Adelaide: La seconda indagine del maresciallo Gatti
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Stresa, Giugno 1940
Il discorso di Mussolini, pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia, contenente la dichiarazione di guerra, consegnata alla Francia e all’Inghilterra, giunge, inaspettato, sulle sponde del lago Maggiore.
Il Maresciallo dei Carabinieri Luca Gatti si trova suo malgrado, come cinque anni prima a condurre una difficile indagine, alla ricerca di un segreto, che potrà deciderne le sorti. Due omicidi, un attentato l’attenzione di tutti i più alti vertici civili e militari del regime fascista, ruotano intorno ad una giovane e affascinante ragazza: Adelaide.
L’Italia è ormai una Nazione al suo interno profondamente divisa. Non sarà facile, malgrado l’aiuto del fidato attendente Airolidi e dell’Amico Don Piero, trovare la soluzione a questa intricata vicenda. Luca sarà costretto, dagli eventi, ad affrontare scelte che metteranno a dura prova la propria coscienza e l’amore per Marta.
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Anteprima del libro
Adelaide - Alberto Salina
Salina)
1
Lunedì 10 Giugno 1940: ore 18.00
«Ma che caldo fa!!! Si muore dal caldo». Così pensava Prospero Alcide, Messo Comunale, passandosi il fazzoletto bianco sulla fronte asciugandosi il sudore. Fermo in piedi, ormai da più di mezz’ora, nella piazza di fronte al Municipio di Stresa, in mezzo a centinaia di persone. Il Podestà li aveva raccolti davanti al balcone dove erano stati issati due pesanti megafoni da cui usciva la musica un po’ distorta di Giovinezza
e dell’inno dei Figli della Lupa
.
Alle 18.00 precise la musica cessò. Il silenzio si fece assordante. Non si sentiva una mosca volare, l’aria era ferma, immobile, piatta come l’olio, come la superficie del lago. La gente ammassata non respirava nemmeno. Dopo un breve, ma fastidioso fischio, dagli altoparlanti provenne il ronzio, mescolato alle scariche delle interferenze, delle urla di Piazza Venezia. Dal balcone del Palazzo si era affacciato il Duce:
« Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie Nere della Rivoluzione e delle Legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania! Ascoltate!!!! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di Guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia… ».
Il boato della folla si alzò impetuoso ed assordante. Quello della folla di Stresa, in modo particolare delle Camicie Nere, guidate dal Ricino
e dal Podestà, si sovrapponeva a quello trasmesso dagli altoparlanti proveniente da Piazza Venezia. Il Duce continuava a parlare ma ormai nessuno capiva più nulla. L’euforia, l’accalcarsi della gente ed il caldo ebbero il sopravvento. Tutti cantavano, commossi, sudati, abbracciandosi in preda al delirio: «È la Guerra!!! È la Guerra!!!».
Il maresciallo Luca Gatti, stretto tra una panchina ed un albero sul lungolago dall’enorme folla, rimase pietrificato. Si voltò e, guardando negli occhi il suo attendente Stefano Airoldi, riuscì solo a dire: «Ma che cazzo fa questo!!! Ma questo è pazzo!!! Siamo tutti pazzi!!!».
In preda all’angoscia, spintonò la gente davanti a sè, facendosi largo tra la folla. Si diresse verso la chiesa, dove entrò dalla porta secondaria. Seduto, con le mani sulle ginocchia, don Piero aveva ascoltato le parole provenienti dalla piazza e la bolgia che ne era seguita. Luca prese posto vicino al vecchio prete. Mise il braccio intorno alle spalle dell’amico e strinse forte. «Ci siamo Luca. Questo pazzo ci porta al macello!» disse il vecchio prete scuotendo la testa e poi proseguì «Non c’è scampo. Senti come urlano. È come se il maiale festeggiasse con il macellaio».
Fuori, tra la gente festante ed isterica, solo uno aveva mantenuto il sangue freddo. Il Beppe, detto il Pallanza
, aveva appena finito di ripulire le tasche dei pochi spiccioli, approfittando della confusione, di almeno una decina di persone. «Frega un cazzo a me della Storia e della Guerra» pensò tra sè «stasera vado all’osteria, mangio, bevo e alla fine tiro anche un rutto alla salute del Duce e di quella mezzasega del Re!».
2
Lunedì 10 Giugno 1940: ore 17.03
Sprofondato nella comoda poltrona dello studio, rivestita in velluto rosso vermiglio, nella sua elegante casa nel quartiere di Mayfair, Giulio Japelli, amministratore delegato di Fiat presso Londra, ascoltava alla grossa radio a galena, la voce del Duce «… Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia... »
Al termine del discorso, Giulio, con grande calma, girò il pomello rotondo in legno al centro dell’apparecchio e lo spense. Prese dalla tasca della vestaglia a scacchi blu e rossi la pipa ed il tabacco. La caricò. Sfregò un fiammifero sulla scatola e l’accese. Aspirò una lunga boccata in modo da sentire il fumo invadere la bocca e il naso prima dei polmoni. Dopo qualche minuto di riflessione sollevò il braccio, tirò il cordone nell’angolo alla sua destra e suonò il campanello per chiamare il segretario. L’uomo entrò nella stanza, si fermò a qualche metro da Giulio e attese ordini.
«Per favore, Achille, chiama mia moglie e fai venire qui anche Adelaide con i bambini. Poi chiama il mio ufficio, mettiti in contatto con l’ingegner Armati e passamelo al telefono di questa stanza».
Il maggiordomo annuì senza rispondere ed uscì rapidamente dalla stanza. Giulio Japelli riprese a fumare, guardando il cielo grigio piombo fuori dalla finestra. Qualche minuto dopo si aprì la porta ed entrò la moglie Orietta tutta trafelata. «Giulio, ma che succede? Giulio, ma dai, ti sembra il caso di farmi correre? Stavo facendo gli impacchi. Giulio, ti ricordi della mia sciatica? Giulio, ti prego. Ma si può sapere che c’è? Giulio…». L’uomo assorto nei propri pensieri non dava attenzione alla donna che continuava, incurante del fatto che nessuno l’ascoltasse, a parlare. «Giulio, se è uno scherzo, proprio non sei divertente. Allora, Giulio, mi dici che succede?». Qualcuno bussò alla porta. Giulio Japelli disse «Avanti!», nella stanza entrò una giovane donna tenendo per mano due bambini. Un maschio di quattro anni ed una femmina di sei. L’uomo guardò tutte le persone convenute e dopo un lungo silenzio disse: «Miei cari, è arrivato il momento!! Dobbiamo andarcene. Londra per noi non è più un posto dove siamo beneaccetti. Da oggi siamo dei nemici. Il Duce ha appena dichiarato guerra all’Inghilterra e alla Francia. Non ci resta che scappare. Ho già fatto preparare tutto. Tra meno di un’ora un’auto arriverà per portarci a Dover. Da lì prenderemo un traghetto che ci porterà in Francia e poi proseguiremo in treno fino al confine italiano. Ho i lasciapassare già compilati». Diede una lunga boccata alla pipa e riprese «Per cortesia, cara prepara i bagagli e tu Adelaide prepara i bambini. Dobbiamo fare presto». Le due donne si guardarono in silenzio sbalordite. Squillò il telefono sul tavolino e Giulio rispose: «Sì ingegnere… esatto, sgombri tutto... immediatamente... Caproni si… Caproni… esatto. Lei sa che sono della massima importanza. Si inventi qualcosa, ma per nulla al mondo devono finire nelle mani sbagliate... mi fido di Lei... faccia presto... grazie... buona fortuna anche Lei. Ci vediamo in Italia al posto convenuto tra tre giorni esatti a quest’ora...». Orietta sbiancò e si mise ad urlare: «Giulio, io in Italia non ci torno!! Non ci torno!! Io a Genova da tua madre non ci torno neanche morta!!! Piuttosto sto qui sotto le bombe, ma a Genova no!!!!» L’uomo con fare rassegnato guardò le due donne poi, a voce molto bassa, disse: «E chi ha parlato di Genova? Cara, noi andiamo a Stresa».
Udite quelle parole, Adelaide impallidì improvvisamente. Fece appena in tempo a fare un passo indietro allontanando i due bambini, portare il dorso della mano destra alla fronte e pronunciare balbettante la parola «SSStresa?» prima di crollare a terra priva di sensi, tra lo stupore dei presenti.
3
Venerdì 13 Giugno 1940: ore 7.00
Emilio Fovanna detto Ernesto aveva quasi terminato di caricare la barca con i mattoni, la sabbia e qualche sacco di cemento. Come tutte le mattine, nei mesi estivi, al piccolo molo di Baveno stava mentalmente organizzando il carico in funzione dei lavori previsti per la giornata. L’impresa di costruzioni per cui lavorava ormai da oltre cinque anni aveva in appalto le manutenzioni e i nuovi lavori sulle isole Borromee. Oggi, toccava all’Isola Pescatori.
Lo aiutava Michele, soprannominato il Padrona
, per via del fatto che qualche anno prima Ernesto lo aveva trovato legato e imbavagliato come un salame in un prato lungo la strada che da Mergozzo porta verso la piccola frazione di Nibbio, dove risiedeva con la moglie Ida. Michele era disteso sotto il ciglio della strada, aveva un grosso bernoccolo proprio al centro della nuca e l’unica cosa che si ricordava erano due parole. Un nome: Michele, e una parola strana: padrona. Per tutto il resto non ricordava nulla e non parlava. Ad ogni domanda la risposta era sempre e solo «Sì... sì... no... no...» oppure «Padrona». Così Ernesto, che viveva in una bella casa di ringhiera con i gerani al balcone nella piccola frazione, una ventina di case in tutto, aveva deciso di tenerlo con sè. Il Padrona
lo aiutava nel lavoro da boscaiolo d’inverno e muratore d’estate. In cambio, riceveva vitto e alloggio. Michele sembrava felice, sorrideva sempre e dormiva in una stanza che Ernesto aveva preparato appositamente sul retro della casa. Il muratore aveva spesso la netta sensazione che il Padrona non la raccontasse giusta. Più volte lo aveva visto scrivere su di un quaderno appunti ma ad ogni domanda l’uomo riprendeva a fare il tonto. Ogni tanto, una volta ogni due mesi, spariva per qualche giorno ma poi puntualmente ritornava. Una mattina Ernesto lo aveva messo alle strette. L’uomo, vistosi scoperto, confessò che si ricordava tutto ma che, finalmente libero, non aveva nessuna intenzione di tornare sui suoi passi. Ernesto ci aveva pensato qualche giorno e