manipolare l’imperatore in tal senso così da avere potere di vita e di morte su Flavia e i loro figli. Dopo la morte violenta di Messalina, Pallante aveva mantenuto la promessa di persuadere Claudio affinché consentisse a Vespasiano di trasferire la famiglia in una casa in Via del Melograno, sul Quirinale, vicino a quella di suo zio, il senatore Gaio Vespasio Pollione.

    La cosa non aveva fatto piacere a Flavia.

    «Se consideri insensibile proteggere la mia famiglia dai danni della politica imperiale e senza cuore essere oculato col denaro, in modo da non essere soggetto alle frivolezze delle signore alla moda, allora mia cara hai compreso il mio carattere alla perfezione. È già abbastanza brutto che Tito vada al palazzo ogni giorno per studiare con Britannico, ma questo è stato il prezzo imposto da Claudio per consentire il vostro trasferimento; avendo fatto giustiziare la madre del ragazzo, non voleva che il figlio venisse privato anche del suo piccolo compagno di giochi. Di certo il fatto che nostro figlio venga educato insieme a quello del figlio dell’imperatore è sufficiente a soddisfare la tua vanità, malgrado il pericolo che corre; non credi che ciò ripaghi di tutto questo squallore?».

    Con un gesto molle, indicò l’atrio di discrete dimensioni che li circondava. Pur ammettendo che le decorazioni non fossero all’altezza di quelle del palazzo – essendo stato costruito centocinquant’anni prima, durante il tempo di Gaio Mario – ciò che mancava in fatto di splendore con il pavimento a mosaico a motivo geometrico bianco e nero o gli sbiaditi affreschi di scene bucoliche, destinati a ingannare l’occhio dell’osservatore, facendogli credere di guardare attraverso delle finestre, veniva compensato dallo sfarzo imposto da sua moglie. Era infatti zeppo di arredi e ornamenti che Flavia aveva comprato nel delirio di spese folli sotto la dissoluta influenza di Messalina.

    Vespasiano trasaliva ogni volta che osservava l’arredo della stanza che circondava l’impluvium, il laghetto con una fontana di Venere al centro: bassi tavoli di lucido marmo con gambe dorate, coperti di ornamenti in vetro o argento, statuette di pregiato bronzo o cristallo lavorato, divani e sedie, tutti intagliati, dipinti e imbottiti. Non era per via della volgarità, questo poteva sopportarlo anche se offendeva il suo gusto contadino per le cose semplici della vita, ma per la quantità di denaro che era stato sprecato. «Di certo il fatto che tutte le altre donne discutano gelose se Agrippina farà uccidere Tito insieme a Britannico mentre spiana a suo figlio Nerone la strada per la successione al patrigno è sufficiente a farti sentire speciale e al centro dell’attenzione. Com’è desiderio di ogni donna che si rispetti, vero?».

    Flavia strinse così forte il fagotto del loro bambino di due mesi che per un momento Vespasiano temette che gli avrebbe provocato qualche danno. Poi si rilassò e si alzò, tenendosi il neonato al seno con le lacrime agli occhi. «Dopo tutto quello che ho fatto per te, per noi, dovresti portarmi un po’ di rispetto, Vespasiano. Sei uno dei consoli in carica; io dovrei potermi mostrare come la moglie di un console e non di umile arrampicatore della classe equestre…».

    «Cosa che, a pensarci bene, è ciò che siamo entrambi».

    La bocca di Flavia si spalancò ma non ne uscì alcun suono.

    «Adesso, mia cara, aprirò ai miei clienti la porta su tutto questo squallore; mi saluteranno non solo come il padrone di questo squallore, ma anche come il console di Roma in grado di fare loro grandi favori e ignoreranno il fatto che provengo da una famiglia sabina che può vantare solo un senatore prima di me e mio fratello, proprio come ignoreranno il mio rozzo accento sabino. E poi, sbrigata la salutatio, come console di questa città consegnerò pubblicamente uno dei più grandi nemici di Roma all’imperatore perché lo punisca. Se vuoi, tu e nostra figlia potete venire ad assistere, insieme a tutte le altre donne, e potrai goderti tutti i falsi complimenti che ti faranno. O forse hai troppa paura di mostrarti in pubblico perché tuo marito ti ha comprato una nutrice che appartiene a una tribù che è talmente fuori moda da non riuscire neanche a produrre latte decente?».

    Vespasiano si girò e fece segno allo schiavo di aprire. Fu con un certo sollievo che udì il brusco scalpiccio dei piedi di Flavia che si ritirava al di sopra dei vagiti del figlio più piccolo.

    Vespasiano sedeva sulla sedia curule davanti all’impluvium al centro dell’atrio; il delicato zampillo della fontana, che usciva da un vaso sulla spalla di Venere, rimase costante mentre la luce dell’alba cresceva, conferendo una sfumatura plumbea al realistico torso nudo della dea illuminato dalle lampade a olio. Dietro di lui c’era Hormus, che prendeva appunti su una tavoletta di cera. A ciascun lato erano disposti i dodici littori che lo accompagnavano, come console, ovunque a Roma; portavano i fasci e le asce legate alle verghe, simbolo del suo imperium. Tuttavia, non era il potere civico quello che Vespasiano stava esercitando adesso, bensì quello personale mentre l’ultimo e meno importante dei suoi circa duecento clienti veniva a salutarlo.

    Vespasiano rivolse all’uomo un cenno del capo. «Oggi non ho bisogno di te, Balbo, puoi tornare alle tue faccende una volta che mi avrai accompagnato al Foro».

    «È

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