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Nature morte a Firenze: La nuova indagine di Simòn e Mezzanotte
Nature morte a Firenze: La nuova indagine di Simòn e Mezzanotte
Nature morte a Firenze: La nuova indagine di Simòn e Mezzanotte
E-book352 pagine5 ore

Nature morte a Firenze: La nuova indagine di Simòn e Mezzanotte

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Info su questo ebook

Firenze. C’è un nuovo artista in città. Un pittore. Si aggira per i vicoli con i suoi colori, in cerca di soggetti da dipingere. Vittime. Perché lui sceglie attentamente le persone da ritrarre e prima di farlo le uccide e le mette in posa. Infine lascia la sua opera sulla scena del crimine. Lo scopo ultimo di un atto creativo che è solo distruzione. Sfida, follia o estro espressivo portato oltre limiti invalicabili, le “nature morte” costringeranno il commissario Franco Mezzanotte e Simòn Renoir a percorrere una strada tortuosa che ha origini lontane nel tempo. Chi si nasconde dietro quei dipinti? E perché l’assassino pittore sembra conoscere tanto bene Simòn, da far credere agli inquirenti che sia lui stesso il misterioso artista di morte? L’indagine spaccherà in due perfino la questura e metterà in dubbio tutte le certezze. Anche le più solide.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2015
ISBN9788869430657
Nature morte a Firenze: La nuova indagine di Simòn e Mezzanotte

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    Anteprima del libro

    Nature morte a Firenze - Simone Togneri

    Rosso

    Il colore a volte è tutto.

    L’uomo lo sa. Per questo trascina il pennello sulla tela senza fretta, lasciando che il rosso penetri nel tessuto reso più robusto dall’impasto di colla e gesso. Immerge le setole nel colore fin quasi al limite del colletto di metallo, lo accosta al bordo della tazza per togliere l’eccesso. La tazza ha il manico rotto. Vicino al manico c’è il musetto di Topolino che sorride.

    L’uomo alza la testa verso il modello, la abbassa di nuovo sulla tela. Sta ricurvo come un gigante nella casa di cartone di un bambino. Le mani guantate armeggiano con un tubetto di colore, lo aprono, lo spremono nella tazza. Rosso vermiglio. Lui ama il rosso vermiglio perché gli ricorda il sole. Gli avevano detto che il sole non è rosso. Al tramonto sì, rispondeva lui. E lui adora il tramonto perché è lì che il giorno diventa notte.

    La fiamma della candela vacilla appena per un alito di vento che entra dalla finestra accostata. L’uomo alza la testa e annusa l’aria notturna: pane fresco. L’odore del pane viene subito cancellato da quello della trementina, dell’olio di lino cotto e dei colori. La fiamma ondeggia ancora accanto al barattolo del solvente. È pericoloso tenere il solvente vicino alla fiamma. È così che a volte scoppiano gli incendi negli atelier dei pittori. Ma l’uomo non ha tempo di spostare la candela o il barattolo. Il dipinto: non riesce a pensare ad altro. È per quello che lui adesso vive. La tela è lo specchio della sua mente dove dare corpo ai sogni. O agli incubi.

    L’uomo alza di nuovo la testa verso il modello. Spreme il rosso sulla tela. Vi strofina il pennello intriso di solvente e la densità si attenua fin quasi a diventare trasparenza. Lo strato sottostante, però, non è ancora perfettamente asciutto e si amalgama al velo di colore. Lui si morde le labbra sotto la mascherina. Non deve avere fretta di finire. Tempo. È solo questo di cui ha bisogno. Anche se non ha tutto quello del mondo. Nessuno resta immobile per sempre. Nemmeno i morti.

    L’uomo si allontana di un passo. Due. Inclina la testa ignorando che il pennello sgocciola e macchia il pavimento. Anche il soggetto sta macchiando il pavimento. Non gli importa. Non è un suo problema perché tanto qualcuno pulirà. Adesso è importante finire prima che l’ispirazione se ne vada e lasci al suo posto un vuoto nero come la morte.

    L’uomo scuote la testa. Si acciglia. Qualcosa si è rotto nell’armonia del soggetto. Una mano è scivolata giù dal letto a sfiorare il pavimento. Poetico, ma non richiesto. Oltrepassa il cavalletto e si avvicina al modello. Delicatamente rimette la mano al suo posto. Si guarda: i guanti sono macchiati di sangue. Sorride. La mascherina si tende sul suo viso.

    Il sangue è rosso.

    Il rosso è il suo colore preferito.

    UOMO CON ANGURIE

    1

    Era di piccola statura e anche a distanza mostrava una certa età. Le rughe non si distinguevano una per una, però se ne intuiva il reticolo sul volto. E in mezzo al reticolo gli occhi brillavano come la pelle lucida di un pesce. Portava un camicione troppo lungo per la sua altezza, tanto da farlo somigliare a un bambino con il soprabito del papà. Con il caldo già di prima mattina, c’era da sudare alla sua sola vista. Il commissario Mezzanotte guardava, sudava e fumava alla finestra del suo ufficio. Lo vide fermarsi in mezzo al cortile interno del distaccamento di viale Fermi, scrutare da una parte e dall’altra, senza sapere dove andare. A indicargli la giusta direzione fu il piantone di turno. L’uomo parve rinfrancato e si avviò con passo deciso. Mezzanotte lo seguì con lo sguardo fino a quando scomparve sotto al margine inferiore della finestra. Tornò a sedersi davanti al computer. Spense la sigaretta nel posacenere e fissò il cursore che lampeggiava sul monitor. Si grattò la nuca cercando la frase per chiudere il rapporto. C’era stato un omicidio in un appartamento delle Cure. Una donna era stata trovata morta dalla figlia nella sua camera da letto. Strangolata e finita a colpi di martello. La casa era in ordine, nessun segno di scasso al portoncino d’ingresso. L’unica cosa fuori posto era il primo cassetto del comò, dal quale mancava una scatola da scarpe in cui l’anziana, secondo la figlia, nascondeva i gioielli. Il rapinatore era andato dritto alla meta, quindi sapeva dove mettere il naso. E la mancanza di qualsiasi segno di effrazione poteva significare due cose: la donna lo conosceva, o l’aggressore aveva aperto con le chiavi. Quindi doveva trattarsi di qualcuno molto vicino alla famiglia. Se non della famiglia stessa. Mezzanotte si era fatto un’idea, ma senza prove le supposizioni galleggiavano in aria come nuvole di vapore sporco e non potevano essere condensate in frasi nero su bianco. Al momento il commissario si sarebbe dovuto attenere ai fatti e i fatti, anche allungando il brodo con qualche giro di parole, non riempivano più di una pagina.

    Battendo sulla tastiera solo con gli indici, ma con entrambe le mani, e questo per lui era già un notevole passo avanti, il commissario provò due o tre attacchi per la chiusura senza venire a capo di niente. Detestava scrivere, ma lasciare il rapporto come stava era come scolpire la figura di un uomo e rinunciare a un braccio. Quando fu sul punto di fare un quarto tentativo, bussarono alla porta.

    – Avanti – disse lui cliccando sul tasto SALVA.

    Si affacciò un agente. Si chiamava Marco Paloscia. Grazie alla sua corporatura robusta i colleghi lo avevano soprannominato Marcone. Le occhiaie e la faccia pallida parlavano di un uomo che aveva dormito poco.

    – Commissario, c’è uno che vuol fare una segnalazione, – disse. Aveva l’abitudine di masticare la gomma anche quando parlava, e le parole finivano con l’essere sempre un po’ impastate.

    – Ho da fare, – chiarì il commissario. – Senti se può riceverlo l’ispettore.

    – De Seriis è alle Cure. Ce l’ha mandato lei, – puntualizzò Paloscia.

    – Allora prendila tu. O Molinari. Non c’è Molinari?

    – Sì che c’è, ma il signore ha parlato di una certa gravità.

    – Hai sentito cosa vuole?

    – Dice che forse è successo qualcosa al suo vicino di casa.

    Mezzanotte sospirò e chiuse il programma di scrittura. – Va bene, fallo entrare. E butta quella gomma. Sei in servizio.

    – Comandi, commissario, – rispose Paloscia togliendosi la gomma di bocca con le dita. Si voltò indietro, verso qualcuno che Mezzanotte ancora non vedeva.

    – Venga, il commissario la riceve.

    L’uomo visto nel cortile poco prima, si affacciò sulla porta.

    – Si accomodi, – lo incoraggiò Mezzanotte.

    Il nuovo venuto si avvicinò alla scrivania e Paloscia, alle sue spalle, si congedò. Prima che la porta fosse chiusa del tutto, il commissario ebbe l’impressione che Marcone rimettesse in bocca la gomma da masticare.

    – Si sieda.

    – Grazie, ma se non le dispiace resterei in piedi. – Il vecchio parlava come se stesse masticando qualcosa. Mezzanotte pensò fosse colpa della dentiera.

    – Faccia come crede. – Il commissario si appoggiò allo schienale della poltroncina. – L’ascolto.

    – C’è cattivo odore, – disse il vecchio.

    Mezzanotte annusò l’aria. – Dove?

    – Non qui, – si affrettò a precisare l’uomo. – A casa mia. Cioè, non proprio a casa mia. Viene dall’appartamento accanto, gliel’ho detto al suo collega. È già qualche giorno che si sente, ma stamattina è forte. È terribile. Stomachevole. Fa venire la nausea. Non si sopporta. Già, proprio no. Al campanello non risponde nessuno. Dev’essere successo qualcosa di brutto. Per forza. Quell’odore.

    Sulla scrivania di Mezzanotte una folata di vento spostò gli incartamenti e Mezzanotte cercò di rassettarli alla meglio.

    – La porta dell’appartamento è chiusa o aperta?

    – Chiusa.

    – È sicuro? Non è che magari è solo accostata?

    – Abbiamo provato a spingere, ma non si apre.

    Abbiamo chi?

    – Io e mia moglie.

    – Forse è di quelle che si tirano.

    – No, è proprio chiusa.

    Il commissario prese una penna e il taccuino. – Lei come si chiama?

    – Mia moglie?

    Mezzanotte sbatté gli occhi e inclinò la penna in direzione dell’uomo. – Lei, lei. Signor?...

    Lui ebbe un’esitazione prima di rispondere, quasi avesse dimenticato il suo nome. – Cecchini Vittorio.

    – Voleva aggiungere qualcosa? – domandò Mezzanotte scrivendo.

    L’uomo arrossì. – No.

    – Sicuro?

    Il signor Vittorio spinse lo sguardo umido oltre le spalle del commissario. La finestra aperta mostrava le colline di Arcetri. I campi tagliati avevano un colore di chioma bionda. Gruppi di alberi interrompevano la morbidezza delle colline in piccole esplosioni color verde scuro. In mezzo al verde, nascondendosi alla vista, biancheggiavano i casolari e le cascine.

    – Be’ ecco, in realtà pensavo che non fosse importante sapere come mi chiamo.

    – Non lo è. Non per ora. Ci serve solo per avere un riferimento.

    Il vecchio non ne fu rassicurato. Soprattutto a causa di quel non per ora buttato lì quasi per caso.

    – Dove si trova questo appartamento di cui parla?

    – In una palazzina di via Baracchini, al numero 55. Già, al terzo piano.

    – E lei ci abita accanto?

    Vittorio annuì. – Con mia moglie. Dividiamo lo stesso pianerottolo.

    – Il suo vicino come si chiama?

    – Sul campanello non c’è scritto.

    Mezzanotte, pronto a scrivere, si fermò con la penna a mezz’aria.

    – Ci abita accanto e non sa come si chiama?

    Vittorio fece spallucce. – Capisce, commissario, non siamo andati mai oltre il buongiorno e la buonasera. E gli auguri a Natale. So che è un professore. Lui è uno riservato. Si fa i fatti suoi. E del resto, che vuole, io e mia moglie ci facciamo i nostri. Dipinge, sa? Ma non ho mai visto un suo quadro. Non che io me ne intenda, per carità. Già. Non esce quasi mai. Sta sempre chiuso in casa. Prima lo incontravamo più spesso.

    – Prima di cosa?

    – Prima che andasse in pensione.

    Il commissario si appoggiò al tavolo con i gomiti e tenne la penna tra le mani come un elastico da tendere. – Come sa che è andato in pensione, se ha detto che non ci parla mai?

    Il vecchio arrossì di nuovo e negli occhi ingialliti guizzò un lampo di dubbio. Si sentì sotto pressione come un goffo cialtrone a cui è riuscita male una truffa e deve inventarsi una scusa credibile per farla franca.

    – Per la verità non lo so. Un giorno scambiammo due parole, ma giusto due, e mi disse che sperava di andarci presto. Poi l’ho visto sempre più di rado. immagino che ci sia andato. Già. Ci dev’essere andato per forza.

    Buon per lui disse la smorfia di Mezzanotte. Fece per prendere una sigaretta, ma il pacchetto suonò a vuoto e lo buttò nel cestino. Aprì il primo cassetto della scrivania, ne pescò uno nuovo e tolse il cellophane. Lo appallottolò prima di buttarlo nel cestino.

    – Vive lì da molto tempo?

    – Da quando ci siamo sposati. Già.

    – Intendo dire il professore.

    – Ah certo, scusi commissario. Che le dico, così a mente saranno una decina di anni.

    – Ha famiglia?

    – No. Cioè, credo di no. So per certo che non ha figli perché me lo disse lui. Sempre quella volta. Di mogli non ha mai parlato. E del resto noi non l’abbiamo mai visto con una donna. Sa, il suo appartamento è accanto al nostro. Le pareti sono sottili e le cose si sentono. Anche senza volere. Prima di lui ci abitava una coppia. Non le dico le discussioni, i litigi. Anche di notte. Sempre a sbraitare. Una volta io e mia moglie siamo andati perfino a protestare. Già. Non si dormiva, capisce? Invece da quando c’è lui si sta che è una meraviglia. Mai un rumore fuori orario, mai un vociare. Solo la televisione, ogni tanto, e la musica. Classica, il più delle volte. Quella gli piace. Ma piace anche a noi, per cui non ci dà fastidio anche se il volume è un po’ più alto del dovuto.

    Mezzanotte prese una sigaretta dal pacchetto, la appoggiò tra le labbra e la accese.

    – Un altro dramma della solitudine, – borbottò tra sé. Accese e il fumo si annodò in aria prima di venire risucchiato dalla finestra aperta.

    Vittorio allungò il collo verso di lui come un’anatra. – Prego?

    – Ho detto: un altro dramma della solitudine, – ripeté Mezzanotte a voce più alta. – Anziani, che muoiono da soli, in casa, senza cure e senza nessuno che si prenda la briga di andare a vedere come stanno. O a cercarli se non si fanno più vedere. A volte li trovano perfino dopo un anno. – Il commissario scosse il capo, forse augurandosi un giorno di non fare la stessa fine.

    Vittorio aspettò che Mezzanotte terminasse le sue considerazioni prima di parlare. – Mi perdoni, dottore, ma io non ho mica detto che il professore è morto. Io non lo so se è morto.

    Mezzanotte si accigliò e scosse la sigaretta nel posacenere. – Signor Cecchini, se c’è odore di morto ci sarà anche il morto, no?

    – Non ho detto nemmeno che è odore di morto.

    – E allora che odore è? – si spazientì Mezzanotte.

    – Non è puzza di morto. È piuttosto frutta marcia, – rispose il Cecchini arricciando il naso come se la sentisse anche in quell’ufficio.

    – Già. Tanta frutta andata a male.

    2

    La galleria era deserta. I faretti a led spezzavano la penombra con macchie di luce bianca e illuminavano le opere d’arte trasformandole in isole colorate nella notte, punti di approdo per emozioni alla deriva. Simòn Renoir alzò gli occhi in quelli di Adolfo Zandett, che da sopra un paio di baffoni a manubrio gli restituì un’espressione tipo non posso farci niente. Zandett aveva tolto i dipinti di Simòn dalla parete e adesso giacevano a terra con la tela rivolta al muro. Quella collocazione non diminuiva di molto le probabilità di essere visti da qualche danaroso cliente: l’angolo dove fino a poco prima erano appesi era celato da una grossa colonna di pietra. Per andare a vederli bisognava sapere che c’erano.

    – Neanche uno? – domandò Simòn.

    – Neanche uno, – confermò Zandett risoluto, le manone incrociate sulla scrivania. Ciuffi di peli neri sorgevano sul dorso e sulle dita.

    – Nemmeno chiesto il prezzo?

    Zandett piegò gli angoli delle labbra verso il basso e i baffoni li seguirono.

    – Quando dico che ho tre tele di Renoir le persone si accendono e vogliono subito vederle pur sapendo che non potranno permettersele. Si interessano solo quando abbino il tuo cognome al prezzo. Non c’è niente da fare. Perché ci vedono l’affare, capisci? Qualcuno pensa pure che io sia un incompetente, a proporre Renoir a cifre così basse. O magari si fa domande sulla legittimità della loro provenienza. O se sono davvero degli originali. È sospetto che io non li esponga in vetrina. Capirai: Renoir! Sai, molti giudicano i galleristi come dei truffatori. Nella migliore delle ipotesi ciarlatani. E, sia chiaro, ci sono anche quelli. Come in tutte le categorie c’è il buono e il meno buono. Io gli lascio credere quello che vogliono, tanto poi come stanno le cose lo capiscono da soli. Vedono i quadri e non li riconoscono. E allora mi fanno tutti la stessa obbiezione: questo non è Renoir. Io rispondo che è Renoir. Solo non quel Renoir. Gioco con il nome, per ingolosirli. Questo è il mio piccolo peccato. Un peccatuccio veniale, che però non funziona.

    – Forse non dovrebbe farlo, – replicò Simòn. Teneva la voce più bassa del dovuto per non contrariare Zandett. In fondo quell’uomo faceva il possibile per aiutarlo.

    – Non pensa che potrebbero sentirsi presi in giro?

    I baffoni di Zandett vibrarono. – Almeno li vedono.

    Simòn era deluso e non se la sentiva di nasconderlo.

    – Non buttarti giù, Simòn: sei in buona compagnia.

    Zandett indicò una delle opere in vetrina. Un supporto di legno su cui l’artista aveva prima imbullonato i pezzi di un sassofono per poi cospargerli di colore. L’impressione era di uno strumento riempito di blu, rosso e giallo e fatto esplodere.

    – Lo conosci?

    Dalla scrivania di Zandett Simòn vedeva solo il retro dell’opera, ma sapeva di cosa si trattava.

    – Arman.

    – Esatto. Arman, – affermò compiaciuto Zandett. Le sue manone adesso erano state ingoiate dalle ascelle. Schiena appoggiata alla poltroncina da ufficio di pelle e braccia conserte, guardava l’Arman con una certa nostalgia.

    – È più di un anno che è lì. Come vedi non basta un cognome per vendere un quadro. Non oggi. E non a questi prezzi.

    – Allora abbassiamoli – propose Simòn.

    Zandett sorrise all’osservazione di Simòn, che reputò un po’ fanciullesca. – Non funziona così. Siamo in una galleria d’arte, non alla fiera rionale. Se un dipinto costa troppo è fuori mercato. Se costa poco la gente pensa che non valga il poco che costa e lo lascia dove sta. O magari, come dicevo prima, crede che ci sia dietro qualcosa di poco chiaro. Se il prezzo è quello giusto se ne può discutere, ma quelli che lo capiscono quanti pensi che siano? Si contano sulla punta delle dita e molti fanno il mio stesso mestiere. Il fatto è, caro Simòn, che l’arte tra i beni di lusso è diventata quello meno necessario. La gente che ha i soldi c’è, la crisi ha mangiato le scarpe solo a quelli che già stavano alla canna del gas, ma invece di investirli qui li porta fuori. Non so se mi spiego. Eppure, – proseguì Zandett, – le case degli italiani sono piene di quadri. Dozzinali e inguardabili. Nella maggior parte dei casi non valgono nemmeno il costo della cornice in cui stanno. Però ci sono. Come mai secondo te?

    Simòn non seppe cosa rispondere.

    – Te lo dico io come mai: perché abbiamo paura del vuoto. Una parete bianca in casa spaventa per l’enorme vuoto che rappresenta, e c’è bisogno di riempirla. Le opere degli autori importanti sono fuori portata per la maggior parte delle persone, quindi ci vuole qualcosa che costi poco. La scena bucolica comprata alla bancarella al mercato o la stampa con i putti di Michelangelo trovata in qualche centro commerciale, il disegno del nonno fatto al fronte, l’astrattismo di quello che si sente incompreso, o il ritratto degli sposi fatto dall’amico del cuore che spera finisca appeso sopra al letto matrimoniale.

    – Forse anche chi crea lo fa per la stessa paura. Forse è l’atto attraverso il quale dimostriamo a noi stessi che non siamo vuoti – rifletté Simòn.

    Zandett ignorò il commento di Simòn e si alzò in piedi. Posò le mani aperte sul piano della scrivania con fare da professore universitario.

    – Appurato quindi che bisogna spender poco, ci vuole poi un motivo che spinga ad aprire il portafogli. Perché non tutto va bene per tutti. Entra in gioco il gusto personale. Scultura, disegno, illustrazione, stampa o dipinto che sia, ci vuole una ragione per portare un’opera in casa propria e conviverci tutti i giorni. Mi spiego?

    Simòn annuì con poca convinzione. Si era già fatto un’idea di dove Zandett volesse condurlo e non era certo di volerlo seguire nel ragionamento.

    Zandett si avvicinò alle tele di Simòn e indicò la più grande. Era di un metro per un metro e rappresentava l’interno di una vecchia auto. La ruggine si era mangiata gran parte della carrozzeria, il volante era piegato verso il basso, gli oblò della strumentazione ciechi come orbite vuote. Spruzzi di ragnatele biancastre colavano dallo specchietto retrovisore fino al cambio, ai sedili, al vano portaoggetti spalancato come la bocca di un morto. Oltre il parabrezza, quello che ne restava, il paesaggio era un turbinio di nebbia rossastra. Una finestra sul nulla.

    – Metteresti in casa una roba del genere? – disse Zandett.

    Simòn gli si avvicinò. Teneva le mani in tasca. Erano i suoi lavori. Zandett aveva rivolto la domanda alla persona sbagliata.

    – Perché no? – rispose Simòn. Si sentì un po’ ingenuo a controbattere. Come un bambino che vuol tenere la luce accesa di notte perché così non verranno a prenderlo i fantasmi, anche se sa che i fantasmi non esistono.

    – La gente spende per portare in casa qualcosa di vivo. Queste sono opere morte.

    Simòn inclinò la testa da un lato in un modo che a Zandett fece venire in mente un cane che non capisce il comando del padrone.

    – Cosa c’è che non funziona?

    – Hai scoperchiato una cassa da morto, Simòn, – rispose Zandett come se avesse esternato il concetto più ovvio di questo mondo. – Mostri la rovina, lo sfacelo, la distruzione, la decomposizione delle cose. Del mondo. Ognuno conosce la realtà che tu mostri, ma nessuno la vuole vedere.

    – Credevo che fosse proprio questo il punto, – insisté Simòn.

    – Lo è, ma nel senso opposto. È il contrario di quello che pensi. Alla gente piace credere che se una cosa non si vede, allora non esiste. Come gli struzzi che mettono la testa sotto la sabbia. Vogliono qualcosa che li faccia sentire bene, che li rassicuri. Tu invece li metti di fronte all’evidenza di ciò che diventeranno. Li spaventi.

    – Nel mio intento forse vorrei solo provocarli.

    – Forse, dici. – Zandett sorrise bonario. – Con quel forse tu lanci il sasso e nascondi la mano. Non è con i forse che si fanno le provocazioni, non c’è una via di mezzo. Le provocazioni lasciale a chi sa farle. O provochi o non provochi. E comunque tu non vuoi provocare davvero. Negli anni ’60 Manzoni inscatolava la propria merda e la vendeva al prezzo dell’oro di giornata. Ne ho avute qui un paio di confezioni anch’io. E sai perché lo faceva?

    – Tutto è arte, niente è arte, – rispose Simòn.

    – Esatto. – Zandett gli puntò contro l’indice, in un gesto che a Simòn ricordò quello del suo docente di pittura all’epoca in cui frequentava l’Accademia di Belle Arti. Quell’uomo usava il suo dito indice come un faro da circo.

    – Tu non giochi con la provocazione, tu non mostri una cosa per suscitare un sentimento antitetico. Non mostri la morte per inneggiare alla vita. Tu mostri il disfacimento delle cose in quanto processo inevitabile e nessuno ha voglia di fare i conti con la fine tutti i giorni e per giunta dentro casa. Non da noi almeno. Forse all’estero. A Berlino, magari. O a Londra. Sì, fuori di qui potresti anche trovare qualche estimatore, ma in Italia la vedo dura. – Zandett si grattò il mento con una delle sue manone. – Potresti provare ad aprire un sito web. Una mostra virtuale con le tue opere sempre visibile da chiunque in qualunque parte del mondo. Oggi lo fanno in molti.

    – Ho capito, – concluse Simòn, che non aveva più voglia di quella discussione. – Porto via tutto.

    Il gallerista si avvicinò alle opere di Simòn e si chinò con una certa fatica su una tela di 30x40 centimetri che rappresentava un vaso da fiori rotto. Il coccio spaccato sembrava volersi fondere all’asfalto su cui era caduto e la terra usciva fuori come fosse un groviglio di budella. La pianta, che doveva essere stata un geranio, era appassita e cominciava già a manifestare i primi segni della decomposizione.

    – Lasciami questo, che è il meno peggio, – concesse Zandett. – Però sì, gli altri devi portarli via. Tra l’altro oggi mi arrivano da Roma tre tele della Pellin e mi serve spazio.

    Simòn sospirò fissando il pavimento. – Chiamerai anche Arman per dirgli la stessa cosa?

    Zandett rise e gli posò una mano sulla spalla. – Capisco il tuo disappunto, Simòn, ma ti ho concesso un mese, e un mese qui dentro è tanto. Ho voluto fare un favore a te e al professor Foglian, che ha insistito un sacco perché ti dessi una possibilità. E sono convinto che tu sia un buon pittore, ma non è solo con la bravura che si va avanti. Ci vuole altro. Potresti provare con soggetti meno lugubri, più sereni. Più facili da accettare. Siamo in toscana. Abbiamo la campagna più bella del mondo. Perché non provi a dipingere quella? Credimi. So come funziona. Permettimi di essere franco: nessun altro gallerista di Firenze avrebbe accettato lavori come questi. Neanche per un giorno. Non senza tirarti fuori dalle tasche un bel po’ di quattrini.

    3

    La palazzina indicata da Vittorio Cecchini si trovava quasi a metà di via Flavio Torello Baracchini, nella periferia nord di Firenze. Una traversa lunga poco più di 300 metri che nel quartiere di Novoli metteva in comunicazione via di Novoli con via Baracca, due delle tre arterie – la terza era via Guidoni – che dall’autostrada A11 conducevano verso il centro. I Cecchini abitavano al terzo piano, in uno degli appartamenti che facevano angolo con via Montegrappa, sopra al Mercatino Americano. La differenza con le vecchie vie del centro storico era dettata dalla larghezza quasi eccessiva della sede stradale e dei marciapiedi. Sembrava che tutta la Firenze Nuova volesse, con le dimensioni delle strade, riscattarsi dall’angustia della Firenze Vecchia. Le auto potevano parcheggiare a destra e a sinistra e c’era ancora posto perché due autotreni si incrociassero lasciando lo spazio per qualche tiro al pallone.

    L’auto della polizia parcheggiò sulle strisce pedonali di fronte all’edicola. L’ispettore De Seriis, avvisato dal commissario Mezzanotte, si era portato dietro anche Molinari e Paloscia, che masticava una gomma come se qualcuno lo pagasse un tanto a morso. L’ispettore gli ordinò di gettarla prima di salire. Marcone obbedì, ma non trovando cestini nelle vicinanze non seppe fare di meglio che infilarsela nella tasca dei pantaloni. Il portoncino a vetri era aperto. L’odoraccio di cui parlava il Cecchini si percepiva già nell’andito e aumentava di intensità gradino dopo gradino. Diceva bene: la puzza non assomigliava affatto a quella della decomposizione della carne. Sembrava piuttosto un gigantesco bidone dell’umido pieno e rimasto aperto sotto il sole. Quando raggiunse il pianerottolo del terzo piano, De Seriis dovette respirare con la bocca. Si domandò perché non avessero chiamato prima.

    Dietro di loro salì anche il Cecchini. Appena entrati, sul suo volto, l’ansia dipinse ombre che prima non c’erano.

    – Lei se ne vada in casa, – disse l’ispettore mentre si infilava i guanti.

    Il vecchio, pur riluttante, obbedì. Quando aprì la porta venne accolto dalla moglie. De Seriis fece in tempo a vedere una donna dal giro vita esagerato e dalle caviglie grosse come fustini di detersivo in polvere. Quando vide le divise esclamò un Ommioddio! e chiuse la porta con una certa decisione. L’ispettore però fu certo che controllasse la situazione dallo spioncino.

    I poliziotti suonarono il campanello. Chiamarono a gran voce. Non ricevettero risposta.

    – Sfondiamo la porta o passiamo dalla finestra? – domandò Molinari.

    De Seriis suonò al campanello dei Cecchini. Gli rispose un sorpreso Vittorio; non si aspettava di rivedere la faccia dell’ispettore così presto.

    – Dove danno le finestre dell’appartamento?

    Il Cecchini ci pensò su per un po’ e fece mentalmente il giro dell’isolato.

    – Su via Montegrappa.

    – Grazie, – disse De Seriis. – Può aspettare, prima

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