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Chi muore e chi uccide
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Chi muore e chi uccide
E-book428 pagine4 ore

Chi muore e chi uccide

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Info su questo ebook

Una sequela di violenze si susseguono tra le tensioni e le paure della pandemia ancora in corso, mentre le vite di tre individui, completamente diversi l’uno dall’altro, si trovano invischiate nella stessa scia di sangue. Il vicequestore Minischetti dovrà sfruttare tutti gli strumenti in suo possesso per riuscire a capire cosa collega gli omicidi di tre giovani donne, avvenuti diciotto anni prima, a un killer di professione e a una donna accusata di aver ucciso il suo stesso figlio.

Tra le strade avvolte nell’indeterminatezza dovuta al virus e ai lockdown, l’oscura ombra della morte genera un terrore incontrollato, che si impossessa della quotidianità e anche dei sogni al punto che, con drammatica rassegnazione, c’è un’unica certezza sull’esistenza alla quale ci si può appellare: al mondo c’è chi muore e chi uccide. 
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2022
ISBN9788831399883
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    Anteprima del libro

    Chi muore e chi uccide - Vincenzo Padovano

    PARTE I

    CHI MUORE

    GENNAIO 2002

    «Pronto, 118.»

    «Aiutatemi, vi prego. È successa una cosa terribile. Dovete venire subito.»

    «Signora, cerchi di calmarsi e mi descriva l’emergenza.»

    «C’è una testa sul tavolo della mia cucina.»

    «Una…?»

    «Una testa. Qualche minuto fa non c’era. Ho accompagnato mio figlio allo scuolabus, e quando sono tornata… È piccola e tutta sporca di sangue. Oh, mio Dio! C’è sangue dappertutto.»

    «Signora, mi sente?»

    «Sì, la sento. Ma fate presto. Non c’è tempo da perdere. Perché ci mettete così tanto?»

    «Signora, mi dica come si chiama e da dove telefona, altrimenti non posso esserle d’aiuto.»

    «Oh, Gesù! Sbrigatevi, ve lo chiedo in ginocchio. Il corpo è sotto il tavolo.»

    «Ha detto un corpo, signora?»

    «Sì, un corpo. È piccino. È steso a terra. Gli ho detto di mettersi in piedi, ma non si muove. Dovete mandare un’ambulanza. Subito!»

    «Signora, dove si trova? Almeno questo riesce a dirmelo?»

    «Sono a casa, credevo fosse chiaro. Ma fate presto. Magari la testa si può ancora riattaccare.»

    «C’è qualcuno lì con lei? Qualcuno che può passarmi al telefono.»

    «No. Sono sola. Mio marito è uscito mezz’ora fa per andare in ufficio. Venite, vi scongiuro!»

    «Signora?»

    «Sì?»

    «Faccia un bel respiro, conti fino a tre e mi dica il suo nome e da dove chiama.»

    «…»

    «Signora…?»

    «Non me lo ricordo. Gesù, non me lo ricordo.»

    «Non ricorda come si chiama?»

    «Non ricordo la via. Non ricordo dove abito. Gesù! Non potete localizzare la telefonata o qualcosa del genere?»

    «Non nell’immediato, signora. Sta chiamando da un cellulare. Ma se mi fornisce il numero del fisso…»

    «Non ce l’abbiamo il fisso. L’abbiamo tolto.»

    «Allora è proprio necessario che mi dia il suo indirizzo, cominciando dalla città.»

    «C’è un coltello accanto alla testa. Dovete muovervi. Potrebbe essere ancora in casa.»

    «A chi si riferisce, signora?»

    «…»

    «Signora…?»

    «Oh, santo…! C’è qualcosa nel ripostiglio. Qualcuno… Lo sento. Avevo ragione. È ancora in casa.»

    «C’è un vicino che può chiamare, signora? Ho proprio bisogno di sapere da dove sta telefonando per poterla aiutare.»

    «Vivo in una villetta. I vicini sono troppo lontani e… Oooh!»

    «Signora, cosa sta succedendo?»

    «È nel ripostiglio. Lo sento. Rantola. Dovete mandare i soccorsi.»

    «Signora, si concentri e cerchi…»

    «La porta…»

    «Come dice?»

    «La porta del ripostiglio…»

    «Signora…?»

    «La porta del ripostiglio si sta aprendo.»

    «Signora…»

    «C’è un uomo qui con me. Deve aiutarmi, la supplico. È mostruoso. Non ha la faccia. Mi aiuti! La prego. Glielo chiedo in ginocchio.»

    «Signora, sto contattando la polizia. Forse loro…»

    «Sta venendo verso di me. Adesso gli vedo gli occhi. Ha solo gli occhi. Niente faccia. Mio Dio! Sta’ lontano. Aaah! Sta’ lontano da me!»

    «Signora, sto…»

    «Via! Via!»

    «Signora?»

    «…»

    «Signora, mi sente?»

    «…»

    «Signora, in questo momento è in contatto anche con il pronto intervento della polizia. Stanno cercando… Signora…?»

    «…»

    «Mio Dio, signora, è ancora in linea? Cosa sono questi rumori?»

    «…»

    «Signora, mi sente? Signora, la prego, risponda.»

    «…»

    SETTEMBRE 2019

    Il nastro a bande oblique bianche e rosse era teso fra alcuni paletti d’acciaio piantati nel terreno per delimitare la zona.

    L’area circoscritta includeva il primo tratto di una pista sterrata che si inoltrava nei campi partendo dalla complanare. C’erano poi un casolare abbandonato dell’Opera Nazionale Combattenti, una Ford station wagon bianca e gran parte di un cervello umano. L’organo, in poltiglia, condito con sangue ormai raggrumato, frammenti ossei e pezzetti di vetro, si stava asciugando al sole a metà strada tra la costruzione e il veicolo.

    Nella Ford c’era un uomo accasciato sul volante: il proprietario della materia grigia. Il suo stesso sangue gli gocciolava addosso dalla cappotta. Il cranio gli finiva appena sopra l’orecchio.

    Qualunque cosa gli fosse passata per la testa prima di morire doveva essere stata di grosso calibro.

    Con quel che gli rimaneva della fronte, aveva suonato il clacson fino a quando un tecnico della Scientifica non aveva messo fine allo strazio scollegando la batteria. Era stato quel rumore insistente a richiamare l’attenzione del contadino che aveva ritrovato il corpo.

    Il vicequestore Minischetti aveva un brutto presentimento. Gli sembrava di vivere un déjà-vu che non voleva saperne di scomparire. Un mese prima, un povero cristo era stato trovato in un boschetto non lontano da lì, con la testa attaccata al volante della sua auto e il cranio scoperchiato. Proprio come l’uomo nella station wagon.

    Cercando di non strappare i copriscarpe monouso che aveva dovuto indossare per non incasinare la scena del crimine, Minischetti si avvicinò ai tre individui che stazionavano accanto alla vettura. Due indossavano una tuta integrale di Tyvek. Il terzo era in giacca e cravatta.

    Il più alto non aveva né ciglia né sopracciglia. L’ispettore Di Niro era affetto da alopecia totale e, con gli occhiali protettivi che gli penzolavano dal collo, era riconoscibile anche con il cappuccio tirato su.

    Il dottor Mossuto, il medico legale, era distinguibile dalla pancia enorme che minacciava di strappargli la tuta. Aveva ancora tutti i dispositivi di protezione al loro posto, ma sembrava non vedere l’ora di raggiungere gli specialisti ERT, gli Esperti di Ricerca Tracce, e gli altri tecnici della Scientifica che, conclusi i rilievi, si erano assiepati intorno ai loro pick-up modificati, al di là del nastro, in compagnia degli agenti che di solito tenevano lontani i curiosi quando l’omicidio non avveniva, come in quel caso, nel bel mezzo di un campo di pomodori a raccolta finita.

    Il tizio in abiti civili era il sostituto procuratore Guglielmo Lamanna. Anche lui aveva le scarpe coperte.

    Alla vista del magistrato, il brutto presentimento di Minischetti aumentò di intensità.

    Si salutarono tutti con un silenzioso cenno del capo.

    «Quale onore!» esordì il pubblico ministero. Non aveva motivo di fare ironia e non la stava facendo. Era solo un po’ gradasso. «Mi aspettavo al massimo una capatina del sostituto commissario.» Si riferiva al comandante della sezione Omicidi. «E invece… Il gran capo in persona.»

    Minischetti non replicò. Si limitò a rivolgergli un sorriso di circostanza. Non gli piaceva perdersi in chiacchiere in presenza di un cadavere.

    Andò al sodo.

    «Allora, chi abbiamo qui?» Lo chiese sapendo che a rispondergli non sarebbe stato il medico. Minischetti non l’aveva mai sentito parlare al di fuori di un’aula di tribunale per una deposizione.

    Anche Lamanna sapeva chi sarebbe stato ad aprir bocca. «Le tocca ripetere tutto,» disse, strizzando l’occhio a Di Niro. Annuendo, l’ispettore consultò il tablet che aveva fra le mani guantate.

    «Giovanni Mantuano. Quarantadue anni. Sposato. Padre di due figli. Proprietario dell’auto. Idraulico. Nato e residente in città. Incensurato.»

    Minischetti pensò: Cristo!

    «Nel portafogli abbiamo trovato trecento euro più qualche spicciolo, e una carta Bancoposta con tanto di codice segreto scritto a mano su un foglietto.»

    Cazzo! Quelle informazioni erano gravide di spiacevoli implicazioni.

    Minischetti sentì il suo brutto presentimento salpare verso le inospitali coste di un’atroce certezza.

    Il tizio ucciso nel boschetto era abruzzese, di passaggio in Puglia per lavoro. Era pertanto improbabile che avesse qualche rapporto con l’uomo nella Ford. Pure lui non era stato rapinato. Inoltre, anche lui era stato un signor nessuno.

    In una provincia che comprendeva città in cui i pregiudicati rappresentavano la metà della popolazione residente, conteggiati anche i bambini, un signor nessuno era una persona onesta. Qualcuno non affiliato né alla Società né ad alcun altro clan connesso. Se due individui con la fedina penale pulita, senza collegamenti fra loro, venivano ammazzati intenzionalmente a un mese di distanza l’uno dall’altro, con le stesse modalità e senza essere stati derubati, allora bisognava per forza di cose cominciare a pensare a qualcuno che sceglieva le sue vittime a caso.

    E Minischetti odiava il caso.

    Odiava gli omicidi che non erano dettati da rancori o gelosie, dall’avidità, dalla vendetta, dalla necessità di dare l’esempio o di mandare un messaggio per meglio controllare il territorio.

    Odiava quei crimini che non potevano essere risolti scandagliando le dinamiche interne alle cosche o le problematiche interne a una famiglia.

    Odiava i pazzi, gli assassini seriali e i terroristi, ammesso che fossero tipologie di persone differenti. Nelle rare occasioni in cui ci aveva avuto a che fare, aveva perso il sonno. Letteralmente.

    In quelle circostanze, sua moglie Eleonora, da buon medico qual era, gli aveva consigliato di lasciare la Mobile e di farsi trasferire in pianta stabile all’Antimafia. Sempre che tu non voglia rischiare di morire d’insonnia, è ovvio!

    «Gli hanno sparato a bruciapelo o a distanza molto ravvicinata,» continuò Di Niro. «Difficile stabilirlo con esattezza al momento, visto che il proiettile si è portato dietro mezza testa, oltre al finestrino.» L’ispettore fece scorrere lo sguardo dalla vittima alle schegge di vetro cadute a terra accanto all’auto. Poi si voltò per posare gli occhi sulla materia cerebrale spiaccicata al suolo a qualche metro di distanza. Infine indicò col mento le due striscette metriche che evidenziavano il foro praticato dall’ogiva nel muro laterale del casolare. Quindi tornò a fissare il poveretto nella Ford. «L’omicidio è avvenuto un paio d’ore fa,» asserì.

    Il medico legale diede segno di sé annuendo. Continuava a guardare gli uomini fuori dalla scena, confermando quanto smaniasse di autorizzare la rimozione del cadavere. Minischetti sapeva che era un fumatore incallito, forse sentiva l’impellenza di danneggiarsi ulteriormente i polmoni.

    Di Niro proseguì: «L’assassino si trovava presumibilmente sul sedile del passeggero o al massimo appena fuori dal veicolo, come l’altra volta.» Si riferiva all’omicidio del boschetto. «È verosimile che l’assassino abbia costretto la vittima a guidare fin qui. Quindi l’ha ammazzato. Poi si è allontanato a piedi. Questo è certo. Sono state rinvenute impronte fresche da qui alla complanare. Scarpe da ginnastica numero 45. Proprio come l’altra volta. Un omone, in pratica.»

    «Proiettile?» Minischetti lo chiese temendo la risposta.

    L’ispettore non lo smentì.

    «Calibro .50 Action Express. Un canne mozze avrebbe probabilmente fatto meno danni. Proprio come l’altra volta,» ripeté Di Niro.

    Considerata la specificità della cartuccia, l’ispettore non ebbe bisogno di puntualizzare che la pistola usata era quasi certamente una IMI Desert Eagle, una mostruosità di fabbricazione israeliana, utilizzata perlopiù come arma da caccia nei Paesi in cui ciò è consentito. Proprio come l’altra volta. Più potente di un revolver camerato per .44 Magnum. Nel calibro 12,7 x 33 mm, forse la pistola più potente al mondo, con un rinculo in grado di spezzare le clavicole. Una bestia per uomini grandi e grossi che calzavano sneaker taglia 45. Una rarità, inoltre. Difficile che in provincia ce ne fossero due esemplari in mano ad altrettanti squilibrati. Più plausibile che in circolazione ce ne fosse una sola che aveva ucciso due volte. Minischetti era certo che la balistica avrebbe confermato la sua teoria.

    «Dobbiamo sperare che qualcuno nei paraggi abbia visto un energumeno sporco di sangue e cervello da capo a piedi,» si augurò. Se l’assassino non si era portato dietro un ricambio, visto il macello che c’era nell’abitacolo, doveva essersi imbrattato quasi al pari della vittima. La volta precedente non c’erano stati testimoni. Adesso, chissà.

    «Abbiamo già contattato la moglie,» riprese Di Niro, indicando il cadavere. «In questura ci sono agenti pronti a ricostruire tutti i suoi spostamenti. Magari, questa volta, riusciamo a individuare qualche telecamera utile e a scoprire chi, dove e quando è salito in macchina.»

    Questa volta. Perché, un mese prima, l’omicidio e tutti gli eventi significativi che l’avevano preceduto non erano stati immortalati in alcun filmato. E dire che c’era un sacco di videosorveglianza lungo la statale che bisognava percorrere per raggiungere il boschetto. L’assassino era stato molto fortunato. O forse la fortuna non c’entrava nulla, il che era un male.

    Minischetti scrollò il capo e guardò Lamanna, che gli fece l’occhiolino. Il magistrato era anche titolare delle indagini sull’omicidio dell’abruzzese. Ecco perché, appena l’aveva visto, Minischetti aveva sentito il suo brutto presentimento rafforzarsi. Certo, era possibile che avessero mandato lui perché in quel momento era di turno. Ma poteva anche darsi che non fosse una coincidenza. Forse la procura lo aveva designato subodorando già la necessità di unire i fascicoli relativi ai due delitti. Minischetti pensò di chiedergli se le cose stessero così o meno. Alla fine non lo fece. Era irrilevante. Le similitudini fra i due reati erano lampanti.

    Il medico legale sbuffò, mentre Di Niro, riprendendo il discorso da dove l’aveva interrotto, se ne uscì con un’affermazione scontata. Disse: «Ovviamente, tutto ciò che è stato repertato e fotografato, oltre all’auto e al cadavere, sarà esaminato con priorità assoluta.»

    Ovviamente, per l’appunto. Doveva andare così. Priorità assoluta.

    Quando veniva ucciso un signor nessuno, la gente si spaventava.

    Voleva sapere cos’era successo, o almeno cosa gli inquirenti pensavano che fosse successo.

    Voleva saperlo per potersi tranquillizzare o per cominciare a preoccuparsi sul serio nel caso in cui fosse venuto fuori che non si trattava di un delitto maturato in ambito familiare o criminale.

    Voleva risposte, insomma.

    E le voleva subito.

    1

    Settembre 2020


    La ragazza stava per morire, ma ancora non lo sapeva.

    D’altronde, se lo avesse saputo, non si sarebbe trovata lì in quel momento.

    Sarebbe già stata in fuga. O a casa sua, a preparare la fuga.

    E invece se ne stava in piedi sulla linea tratteggiata che consentiva l’accesso a una delle tante piazzole che punteggiavano la statale. Poggiando tutto il peso su una gamba, teneva l’altra leggermente piegata. Aveva il braccio destro teso in avanti e il pollice in alto. Guardava in direzione dei veicoli che sopraggiungevano, in attesa che qualcuno si fermasse. Non sembrava avere fretta.

    Era spacciata.

    Vedendo quanto lui fosse grosso, avrebbe potuto decidere di non salire in macchina. Ma così facendo, non avrebbe fatto altro che procrastinare l’inevitabile di qualche minuto, qualche ora al massimo.

    Era una settimana ormai che Ivan la pedinava facendo attenzione a non farsi notare.

    Tre quarti d’ora prima, l’aveva vista uscire di casa con una borsa molto più capiente e pesante della pochette che aveva portato con sé nei giorni precedenti. Era per quel motivo che aveva deciso di ucciderla al più presto, possibilmente entro l’ora di pranzo.

    In prossimità della piazzola, Ivan cominciò a decelerare. Si fermò una decina di metri dopo averla superata, lasciando un po’ di spazio fra il lato destro della vecchia Lancia Delta e il guardrail.

    Accese le quattro frecce e mise in folle.

    Tamburellando le dita sul volante, usò il retrovisore per monitorare i movimenti della ragazza.

    La vide accennare una corsa verso l’auto dopo un attimo di esitazione.

    Con un sospiro di sollievo, Ivan si allungò al di sopra del sedile del passeggero e abbassò il finestrino girando la maniglia. Nei primi anni Ottanta non c’erano alzacristalli elettrici.

    Qualche secondo più tardi, la ragazza fece capolino nell’abitacolo, stringendo la tracolla della borsa per impedire che le scivolasse dalla spalla. Aveva ventinove anni ed era bellissima. A parere di Ivan, era perfetta in ogni dettaglio, dagli occhi stupendi, fino alle gambe ben tornite.

    Aveva i lisci capelli neri raccolti in una coda con un pratico elastico rosa. Adesso che si era piegata, mostrava involontariamente quanto di stupendo ci fosse sotto la camicia a mezze maniche che indossava sopra i jeans aderenti.

    Ivan ne fu distratto, anche se solo per un momento.

    «Ho avuto un problema con il mio macinino,» esordì lei, sorridendo imbarazzata. Teneva la mascherina arrotolata sotto il mento. Guardò a sinistra. «L’ho parcheggiato in un tratturo laggiù. Più tardi manderò un carro attrezzi a recuperarlo, sempre che nel frattempo non lo facciano sparire.»

    Ivan annuì. Sapeva già tutto. Così come durante l’ultima settimana, anche quella mattina aveva cominciato a tallonarla dal momento in cui era uscita di casa. L’aveva vista salire sulla Fiesta bianca parcheggiata davanti al portone e, mantenendosi ad almeno un paio di veicoli di distanza, l’aveva seguita in quella che sembrava essere diventata la sua routine mattutina da due giorni a quella parte. In pratica, la ragazza guidava fino alla Garganica, la percorreva per un tratto, imboccava un’uscita secondaria, sempre la stessa, e lasciava l’auto sul margine di un tratturo, sempre lo stesso. Poi proseguiva a piedi sulla complanare per qualche chilometro, passando davanti a una stazione di servizio dismessa, fino ad arrivare a una stradina sterrata, che sfociava in uno spiazzo breccioso nascosto alla vista degli automobilisti che transitavano sulla statale da un capannone in rovina. Quindi faceva il percorso a ritroso. Recuperava la macchina e se ne tornava in paese.

    Quella mattina, tuttavia, dopo aver abbandonato l’utilitaria nel solito posto, aveva raggiunto la più vicina piazzola di sosta e si era messa a fare l’autostop. Osservandola da lontano, Ivan aveva avuto conferma dei sospetti suscitati dalla borsa e aveva capito che era arrivato il momento di uccidere, tanto più che lei gli stava offrendo un’occasione d’oro.

    «Ma ora devo proprio andare in ufficio. È il primo giorno dopo sei mesi di smart working. Se non mi presento, il mio capo mi ammazza.»

    Ivan la fissò a lungo in silenzio. Poi sfoderò il suo sorriso migliore. Lo fece per evitare che lei ci ripensasse e decidesse di aspettare qualcun altro con un aspetto meno truce.

    «Monta su.»

    Radiosa di riconoscenza, lei aprì lo sportello e salì a bordo. «Grazie,» cinguettò. «Mi ha salvato la vita.»

    Ivan non le disse che le cose stavano esattamente al contrario.

    2

    Il bambino era un amore.

    Aveva riccioli biondi da cherubino e guance paffute da riempire di baci e pizzicotti.

    Nonostante l’età, era ben saldo sulle gambine. Sorridendole teneramente, le tendeva il ciuccio che si era appena tolto di bocca, come a volerglielo offrire.

    Melania avrebbe tanto voluto renderlo orfano. Sempre che la donna che gli stava accanto fosse sua madre.

    La stronza, poco più che una ragazzina, si era voltata accorgendosi che il bimbo stava interagendo con qualcuno alle sue spalle, e l’aveva riconosciuta all’istante. Rimanendo aggrappata al carrello stracolmo, gli occhi al di sopra della FFP2 le si erano colmati di terrore in un battibaleno. Aveva stretto il piccolo per una spalla e lo aveva rimproverato in maniera blanda, dicendogli di non infastidire gli estranei.

    «Non si preoccupi,» la rassicurò Melania, resistendo alla tentazione di saltarle alla gola. «Non mi disturba affatto.» Sorrise al piccino con la parte di viso scoperta.

    La stronza la prese male. Corrugando la fronte, si rabbuiò ulteriormente e indusse il figlio a girarsi guidandolo con la mano. «E invece mi preoccupo,» disse, tornando a guardare in avanti. «Eccome se mi preoccupo.»

    Melania immaginò di pestarla a morte. Magari avrebbe potuto fracassarle il cranio con il barattolo di pelati che teneva nel cestino. Dio, quanto le sarebbe piaciuto!

    Ciò che fece, invece, fu sospirare più e più volte per scacciare quei brutti pensieri. Stava diventando brava a farlo. Non glielo aveva insegnato uno psicologo. Era una tecnica che aveva ideato da sé. Sospirava e continuava a ripetersi che la violenza era qualcosa che non le apparteneva. Che non doveva appartenerle.

    Il suo turno arrivò quando ormai era quasi riuscita a calmarsi del tutto.

    Mentre la stronza caricava le buste nel carrello aggiungendovi all’ultimo anche l’angioletto, Melania cominciò a svuotare il cestino. La cassiera dietro il plexiglas era un’altra strega. Conosceva bene Melania, ed evitava sempre e accuratamente di rivolgerle la parola, se non per dirle quanto dovesse pagare. La dipendente si mise all’opera passando i prodotti sul lettore con un’aria di superiorità morale che nemmeno la mascherina riusciva a celare.

    Melania notò quell’atteggiamento. Lo notava sempre. Ma tutte le volte riusciva a non farsi destabilizzare. In quell’occasione, però, si ritrovò a occhieggiare il barattolo di salsa che scorreva sul nastro trasportatore in attesa di essere scansionato, e le venne di nuovo voglia di usarlo come oggetto contundente.

    Fu costretta a ripetere la procedura di prima: Sospiro. La violenza non mi appartiene, non deve appartenermi. Sospiro… E così via.

    Riprese il controllo di se stessa in tempo per chiedere una busta, riempirla e pagare in contanti.

    Nel parcheggio antistante al supermercato, sbloccò le portiere del SUV da una ventina di metri di distanza, con il telecomando.

    Raggiunta l’auto, ficcò la busta nel portabagagli.

    Stava per aprire la portiera e mettersi al volante, quando sentì un risolino ovattato. Il bambino di prima, seduto su un seggiolino, ridacchiava tutto contento dietro il finestrino posteriore destro della vettura posteggiata accanto alla sua.

    Melania combinò un guaio. Lo fece senza pensarci. Si trattò di una spontanea manifestazione di umanità che però, a quanto pareva, non era concessa ai reietti come lei. Picchiettò con un’unghia sul vetro per richiamare l’attenzione del piccino, poi, togliendosi la mascherina, gli fece una faccetta buffa.

    Lui le sorrise e le fece ciao ciao con la manina.

    Lo sportello del posto di guida si spalancò all’improvviso. La stronza si era tolta la FFP2. Quando cominciò a urlare, emise droplets in quantità. Era fuori di sé. Girò attorno al cofano della sua auto e si avvicinò a Melania, fermandosi comunque a più di un metro di distanza forse per via di un istinto post lockdown.

    Le puntò contro un dito.

    «Io so chi sei, brutta puttana,» latrò. «Credevi che non l’avessi capito, vero? Sei Mema. Ti ho vista in televisione. Tutta l’Italia ti ha vista in televisione. Tutti hanno sentito le tue stronzate sullo spettro nero o come cavolo lo chiamavi. I mostri come te dovrebbero fucilarli, non farli andare in giro come se niente fosse.» Alzò le braccia al cielo per poi farsele ricadere lungo i fianchi. «Ma dove siamo arrivati in questo Paese del cazzo. Comunque, lascia in pace mio figlio e vedi di sparire dalla mia vista. Subito. Altrimenti chiamo la polizia.» Le comparve un telefonino tra le mani. «Giuro che lo faccio.»

    Melania strinse un pugno. Poi l’altro. Sapeva che stavolta non sarebbero bastati sospiri e mantra di autoconvincimento per soffocare le sue pulsioni. Quando è troppo è troppo. Fu però salvata da suo marito e dai loro ragazzi. Non che fossero lì in quel momento, ma un attimo prima di avventarsi contro la stronza, pensò a loro e si bloccò.

    Le volevano tanto bene e non poteva deluderli. Non di nuovo.

    Distese le mani. Chiuse gli occhi. Li riaprì. «Oscuro,» disse. «Lo spettro era oscuro, non nero.»

    La madre dell’angioletto la fissò con la bocca spalancata. Forse pensava di aver scoperto che Mema era molto più pazza di quanto si credesse.

    Melania scosse la testa. Entrò in macchina, mise in moto e se ne tornò a casa.

    3

    Uccideva sua moglie sempre più spesso.

    La maggior parte delle volte si limitava a spararle in un occhio con la pistola d’ordinanza.

    In alcune occasioni la strozzava a mani nude o la strangolava con una corda.

    Talvolta la pugnalava al cuore.

    Più di rado, la affogava nella vasca da bagno o le sbatteva la testa contro un muro fino a deformargliela o ad aprirgliela in due.

    Qualunque cosa le facesse, lei tornava sempre.

    Non sapeva perché continuasse ad ammazzarla. L’amava più di ogni altra persona al mondo. Non avevano figli, lei era tutta la sua vita. Se fosse morta, morta per davvero, lui non avrebbe avuto più alcun motivo per andare avanti.

    Tuttavia, quella mattina, il vicequestore Marco Minischetti fu svegliato da uno sparo. Dal colpo di pistola che metteva fine a un altro suo sogno ricorrente e alla vita di un ragazzo che aveva appena ucciso la propria fidanzata. Un ragazzo che lui aveva sopraffatto ed era quasi riuscito a disarmare ma che alla fine, intuendone le intenzioni, aveva lasciato andare.

    Ogni volta, il cuore gli partiva al galoppo come non gli succedeva nemmeno dopo aver assassinato Eleonora. Era una sequenza onirica altamente drammatica, tanto più che non si trattava di un semplice incubo. Era più che altro la rivisitazione in alta definizione e nei minimi dettagli di ciò che era realmente accaduto qualche mese prima, in una camera d’ospedale. Non fosse stato per l’alto numero di testimoni che aveva assistito alla vicenda, lo si sarebbe potuto definire il suo sporco segreto.

    Dopo essersi concesso qualche secondo per riprendersi, Minischetti allungò un braccio. Tastando la porzione di materasso ancora leggermente calda alla sua sinistra, scoprì che Eleonora si era già alzata nonostante la sveglia sul comodino segnasse le cinque e ventidue e lei non fosse di turno, quel giorno.

    Si liberò della copertina che a settembre cominciava a tornare utile. Poi sbuffò e si mise seduto. Cercò le pantofole con i piedi, le trovò e si alzò. Fece una capatina in bagno, quindi se ne andò in cucina.

    Lei era seduta al tavolo. Con una mano teneva il manico di una tazza di latte fumante, con l’altra reggeva il cellulare. Di tanto in tanto strisciava il pollice sullo schermo. Aveva i capelli

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