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Ritorno ad Harlem
Ritorno ad Harlem
Ritorno ad Harlem
E-book237 pagine3 ore

Ritorno ad Harlem

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Info su questo ebook

"Ritorno ad Harlem" non è solo un romanzo: è una vera e propria celebrazione, un ballo cadenzato dalle note di quello sfrenato jazz che ha cristallizzato per sempre, nell'immaginario di tutti, i "ruggenti anni Venti". Ma qui non parliamo di Gershwin, né, tantomeno, del Grande Gatsby. Il mondo da cui muove Claude McKay è infatti quello della New York afroamericana, di una Harlem che, successivamente ai disagi della Grande Guerra, ha attirato migliaia di neri dal sud degli Stati Uniti e da altre zone dell'America, tutti con l'obiettivo di dare vita a una scenografia per le proprie speranze di emancipazione. Il cosiddetto Rinascimento di Harlem è un'epopea vitale, sanguigna, perennemente sospesa fra la disperazione della miseria e il vitalismo di una comunità che cerca di costruirsi un proprio spazio di libertà. Una lettura imprescindibile, per tutti e a ogni latitudine. -
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2023
ISBN9788728470794
Ritorno ad Harlem

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    Anteprima del libro

    Ritorno ad Harlem - Claude McKay

    Ritorno ad Harlem

    Translated by Alessandra Scalero

    Original title: Home to Harlem

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1928, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728470794

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    All’Amica

    LOUISE BRIAYNT

    PREFAZIONE

    Preludio a un libro negro dovrebbe essere un «blues» malinconico e soave: a questo libro negro, che di un «blues» ha la risonanza suggestiva e malinconica…

    Prefazione? Rigida parola per questa tenue storiella, per questo delicato poema in prosa, fiore esotico che ha l’aria quasi smarrita tra la lussureggiante vegetazione della odierna letteratura d’oltremare, Preludio è questo a un libro negro, a questo libro negro, un «blues» suggestivo e malinconico…

    Ritorno ad Harlem… Non è già il titolo stesso di un «blues», il quale risente nel nome della città olandese la bonomia di quel popolo che, colonizzando, fu il meno crudele contro i negri? Ai quali Harlem, nel nome, rammenta le prime condiscendenze degli uomini bianchi, le prime liberazioni dalla schiavitù? Ma qui si parla della nuovaHarlem, in America, — quartiere negro di Nuova York — di quella Harlem, che trenta anni fa era tranquilla come quella della Frisia sul Mare del Nord, benchè più vivace di colore. Erano, allora, negri in calzoni di nanchino a righe rosse e bianche, erano negre in sgargianti calicots ed in madras cui l’abito europeo di panno o di seta avrebbe creato impaccio; e sventolìo di falbalà inamidati, e l’ondeggiar di chiome lanose sull’ebano e l’avorio, sotto cieli assolati torridi d’estate; era, allora, il cake walk, padre dello shimmy, nonno dello charleston, bisnonno del black bottom, antenato del «blues».

    Nelle quattro danze, quattro epoche: dalla schiavitù negra al gentleman negro. È scomparso l’uomo ingenuo, mattacchione, che stupiva di tutto, è scomparso lo Zio Tom; e la sua capanna è oggi cottage, come la casa dei bianchi. Oggi il negro può essere anche di una eleganza precisa, talora quasi esagerata; e facilmente assume le caratteristiche del mestiere ch’egli esercita; esso è cameriere d’albergo e di Pullman, frigido e compassato; è facchino e scaricatore di porto, suonatore di saxofono e di banjo; è dottore in medicina, commerciante, avvocato; non è più il negro schiavo, è un uomo come tutti gli altri, è soldato e sacerdote, e comincia ad essere artista, dopo i saggi primitivi del suo talento di artigiano. Si è evoluto.

    Con lodevole opportunità, Ritorno ad Harlem giunge terzo nel breve ciclo di volumi di letteratura negra inserito nella collezione «Scrittori di tutto il Mondo». Sul «problema negro», fattosi più vivo in questi ultimi anni, nella improvvisa rivelazione di una razza che ha energie e qualità insospettate, molto è stato detto, e con rara competenza, nelle prefazioni di «Sua Maestà Nera» e del «Paradiso dei Negri». Ben poco resta quindi a dire a chi fu affidata la cura di rendere in italiano e presentare questo libro.

    «Ritorno ad Harlem» grandemente si differenzia dai due libri precedenti: Claude McKay, l’autore, è un autentico negro; e più che il «problema negro», ci pare che praticamente egli affronti qui il problema dell’arte negra.

    Esiste un’arte negra?

    In Europa il negro sub specie artistica è giunto a noi soprattutto per le arti figurative: la scultura, la decorazione, i tessuti a colore; e la musica. Ora è la volta della letteratura. All’infuori di pochi canti e liriche, sparse qua e là in antologie, l’unico libro negro che finora abbia messo il campo a rumore è «Batouala» di René Lalou. I paragoni sono sempre odiosi; nè è questo il luogo di discutere dove, in René Lalou, si arresti il negro e dove cominci il parigino. Ricorderemo che a lui arrisero, meritati e discussi, gli allori del Premio Goncourt.

    Molto vi sarebbe a dire sull’originalità di un’arte negra. La scultura negra, o meglio africana, forma artisticamente quanto mai originale, è rimasta quella che era: primitiva. Quanto alla musica, essa è un portato dei tempi moderni, ibrido innesto di vocalizzazioni ritmiche e ritmi più che motivi africani, su temi moderni popolari americani, viennesi, ebraici financo; e il negro, più che inventore, ne è stato esecutore.

    Di una tradizione letteraria negra non è il caso di parlare; nulla di efficace, di veramente vivo ci è tramandato all’infuori dei frammenti dianzi rammentati. Il problema artistico negro ci si presenta ex novo nei rapporti di un’arte moderna; e nel suo improvviso affacciarsi su di uno schermo internazionale assai ricco, si manifesta in forme definite di novella e romanzo, sotto aspetti che sanno già di decadentismo; perfettamente aderente alla civiltà americana, dalla quale ha assimilato lingua e costumi. Il negro, infatti, si serve di una lingua che non è la sua, di un ambiente che lo ospita, presso il quale si è ormai assuefatto, perdendo le originarie semplici tendenze e contraendo abitudini, desideri, follìe, mali nord-americani.

    Nel «Paradiso dei Negri», il tormento del negro che aspira a farsi letterato è ampiamente reso. Supponiamo che i nostri lettori abbiano ormai fatto conoscenza con quel malinconico Byron Kassoon; figura di rara originalità nella letteratura moderna, il quale, dopo vani sforzi per evadere dal mondo, nel quale la sua razza lo ha collocato, e riuscire al suo intento creativo, finisce per restare quello che è; e i nostri lettori si avvedranno del misero straccio umano in esso personificato; sprovvisto, se non di sensibilità, certo d’ingegno vero e proprio, e, soprattutto, di volontà. Se nel «Paradiso dei Negri» Mary è una patetica e dolce figura, vera Solveig negra, Byron è un meschino fantoccio, che non può indirizzare a pensar bene dell’ingegno negro; gli manca, come ai Nord-americani, il senso storico e filosofico della vita e del pensiero; gli manca la quadratura mediterranea, che manca del resto ai yankees; gli manca la facoltà di trascendere, se pure ha quella tutt’affatto utilitaria del yankee. Ma Carl Van Vechten, l’autore del «Paradiso dei Negri», è un americano, di quella numerosa schiera di autori del suo paese, come Eugenio O’ Neill, Du Bose Heyward, Sherwood Anderson, i quali hanno rivolta la loro attenzione al negro, alla sua evoluzione, alla sua psicologia, ai suoi costumi; non è un negro. Claude McKay, invece, è l’uomo d’ebano e d’avorio, e nel suo libro il personaggio negro non è più oggettivo, ma soggettivo. Avviene in «Ritorno ad Harlem» ciò che nel «Paradiso dei Negri» è prospettato: il negro che aspira a liberarsi dall’interdetto fatale che incombe sulla sua razza, a evader dalla negra malinconia che nel corpo ne ha fatto una bestia da fatica, nello spirito non un mistico come il paria indiano, non un fachiro, ma un ignaro.

    L’autore stesso, il quale appare proiettato in uno dei protagonisti, Ray, è ciò che il Byron di Van Vechten vorrebbe essere; ma l’aspirazione di Byron è scomposta, e il suo essere tutto un tumulto di malnate passioni; mentre Ray è un semplice di cuore. Egli ha sempre presente innanzi a sè di essere «un negro», e più non chiede; egli non chiede di esser messo a pari con un bianco. È più vero, è migliore del negro veduto con gli occhi preoccupati di un bianco geloso della sua supremazia. È in Ray la pura gioia infantile di appartenere a una nazione grande e forte. «Oh, essere cittadini bianchi di un paese al quale sia permesso dir parole ardite, provocanti, al pari di un uomo vigoroso! Quanta diversità dalla sottile estatica gioia, che un uomo prova per il romantico fatto di esser nato negro! Qualcosa che l’uomo bianco mai potrà sentire nè interamente comprendere…».

    Finora abbiamo presentato come protagonista Ray, negro evoluto, personaggio evidentemente autobiografico. In realtà il personaggio principale, verso cui convergono le simpatie dell’autore, è Jake, l’allegro spensierato moretto, che seguiamo nelle sue peregrinazioni da Marsiglia a Londra alla sua adorata Harlem «sempre più negra». Il negro reca, in arte, il dono di un temperamento, non di una tradizione; e perciò questo libro è tutto colore, tutto fantasia; quasi folkloristico anche nella scelta di questo variopinto ambiente di Harlem, la metropoli nera cui il negro ritorna con sempre rinnovato entusiasmo per le consuetudini che s’è ormai assimilato nel suo paese d’adozione: i bars, le case da giuoco, i cabarets adorni di multicolori luci…

    Ma non vogliamo defraudare il lettore delle amabili impressioni che proverà in questa gioiosa scorribanda attraverso il mondo negro; già ci avvediamo di avviarci verso un tono grave, che non avremmo voluto assumere fin da principio, perchè ci sembrerebbe di sottoporre a un vaglio troppo stretto questo grazioso libro, che promana tutta la ingenuità e la nativa freschezza di una bizzarra razza che pare voglia conquistare il mondo cantando e ballando. Tra le pagine di esso vibra tuttavia la subcoscienza malinconica di quel sottile estatico sentimento che solo il negro conosce, che al negro fa sentire come ballando e cantando non si conquista il mondo, ma solo la gioia di dimenticarlo; e ciò potrebbe essere la gioia d’esser romantico perchè negro.

    Questa la melodia di «blues» di cui Claude McKay ha intessuto le pagine della sua storia.

    Alessandra Scalero.

    Gressoney-St.-Jean, settembre 1929.

    PARTE PRIMA

    I.

    TORNANDO A CASA

    Tutto ciò che Jake sapeva del piroscafo da carico, a bordo del quale faceva il fuochista, era che, fra cielo e acqua, puzzava maledettamente. Egli lavorava insieme con una sudicia scorta di arabi. Il capitano l’aveva arruolato a Cardiff, perchè uno degli arabi aveva disertato. Jake era abituato a ogni sorta di mestieracci, ma non gli era mai avvenuto di lavorare in un luridume simile.

    I marinai bianchi che lavavano la nave, si rifiutavano di pulire la latrina dei fuochisti, perchè disprezzavano gli arabi; e gli arabi non si davan certamente cura di tenerla pulità, benchè fosse attigua alle loro cuccette.

    I cuochi odiavano gli arabi perchè non mangiavano carne di porco, tanto che, ogni volta che veniva servita carne di maiale, bisognava preparare qualche altra vivanda per gli arabi. I cuochi allestivano la carne per i fuochisti in pezzi cincischiati, in una gran casseruola, e due qualità di legumi in altre due casseruole. Il fuochista che portava il mangiare ai compagni poneva sempre le casseruole l’una dentro l’altra, e qualche volta il fondo sporco di quella superiore faceva che si mischiassero nell’altra bucce di patate e gusci d’uovo, con la carne e la verdura.

    Gli arabi pescavano i pezzi di carne con le dita nere di carbone, ne mordevano o strappavano dei lacerti co’ denti e gettavano il resto nelle casseruole. Jake trovava buffo che quella gente si lavasse dopo aver mangiato, e non prima. Mangiavano con le vesti incollate alla pelle da una malta di carbone e di sudore. Quando avevan finito, si lavavano ignudi e andavano a dormire nel sudiciume fetido delle cuccette. Jake era avvezzo alle più basse e ardue fatiche; tuttavia il suo ottimo stomaco mal tollerava quel modo di mangiare. Per questo anch’egli incominciò a diprezzare gli arabi; e si lamentò del pasto con i cuochi. Diede poi un biglietto da dieci scellini al capo cuciniere, che gli servì da mangiare a parte.

    Uno dei marinai tentò di ingraziarsi Jake.

    — Voi siete proprio come noialtri bianchi; non siete come quei sudici cialtroni di facchini arabi.

    Ma Jake sorrise e scosse il capo con un fare pieno di riserve. Sapeva che se egli fosse stato proprio come uno dei marinai bianchi, l’avrebbero ingaggiato per lavorare sopra coperta, e non come fuochista. In ogni modo, poco gli importava della vecchia carcassa sudicia. Essa lo riconduceva a casa: era ciò che gli premeva. Faceva regolarmente il suo turno, lavorando quattro ore e riposandosi per otto; ma dormiva male. Le cuccette dei fuochisti erano pidocchiose, e mandavano un lezzo misto di vivande stantìe e di latrina. Jake aveva tentato di tener pulito quel luogo, ma non vi riuscì. Certamente gli arabi dovevan ritenere che le cabine potessero servire anche da immondezzaio.

    — Pizzica fin che ti pare, signor pidocchio, — diceva Jake. — Rulla pure, signor battello, e puzza fin che ti piace. Tutto quel che ti chiedo è che tu mi porti fino ad Harlem. Muoio dalla voglia di riveder le belle ragazze brune, giù per la Lenox Avenue. Che bellezza!

    Jake era alto, robusto e nero. Quando l’America dichiarò la guerra alla Germania, nel 1917, egli faceva lo scaricatore di porto. Lavorava a Brooklin su di un pontile, insieme con una ventina di uomini ai suoi ordini. Era già un piccolo padrone, e grande amico del suo principale, ch’era un irlandese. Parve allora a Jake assai bello rompere la testa ai tedeschi, e si arruolò.

    Nell’inverno, s’imbarcò per Brest con un’allegra brigata di color cioccolato come lui, e fabbricò castelli in aria e sperò di darle sode. La sua compagnia fu trattenuta invece a Brest, ed egli trasportò legname, assi, pali e puntelli per le centinaia di baracche che si costruivano alle porte di Brest e lungo la costa verso Saint Pierre, dove sorgevano gli alloggiamenti per le truppe americane.

    Fu per Jake una delusione: si era arruolato per combattere. Per che altro aveva ficcato la baionetta nel ventre di un pupazzo, e imparato a tirar dritto nell’occhio vibrante di un toro? Ammassar legname, e schiamazzar coi camerati bianchi al Bal Musette non era certamente una vita d’avventure.

    Ottenne un permesso, indossò l’abito civile, e prese il volo per Le Havre. Si abbrutì di liquori, e per una settimana s’insediò da fannullone in un piccolo caffè di Le Havre.

    Finchè, un bel giorno, un marinaio di una corvetta inglese in servizio sulla Manica, gli girò intorno e gli disse:

    — O moro, mi sembra che te la passi bene qui.

    Jake avvertì la stranezza di esser chiamato «moro» dall’inglese, ma non se n’ebbe a male. Laggiù, a casa, avrebbe preferito sentirsi chiamar «negro», perchè sapeva che quando un yankee dice «negro» esprime odio, mentre dicendo «moro» sottintende un compassionevole dispregio. Egli preferiva assai l’odio dei bianchi al loro dispregio; l’odio yankee lo rendeva forte e aggressivo, mentre il disprezzo suscitava in lui, quasi suo malgrado, soltanto una buffa rabbia.

    — Si, che me la passo benino, — rispose Jake; arrotolando una sigaretta e mandando accidenti al tabacco francese. — Spero, — aggiunse — di cambiar aria presto.

    — Dove? — chiese il nuovo compagno.

    — In un posto qualunque. Io vado sempre in cerca di novità, — sentenziò Jake.

    — È da molto tempo che sei a Le Havre?

    — Da una settimana o due. Avevo certi muli da condurre quaggiù. Una ventina di giorni, maledetti, siamo stati sul mare. Poi la barca ha girato al largo e mi ha piantato in asso. Hai capito?

    — Non hai avuto fortuna, — replicò l’altro. — Sei mai stato a Londra?

    — Mai, camerata. La Francia è l’unico paese dove ho messo piede finora, da questa parte dell’acqua.

    L’inglese raccontò a Jake che a bordo del suo rimorchiatore avevan bisogno d’un uomo in più.

    — Da quando c’è la guerra, non abbiamo mai avuto l’equipaggio completo, — disse.

    Jake passò a Londra. Trovò da far bene nei cantieri. Gli piacquero i West India Docks; gli piacque Limehouse. Nelle taverne, la gente gli stringeva amichevolmente la mano e lo chiamava «moro». Quell’appellativo, così come lo usavano, gli andò a genio. Fece delle amicizie. Si trovò una donna; e fu felice nell’East End.

    Fu là che l’armistizio lo sorprese; e la sera di Capodanno del 1919 andò con la sua bella, gli amici di cantiere e le loro donne, a un veglione in Mile End Rode.

    L’armistizio aveva portato a Londra molti altri uomini di colore: a centinaia. Alcuni di essi trovavan lavoro; altri non ne trovarono. Molti avevano una piccola pensione dal governo. Il prezzo del piacere salì alto in East End, e ne aumentò la dignità. Nell’estate successiva, infatti, Jake assistette a una gran battaglia tra gli uomini di colore e i bianchi di East End. Per tre giorni la sua donna non lo lasciò uscir di casa, per evitargli pugni, rasoiate, coltellate e sparatorie. Quando tutto fu finito, lo assalì la tremenda febbre della solitudine. Si sentì isolato nel mondo, e desiderò di sfuggire al generoso cuore dalla sua signora di East End.

    — Perchè mai mi sono arruolato e son venuto quaggiù? — si chiese. — Perchè mi sono immischiato in una guerra di uomini bianchi? I negri son sempre dei gran pazzi, cercano sempre di ficcare il naso nelle cose dei bianchi.

    La femmina di Jake ora non sapeva più che fare per contentarlo. Si adoperò per penetrare e dividere le ansie di lui; ma per Jake quella donna non era più che un essere di un’altra razza, di un altro mondo. Giorno e notte egli macchinava dentro di sè.

    Eran due anni da che aveva lasciato Harlem, e la Quinta Avenue, Lenox Avenue e la 135. Strada con le loro ragazze bruno-cacao e bruno-noce, lo richiamavano.

    — Oh, quelle gambe! — sospirava Jake. — Che supplizio di Tantalo, quelle gambette brune! E il cabaret di Barron, e il cabaret di Leroy? Oh, ragazzi miei!

    Ragazze brune, truccate e dipinte come viole del

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