Dio, come ti amo
Di Alex Sander
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Info su questo ebook
Marek, un promettente tuffatore polacco, giunge in Italia con la ferma intenzione di vincere i Campionati Europei di Torino, ma un’infezione agli occhi lo obbliga a un ricovero immediato.
I due ragazzi si ritrovano nella stessa stanza di ospedale e quello che poteva sembrare uno scontro fortuito si rivela un incontro voluto dal destino. Tra Rufo e Marek scatta un’attrazione irrefrenabile che in un lampo divampa nella passione.
Ben presto però la degenza si conclude, la vita li reclama a gran voce, e Rufo e Marek sono costretti a separarsi. Tutto sembra congiurare perché non possano riunirsi mai più. Nessuno dei due però è in grado di dimenticarsi dell’altro. Possibile che quell’attrazione carnale sia già diventata un legame più prezioso, per cui vivere e lottare?
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Anteprima del libro
Dio, come ti amo - Alex Sander
1
Quando le infermiere portarono nella stanza il ragazzo dai capelli rossi, ancora semi-incosciente per via dell’anestesia indotta prima dell’intervento agli occhi, Marek era steso supino sul suo letto, le braccia dietro la nuca a fissare il soffitto.
Pensava a quanto fosse imprevedibile la vita, appesa davvero al filo della casualità. Casuale era stato, infatti, il suo essersi appassionato alla disciplina dei tuffi che praticava ormai da più di tredici anni.
Insieme al suo amico d’infanzia Jaroslaw aveva cominciato a frequentare un corso di nuoto, dopo la scuola, nella piscina del paese. L’allenatore si era accorto subito delle qualità di Marek e lo aveva sempre spronato a fare di più e meglio. Gli aveva assicurato che sarebbe potuto diventare un vero campione se solo si fosse impegnato al massimo e soprattutto se avesse lasciato perdere quello che dicevano i suoi compagni e tutti gli altri. A quanto pareva non gli era sfuggito che negli spogliatoi Marek era diventato il bersaglio dei ragazzi più grandi che frequentavano i corsi superiori e che lo provocavano definendolo il cocco del coach
.
Di contro, i suoi compagni – e Jaroslaw più di tutti – lo istigavano a non seguire i consigli dell’allenatore. Fare la vita dell’atleta era una cosa davvero dura, troppa disciplina, troppi allenamenti e, soprattutto, niente ragazze.
«A te piacciono le ragazze, vero, Marek?» gli chiedeva sempre l’amico sotto le docce. Ma ogni volta che la risposta era un silenzio assordante, Jaroslaw rideva in modo sguaiato e si esibiva in gesti osceni, suscitando le risate dei presenti.
A Marek, però, il nuoto piaceva davvero. Si sentiva bene quando entrava nella vasca, diventava un tutt’uno con quell’elemento naturale. Scivolare velocemente sotto o sopra il pelo dell’acqua lo faceva sentire invincibile e in fuga verso una vita diversa da quella che conduceva a Frombork.
Era appena un ragazzino, Marek, ma già si sentiva fuori posto in quel piccolo mondo lontano; aveva intuito di non essere come tutti i suoi compagni di scuola. A lui le ragazzine non facevano battere il cuore. Era Jaroslaw che gli procurava turbamenti quando si avvicinava e soprattutto quando lo abbracciava. Avrebbe pagato tutto l’oro del mondo per trascorrere il tempo a lottare con il suo amico, a rotolarsi sul pavimento, pur di essere toccato da lui e di poterlo toccare.
Durante le notti insonni era con questi pensieri che Marek combatteva, pensieri che, seppure li considerasse innaturali, lo facevano stare bene. Proprio in una di quelle notti aveva deciso di scappare via da lì e fare di tutto per stare bene. Lui era fatto così, era ingiusto provare vergogna. Ma era più facile a dirsi che a farsi. Dopo essere entrato in un’associazione sportiva universitaria, il nuoto era diventato la sua seconda pelle. Aveva imparato a conoscere la disciplina atletica e si sottoponeva a duri allenamenti. Tutti i santi giorni. Contemporaneamente si era allontanato dai suoi compagni di scuola, e al primo anno di liceo quelli che ancora frequentava erano ormai pochissimi. Si era isolato da tutta la classe, con i compagni si limitava solo al saluto e a qualche scambio durante le ore di lezione. Per Marek esisteva solo il nuoto.
Un pomeriggio, aveva quindici anni, mentre era seduto sul bordo della piscina ad ammirare Patryk, un ragazzo più grande per il quale si era preso una cotta, aveva deciso di fare la prima mossa. Voleva conoscerlo a tutti i costi e scelse il modo più semplice: impressionarlo. Salì sul trampolino da tre metri mentre Patryk era con il suo allenatore a discutere di una rotazione del busto da migliorare. Entrambi smisero di parlare e osservarono Marek che si era fermato sulla punta del trampolino.
Marek però aveva studiato abbastanza il suo Patryk, tanto da replicarne i movimenti. Si esibì in un tuffo semplice ma perfetto, che strappò un fischio all’allenatore di Patryk e un applauso a quest’ultimo. Uscendo dall’acqua i due ragazzi si sorrisero. Marek non ottenne altro da quel biondino che gli rendeva le notti difficili.
In compenso, cambiò la sua vita atletica e dal nuoto passò ai tuffi. Una disciplina ancora più dura del nuoto, che sottoponeva il suo corpo a sforzi notevoli, durante gli allenamenti. Allenamenti che erano diventati sempre più estenuanti quando Marek aveva cominciato a diventare un campione, prima regionale e poi nazionale, fino a diventare una delle punte di diamante su cui la Polonia aveva fatto affidamento.
Una mattina, Edyta, la sua allenatrice, che lo osservava da giorni e aveva notato uno strano arrossamento agli occhi, dopo aver vinto la sua ostinazione, lo aveva accompagnato a fare un controllo. Il primario che lo aveva visitato aveva infatti riscontrato un’infezione anomala alle cornee, dovuta probabilmente a un agente patogeno che, chissà come, era finito nell’acqua della piscina dove Marek si stava allenando. Così gli aveva consigliato il ricovero per una serie di analisi più approfondite, e dopo le insistenze della sua allenatrice Marek si era convinto.
Il professor Bortoli era stato chiaro. «Giovanotto, la sottoporremo nelle prossime settantadue ore a una serie accurata di analisi e visite. Abbiamo la necessità di scongiurare una patologia ben più grave. Magari, come è più auspicabile, si tratta di una semplice infezione curabile con comunissimi antibiotici. Ma non possiamo stabilirlo adesso, su due piedi. Capisce che dovrà stare lontano dall’acqua, vero? In una maniera o nell’altra.»
Così aveva predisposto il ricovero immediato e, mentre Edyta era uscita per recarsi nella struttura sportiva dove alloggiavano da una decina di giorni a recuperare alcuni effetti personali, Marek era stato accompagnato nella stanza numero diciotto al terzo piano della Clinica Oculistica Umberto I di Roma.
Quell’imprevisto aveva gettato Marek nello sconforto. Avrebbe compiuto ventisei anni il prossimo ottobre ed era al culmine della sua carriera di tuffatore a livello internazionale. Mancavano venti giorni ai Campionati europei di Torino e non avrebbe mai rinunciato a gareggiare. Non dopo l’ultimo anno trascorso tra duri allenamenti e privazioni di ogni tipo; non dopo aver vinto nuovamente – per la terza volta – il titolo agli assoluti della sua nazione. La Polonia, e con essa suo padre e la sua allenatrice, nutrivano grandi speranze.
«Vedrai che si tratta solo di un’infezione, Marek, non devi fare quella faccia,» gli aveva sussurrato l’allenatrice durante il tragitto che dallo studio del primario conduceva alla sua stanza.
«Come fai a essere così tranquilla, tu?»
Edyta non aveva risposto e si era limitata a un sorriso stiracchiato. Marek sapeva che era preoccupata e stava cercando di non darlo a vedere. Eppure, non poteva ingannarlo, lui la conosceva meglio delle sue tasche.
«Lo so che sei in ansia. Lo sento. Accidenti, questa non ci voleva proprio! Ho due gare da fare, capisci?» Marek cominciò a turbarsi.
«Non agitarti, per favore. Non serve a nulla,» gli rispose prontamente la donna.
«Ma come faccio? Questo fastidio agli occhi… da lassù non riesco a mettere a fuoco la superficie dell’acqua e il mio punto fisso. Così rischio di andare a sbattere la testa sulla piattaforma!»
«Infatti tu non farai più alcun tuffo, giovanotto!» esclamò Edyta sgranando gli occhi. «Non fino a quando avremo la certezza che la situazione sia sotto controllo.»
Marek non rispose.
«Sono stata chiara?» concluse bloccandolo per un braccio in corridoio. L’infermiere che li accompagnava si fermò qualche metro più avanti e si girò a guardarli.
«Sì, sei stata chiara,» sospirò Marek. Non gli restava altro che tranquillizzarsi davvero e attendere i risultati dei controlli.
Pensava a tutto questo il giovane Marek, con gli occhi sgranati nel vuoto tanto da non accorgersi di aver catturato l’attenzione di una delle due infermiere che, spostato nel proprio lettino l’altro paziente, che nel frattempo riposava tranquillo, stavano lasciando la stanza. La ragazza sembrava affascinata dagli incredibili occhi grigi che dominavano il suo volto squadrato, grazie anche ai capelli rasati, tanto biondi da sembrare trasparenti. Ancor di più, però, l’infermiera pareva essere attratta dalla perfezione dei suoi addominali, scolpiti su una carnagione leggermente abbronzata. Marek, infatti, che in quel momento indossava solo le mutande, si era coperto fino all’addome ed esibiva con esuberanza tutta giovanile la parte superiore del corpo.
«Zuccheri’,» intimò a Marek l’altra infermiera, decisamente più grande, «te conviene de coprirti, a zia tua! Qui dobbiamo lavorare, anche se ci piacerebbe restare per lo spettacolo…»
La voce profonda, quasi mascolina, della donna lo distolse dai suoi pensieri, e non avendo capito nulla di quanto quella gli stava dicendo, la fissò smarrito. L’infermiera, rapida come una faina, mimò il gesto di coprirsi; Marek allora ubbidì immediatamente, divorato dall’imbarazzo. Ridendo sguaiatamente la donna urlò: «E che mi diventi rosso, zuccheri’?» Poi se ne andò, seguita dalla sua giovane collega.
Erano trascorsi alcuni minuti quando il suo compagno di stanza, un ragazzo dalla chioma rossa e fasciato da una spessa bendatura che gli ricopriva gli occhi, cominciò ad agitarsi. Le infermiere lo avevano coperto fino al collo con le lenzuola e due coperte; nella camera, però, nonostante fosse ancora febbraio, faceva un caldo insopportabile ed era inevitabile che il poveretto ne stesse soffrendo.
Marek, voltandosi nella sua direzione, aveva notato che alcune ciocche di capelli gli si erano appiccicate alla fronte e in parte sulla guancia. Lanciò prima uno sguardo furtivo verso la porta d’ingresso e assicuratosi che non ci fosse nessuno in corridoio si alzò velocemente e lo raggiunse.
Doveva essere giovanissimo, pensò, o almeno così gli sembrava. La sua capigliatura ondulata possedeva una strana lucentezza che contrastava nettamente con il viso diafano e contemporaneamente richiamava le labbra carnose, che erano di un rosso accesso. Una impercettibile barba, rossiccia come la chioma, gli copriva il viso, donandogli una sensualità a cui Marek non riuscì a sottrarsi. Quel ragazzo era bellissimo.
Mentre immaginava come sarebbero stati i suoi occhi, celati sotto il bendaggio, si accorse che una lacrima era appena scivolata dal lato destro e lenta scendeva sullo zigomo. Fu un attimo, istintivo: Marek, incurante del fatto che questi fosse sveglio e presente, rubò con il suo indice quella lacrima. Poi, senza pensarci su, se la fece scomparire tra le labbra. Ladro gentiluomo, sorrise infine soddisfatto.
Subito dopo, agendo sempre furtivamente e con gli occhi ancora puntati verso la porta, gli scoprì leggermente la parte superiore del petto con l’intenzione di lasciargli le braccia libere e poggiate sulla coperta. Sarebbe stato decisamente più fresco.
Aveva già liberato la mano destra del ragazzo e s’apprestava a fare altrettanto con la sinistra, quando questa gli bloccò improvvisamente, ma con estrema delicatezza, il polso. Fu come ricevere una scossa bollente. Marek trattenne il fiato e restò piegato su di lui senza emettere un suono. Contemporaneamente il malato aveva cominciato a bisbigliare qualcosa, agitando il viso da una parte all’altra del cuscino ma tenendo sempre salda la presa sulla mano di Marek.
«Vuoi acqua?» domandò Marek.
Nessuna risposta.
«Hai sete?» chiese ancora.
Il giovane sembrò capire quello che la voce proveniente dal buio in cui era stato costretto gli stava dicendo, annuì lievemente con il capo e sussurrò: «Acqua, sì. Per favore…»
Marek parlava discretamente l’italiano