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Le stanze dell'amore incerto
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Le stanze dell'amore incerto
E-book358 pagine5 ore

Le stanze dell'amore incerto

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Info su questo ebook

“Se i suoi occhi sognanti riescono a trovarla in una tazza, l'avrebbe trovata in qualsiasi posto, e questa sicurezza non è né speranza né illusione. Le ha pensate in quest’ordine, dopo la sicurezza viene la speranza che ha un peso più realistico dell’illusione e significa che anche la speranza di trovarla la farà rientrare a forza nella sua vita, sarebbe arrivata all'improvviso, apparsa come l’illusione di una stella cadente pronta a realizzare un desiderio così forte che Gabriele Fortis stava quasi mordendo il bucchero, e tenendolo coi denti guarda il cielo, se c'è per caso qualche stella...ma fra tutte quelle nuvole non si vedono neanche le normali, figurarsi le cadenti.”In mezzo a tante relazioni “ballerine”, l’unica paradossalmente più stabile è quella fra Gilda e Salvino. Ed è Gilda la burattinaia del romanzo con la sua storia amorosa che si snoda fra incesto e omosessualità.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2022
ISBN9791222057903
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    Anteprima del libro

    Le stanze dell'amore incerto - margiotta Rino

    Prima Stanza

    Si sta comportando come il baco avvolto in un sudario di seta...dice bene Djuna Barnes quando scrive che siamo preda dei nostri filamenti appiccicosi, quelle melasse che i metafisici chiamano sventure portate dalle comete e i poeti trattano come desideri espressi su stelle cadenti che non si realizzano mai. Sarebbe più semplice venissero giù dal cielo coriandoli di carnevale…ma con questi pezzi di carta colorata ormai non si divertono più neanche i bambini.

    Gabriele Fortis ha esagerato con la sambuca. Si fa prendere dal lirismo amoroso, e comunque c’è poco da ridere adesso che i rimpianti se lo stanno impastando in finestra a guardare il cielo in cerca di una soluzione che gli s’avvita dentro come una vite spanata che non s'avvita...e questo rigirio ha un nome: Gilda. Il suo viso pallido viene fuori dalla notte confuso dalla sambuca che continua a bere dal bucchero etrusco che gli ha regalato Elisa...ha scelto questo vasetto di ceramica nera in mezzo ai bicchieri perché Gilda magari è già tornata a Tuscania, circondata dalle necropoli…. gli ha detto che la tomba della regina ce l’ha proprio dietro casa. E lei si porta dentro pezzi di quella civiltà misteriosa, poco è rimasto all’aria, tutto nei musei e sottoterra, e bisogna scavare, cercare…e Gabriele Fortis la sta cercando da quasi un mese. Se la beve, e Gilda immersa nella sambuca si confonde sul tempo di un’illusione che viene misurata da un passaggio di speranze sul quadrante dei sogni. Se l’è sognata tante volte e nel sogno era più vera di una speranza da sveglio. Lui comunque è sicuro di rivederla, forse è vero che sperando si carica lo spostamento del tempo segnandone uno che rende più precise le illusioni, quasi che proprio sperando alla fine salta fuori la possibilità in più di ritrovarla, anche se adesso, per quanto ne sa, invece d’essere a Tuscania, lei potrebbe stare pure su quell’aereo che ogni tanto si vede sbucare fra le nuvole, e lì nel mezzo sembra starci pure lui con la testa che continua a sventazzarsi le speranze in attesa di ritrovarla, in attesa di una telefonata o di un segnale qualsiasi che lo sollevi da queste fantasie, potrebbe anche essere il rumore di un tuono che segnala il suo arrivo ora che le nuvole con tutto il vento che c’è chissà come stanno scorrazzando, e prima o poi sicuro arriva la pioggia, e lui se serve si mette anche a piangere per farla tornare. Se lo vedesse ridotto così magari arriva, ecco che appare nel cortile, sembra possibile ora che i pensieri si sono come adattati al viso di Gilda, questo viso che galleggia nella sambuca...e rivedeva la carne diafana, il caschetto dei capelli biondi, gli occhi grigi, la frangetta sugli occhi, e perfino quella breve cicatrice sotto il naso, parallela al labbro. Se i suoi occhi sognanti riescono a trovarla in una tazza, l'avrebbe trovata in qualsiasi posto, e questa sicurezza non appartiene né alla speranza né all’illusione. Le ha pensate in quest’ordine, dopo la sicurezza viene la speranza che ha un peso più realistico dell’illusione e significa che se lui ci crede davvero lei rientrerà a forza nella sua vita, sarebbe arrivata all'improvviso, apparsa come una stella cadente pronta a realizzare un desiderio così forte che Gabriele sta quasi mordendo il bucchero, e tenendolo coi denti guarda il cielo, se c'è per caso qualche stella...ma fra tutte quelle nuvole non si vedono neanche le normali, figuriamoci le cadenti.

    Solo buio ventoso, forse ancora più ad alta quota. E le nuvole continuano a scorrazzare. E il tuono alla fine era arrivato, adesso manca solo che si mette a piovere per fare arrivare Gilda insieme alla pioggia, magari tutta bagnata corre da lui per avere un riparo, magari è lei che suona il campanello al posto di Elisa che deve arrivare davvero da un momento all'altro, aveva detto alle otto, e lui la sta aspettando in finestra, vuole vedere quanto lo fa aspettare. Sono le otto e venti. Guardò il merlo indiano che sta in gabbia sul frigorifero...sarebbe carino che Pippo si mettesse adesso a salmodiare il suo richiamo d'amore. E cerca d’invogliarlo questa merda d’uccello «Gildà Gildà... Gildà... Gildà... Gildà... Gildà... Gildà... Gildà... Gildà! Dai...ripeti!» Ma Pippo gira la testa, «Dai, stronzo...almeno canta! Stai sempre a rompere i coglioni. Ora perché te lo dico io, eh? ‘Fanculo! Ti faccio morire di fame se non canti! Guardami!» Gli occhietti cerchiati di rosso lo guardano muto mentre Gabriele Fortis ripete, «Gilda... Gilda... Gilda... Gilda...», e l’eco di questo nome gli arriva cupo all'orecchio, si avvita. «Testa di cazzo!» e tornò in finestra. «Sono a un punto che non mi piace...», e intorno a questo punto ormai ci gira da un mese, da quando lei è sparita lasciando sul comodino le chiavi di casa, la poesia di Dyuna Barnes, la lettera e la cocaina avvolta nella plastica trasparente. In pratica da quel giorno lui ha cominciato a girare a vuoto intorno all'osteria di Tano...ormai quasi tutte le sere ci passa nella speranza che anche lei sarebbe passata per buttarsi fra le sue braccia, o magari per sedersi vicino a lui sul trampolo e ordinare un altro Merlot.

    «Merlot anch'io!» gridò Fortis, e l'aveva urlato proprio mentre tuonava...e la signora Pecchioli che in quel momento è uscita in balcone a ritirare le lenzuola alza gli occhi al cielo, guarda se piove, ma vede soprattutto lui. «Ha bisogno di strillare così questo porco...lui e tutte le zoccole che si porta a casa. Sembra che le scanna...queste maiale.» Certo lei non immagina che con i porci e le maiale era andata molto vicino ai pensieri di Gabriele che pensando a Gilda nell'osteria pensava anche che i maialini di Tano sparsi sopra le mensole del locale, appena la vedono entrare cominciano per incanto a grugnire mentre lei si fa largo in quell'aria fumosa resa ancora più densa dalla luce dei faretti azzurrognoli: è tutto così ovattato che nessuno li può sentire mentre parlano...ma in fondo non c'è bisogno di tante parole, gli basta guardarla, non aveva niente da chiederle, almeno non adesso...adesso sarebbe bastato averla lì. Solo a pensarci sente il nodo alla gola, torna fuori lo spirito romantico che corre dietro alle favole, e Gilda avvolta in una mantella bianca se lo porta via lasciandosi dietro una scia di vita come quelle comete che hanno rovesciato sulla terra intere code di ghiaccio per riempire i mari, e sulle sponde c'è sempre qualche poeta seduto a guardare le stelle, quasi mai sono comete, più facile una stella cadente con la sua scia breve che brucia un desiderio improvviso.

    Gli è bastato stare con lei una notte...neanche tutta. Da Tano potevano essere le undici...alle quattro era già a letto, purtroppo da solo. Cinque ore...ma sono bastate...a volte è un attimo...poi ci si ricama sopra. O forse non è un ricamo...l'amore è una ferita aperta e ricucita con ago e filo nella pelle, e lui pensando alle ferite d'amore si guardava automaticamente la mano destra, una ferita che a distanza di quasi quarant’anni gli ha lasciato una bella cicatrice piena di ricordi. Anche perché era la prima volta che entrava in un Pronto Soccorso, e con Sofia avevano appena fatto il gioco del dottore, quello che non si scorda mai. E dopo erano andati a correre, era un giorno di sole, con Sofia c’era sempre il sole, e le correva dietro in cortile fra le dalie e le ortensie azzurre con una bottiglia di aranciata in mano. Poi all'improvviso un vaso fra i piedi mentre stava con gli occhi persi dietro la sua esile cugina che salta volando in cielo. E lui invece è cascato, uno dei tanti salti falliti di cicciobombo...mamma glielo diceva, «Smetti di mangiare...smetti ...smetti...» e questo ritornello ce l’aveva sempre nelle orecchie. «...Lo vedi che tra un po’ non ce la fai neanche a correre!», e lui infatti è caduto, e forse stava maledicendo quella profezia mentre la bottiglia si disintegra a terra in mille schegge luminose. E vedeva Sofia corrergli incontro in un'aura sfavillante...sarà stato il vetro colorato che riflette il sole, sarà il liquido arancione con le bollicine che formano una specie di arcobaleno sciolto a terra, o forse è il suo sangue che esce tortuoso dal palmo della mano stretta a una lama di vetro che ha reciso i segnali del destino, quella specie di M con la linea del cuore che è stata tagliata a metà per inseguire la sua dottoressa dai boccoli neri, poi ricucita da un dottore vecchio e pelato con dieci punti che fanno presagire profonde ferite amorose. E Gabriele Fortis c'è nuovamente arrivato…questa volta non è inciampato da solo…è stato spinto da Gilda, sono sempre le donne che spingono…anche adesso che si sente stretto fra due territori amorosi…anche tre. Gli piace questa sensazione d’impasto dolce, e passa e ripassa il dito sulla cicatrice, Elisa Gilda e Sofia s’incontrano in quella saldatura della pelle: le linee del destino da qualche parte si devono pure incontrare.

    «Ma quando arriva...». Riempì il bucchero d’acqua minerale. Da un cassetto della credenza prese il flacone di piperina e curcuma, era indeciso fra mezza pasticca e una intera, non gli sembra di aver perso l’appetito anche se è arrivato a quattro al giorno, troppe. Andò in salotto. Tutto questo romanticismo non gli ha fatto dimenticare che sta passando Aprile, e Sofia ancora non ha pagato l'affitto, e questo è un brutto pesce d'aprile. Lui per principio avrebbe voluto i soldi il primo del mese, ma Sofia è Sofia, è la sua cuginetta zitella, la sua fidanzata di una vita, la dottoressa che gli guariva il pisello e che a sette anni se ne stavano a letto nudi uno sull’altra senza sapere neanche perché. E da quando il signor Emiddio Fortis è morto e sua moglie la signora Esterina Giacchetto ha paura di starsene sola, Sofia si è trasferita in quel casale isolato, Esterina al piano terreno e lei sopra entrata indipendente tre stanze bagno cucina con il camino e pure un terrazzo che dà sulla valle. Davanti è tutta campagna e la madre vorrebbe ci va a stare pure Gabriele, tutti e tre insieme. «Sì mammaci mettiamo a fare gli agricoltori…campiamo con la salute!», viene ridere solo a pensarci, però quel secondo piano è intestato a lui…e Gabriele gliel’ha affittato, ovviamente niente contratto...soldi in mano...solo che a mano li deve andare a prendere sempre lui…certo, approfitta per vedere anche sua madre. E comunque ogni volta si devono mettere d'accordo per telefono e non è facile trovarla, che il cellulare neanche prende bene lassù...non può mica arrivarci che poi lei non c'è. È due giorni che la cerca in quella casa in culo a dio, in mezzo alla campagna, niente asfalto, infilata là sulla collina, che se qui piove e tira vento lassù ci sarà tempesta...e chissà come sta girando quel gallo ormai arrugginito che papà aveva voluto mettere sul tetto. E però gli servono i trecento, cinquecento li ha nel cassetto, fanno ottocento…e girano subito a quel cornuto di Pasquini che è già venuto a chiedere l’affitto e lui gli aveva detto, «Guardi...non sto neanche a staccarle l’assegno, così non fa il giro in banca...tanto dopodomani mi pagano cash...». Gli aveva detto proprio «cash», gliel’aveva detto con un disprezzo che suona come uno sputo, Così te ne vai affanculo per un mese! Non è giusto pagare ottocento euro per neanche settanta metri quadri, cucina salottino e camera, che lui ne prende trecento per centoventi metri con i soffitti così alti che Sofia potrebbe farci i soppalchi e raddoppia la superficie…e sotto casa ha pure l’orto con la vigna, più la stalla che ci è rimasto dentro anche un maiale e da quando c’è lei in quella casa non vuole neanche sentir parlare di ammazzarlo, che prima almeno quando ci stava papà mangiavo le salsicce, ora neanche quelle, e il maiale sembra se n’è accorto che non deve morire, è sempre allegro, gli manca solo d’entrare in casa.

    «Benissimo...» aveva risposto Pasquini, per lui il cash va benissimo. «Torno dopodomani...benissimo...» ed è uscito saltellando, profuma sempre di brillantina con quei quattro peli tirati indietro che sembrano attaccati col mastice, non si muoveranno neanche davanti a un ventilatore. Aveva fretta, deve andare nell’altro appartamento, dalla signora Pecchioli, in questo palazzo ha due appartamenti, più altri due in via delle Moline affittati agli studenti. Trecento euro a posto letto, due per stanza, sono due stanze per appartamento, quattro stanze in tutto, otto studenti, duemilaquattrocento euro. Li ha pure visti gli appartamenti, Pasquini voleva appioppargliene uno per farlo uscire da questo che lo può affittare uso ufficio. Tutti e due bui della madonna, neanche il riscaldamento centralizzato, pompe di calore...stanze umide...quella faccia da culo. E fa tutto da solo...niente amministratore...avanti e indietro sempre in autobus...non paga neanche la benzina. È chiaro che gli va benissimo. «Arrivederci Fortis!» aveva gridato entrando in ascensore.

    «Arrivederci un cazzo...» urlò Gabriele prendendo la pasticca intera. Sotto la luce è opalescente, «Quello dopodomani è qui, sicuro come la morte…dovrebbe giusto morire per non venire.» E quindi Sofia la deve beccare entro domani. «Sembra facile...ci gioca a nascondino col telefono.» Depositò la pasticca sulla punta della lingua, beve. Riprovò a fare il numero, è tutto il giorno che la cerca. Quando la incontra è sempre tranquilla, così gentile, solo che non risponde, forse l’ha messo silenzioso, capace sta facendo yoga, la sua kundalini, cerca l’energia divina e non vuole rotture di palle. E però non se la sente di modificare questo rapporto concentrato su una visita che si rinnova tutti i mesi…come una gradevole mestruazione Sofia lo accoglie sempre con il sorriso e una teiera pronta sul fuoco, e sulle mensole tutte le sue tisane, le marmellate che fa lei, quella di more è forse la più buona, ma anche quella di prugne...e poi il miele e il burro di arachidi, e le noci e i fichi secchi. No... non se la sente di rinunciare a questo dolce rito solo perché non ha voluto fare un assegno a quel figlio di puttana che gli succhia il sangue per settanta metri di casa. E riprese il telefono. Questa volta digita con tenerezza, quasi la implora, «...Tesoro, ti prego rispondi...arrivo domani…dammi questi trecento…cinquecento li ho presi da Conti, e così non passo neanche al bancomat. Lo sai che sono con l'acqua alla gola, che quando al Monte dei Paschi vedono la mia lista movimenti sicuro ridono di quel leva e metti metti e leva. Ne ho bisogno adesso...adesso o mai più…Affanculo!» È sempre terribilmente libero. Magari se ne sta sdraiata a letto lì a non fare niente e non vuole rispondere, lei è capace...ecco come fa ad essere così tranquilla. Dovrebbe imparare da lei. Sarà anche la campagna. Forse ha ragione mamma che lassù l’aria è buona, «...E ti va via quella faccia gialla che mi sembri san Tommaso...» la sua solita litania. Che poi Tommaso dovrebbe essere il santo che se non vede non crede...chissà mamma dove l'ha vista la faccia gialla? Forse è venuta fuori perché lei appiccica santini dappertutto, anche agli alberi...e magari san Tommaso stava appeso fra i rami di un limone, ce ne sono tanti invasati, e nelle giornate fredde li avvolge nei teli di plastica. Stanno tutti intorno casa. Altro che casa...è proprio un casale, una casa così fosse stata anche solo sulla bazzanese con tutto il terreno che c’è non basterebbero cinquecentomila euro, e invece è lì in mezzo ai lupi, niente termosifoni, camino e stufe a legna, che cercava di vendersi almeno la parte sua quaranta cinquantamila per dare l’anticipo un bilocale in centro, l’ideale sarebbe vicino all’ufficio, zona Marconi o Indipendenza, ma anche verso il Pratello...ne aveva vista una in Pietralata con due stanze piccolissime, era quella che costa meno, centottantamila. Chiedono quattrini come sputare per terra. Fuori via Zanardi in una specie di alveare volevano duecentomila, e non era neanche luminosa...e quando non hai la luce è come se ti mancasse l’aria.

    Per Gabriele Fortis la luce è fondamentale...era andato a sedersi in salotto dove ha messo un lampadario con sei bocce, e in più una lampada a stelo si allunga sopra il divano. La luce lo avvolge, e forse anche questo gli ha fatto fermare gli occhi sul foglio celeste rimasto sopra il tavolo. Quando si attiva la corteccia visiva l’occhio racconta al cervello un’astrazione di luminosità colorata…c’era scritto così nell’invito. E la luce si è concentrata su questa lettera arrivata ieri, raccomandata con ricevuta di ritorno, su busta intestata della sua assicurazione. La rilegge, «Bisogna ammettere che l’energia non può venire emessa o riassorbita dalla materia sotto forma di radiazione piccola a piacere. E ammettere che il rapporto fra l’energia di un’onda monocromatica e la frequenza di questa sia sempre uguale a un multiplo di una costante universale avente la dimensione di un’azione, cioè di una energia moltiplicata per un tempo, e numericamente uguale a sei virgola seicentoventisei per dieci alla meno trentaquattro…»

    Quando l’aveva letta non riusciva a capire cosa ci incastra l’assicurazione della sua Ford con un invito per la conferenza Evoluzione della psicologia in riferimento alla teoria dei quanta.. Non c’entrava niente…infatti hanno sbagliato indirizzo. Si era portato la lettera in ufficio. Proprio stamattina ha telefonato all’agenzia. È stato buffo…a quella voce stridula di donna lui con voce cavernosa si è messo a parlare dell’invito celeste.

    «Che invito?»

    «La costante di Planck.»

    «La costante di chi?»

    «Planck...con la K finale...come Kamasutra signorina, il trattato sull’amore...»

    «Aspetti...le passo Dominici...senti qua al telefono...c’è un invito.»

    «Pronto? Si? Ah Fortis…mi dica. Oh...Oh...Oh...Ohhh...Ma come ho fatto? Che le ho mandato? Era per la signora Fiori...del Museo della Fisica…gliel’ho portato a casa…non c’era…l’ho lasciato nella cassetta della posta…cazzo! Ho scambiato le buste!»

    «Succede, signor Dominici...».

    «Dio svizzero...ho dato a Fiori la dichiarazione del perito...» Era l’incidente in via Stalingrado, una questione pelosa perché c’è finito in mezzo un ragazzo col motorino.

    «Me lo sono sciroppato al telefono signor Fortis…l’autombulanza…dice gli fa ancora male il culo…dice che lei l’ha stretto contro il marciapiede.» Il ragazzo aveva parlato anche della sala d’aspetto al Maggiore, che gli hanno dato una sedia a rotelle perché con un colpo al culo non si scherza, ci va di mezzo la spina dorsale.

    «Continuava a ripetere mi ha stretto contro il marciapiede…gliel’ho detto hai sorpassato a destra…non puoi.» «Gliel’ho detto anch’io Dominici…poi c’era il furgone che mi arrivava addosso…che dovevo fare? Quello stronzetto doveva rallentare invece di sbattermi il motorino sulla portiera.»

    «Ha ragione Fortis…»

    «Il furgone ha invaso la corsia di brutto...», però l’ha visto bene…era un Ducato verde senza finestrini e con una banda rossa. E mentre glielo dice aveva sulla scrivania quell’invito celeste, quel sei virgola seicentoventisei per dieci alla meno trentaquattro! Che numero fantastico! Una enormità favolistica di energia nel tempo. E Dominici ci crede che il ragazzo non si è fatto nulla, giusto la botta al culo, recita, vuole solo i soldi dall’assicurazione. Fortis l’ha visto bene quando è caduto. Ha quasi appoggiato il motorino per terra...poi è andato giù con le mani avanti. Poi si è rialzato ed è ricaduto quasi sedendosi. «Lo so Fortis...lo fanno apposta...ci campano su queste cose...», e però avrebbe voluto chiedergli com’è che non è riuscito a leggere neanche due cifre di un Ducato verde con banda rossa, lui che ha notato pure il cappello da cow boy che aveva l’autista. Comunque nella dichiarazione del perito è previsto il risarcimento riconosciuto dal carrozziere…cinquecento euro per lo sportello…in fondo sono due graffi…i soldi arriveranno in quindici giorni, posta assicurata.

    «Fortis, la devo lasciare…», lo stavano chiamando su un’altra linea.

    «La saluto Dominici…oggi è una giornataccia anche per me.» Era già stanco alle undici di mattina...e aveva mal di schiena...per questo se n’era andato dall’ufficio mezz’ora prima del solito, ha detto ho un malditesta feroce, la cefalea qualche volta è più invalidante del maldischiena, nessuno gli può dire tanto devi stare seduto. Si era messo in tasca la lettera con l’invito, magari gli viene voglia d’andare a quella conferenza, si parla di collegamento fra quantistica e psicologia, la probabilità che certi processi atomici si verifichino nel nostro corpo sotto la diretta influenza della volontà. Può essere interessante. Che poi era soprattutto voglia di capire qualcosa su quel numero pazzesco, un incredibile sei virgola seicentoventisei…seicentoventisei per dieci alla meno trentaquattro! Cazzo di numero. Miliardi di miliardi di miliardi...una enormità spaventosa applicata a una luce semplicemente visibile affondata in un totale incalcolabile, un numero impossibile, un numero che spaesava, che da quanto è immenso alla fine non dice niente, lui sicuro non l’avrebbe mai afferrato, a lui basta e avanza la superficie luminosa, si accontenta di un mondo cullato dall'idea di campi invisibili e vorticosi, e onde senza peso che diventano numeri che fanno balbettare.

    E in macchina si era messo a contare. «Uno due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci undici dodici…proprio come un bambino che si lascia cullare all’infinito. E al parco della Montagnola era arrivato a sessantacinque, sessantasei, sessantasette…sessantotto è la zuppa calda…il sessantanove lo vorrebbe anche Dio. Settanta...settantuno...settantadue settantatre…». Si sentiva meglio...in mezzo a questi numeri senza peso sarebbe bastato un misero filo di peso in più...un misero grammo di cocaina...anche uno solo...un grammo...solo un grammicello di fronte a un sei virgola seicentoventisei per dieci alla meno trentaquattro. Ora sarebbe bastato quel grammo uno, o anche un mezzo grammo. Ma se anche lo vede all’orizzonte, in questi giorni non si può permettere di spendere neanche cinquanta euro.

    Gabriele Fortis tornò in cucina, di nuovo in finestra. Elisa non si vede. Però non si sente proprio giù a bestia... forse nella pasticca c’è un po’ d’anfetamina. Sarà anche tutta questa luce…aveva lasciato accesa pure quella del bagno. Tutto acceso…fa compagnia. Tornò in camera da letto. Sullo specchio vede un uomo grasso in disfacimento. Torna in salotto. Straripava sulla poltrona. Ed è ancora lì a riprovare quel numero fantasma di Sofia, che anche quel suono di libero sembra più lontano, come si stesse spegnendo...ma proprio in quel momento si era accesa una luce nel palazzo di fronte, quella del secondo piano, proprio quella del bagno. Si precipitò a guardare la donna che tutte le sere passa e ripassa, a volte apre la finestra e si lascia ammirare in mutandine e reggiseno. Sicuro sente gli sguardi addosso...figurati se non lo sa. Ci sarebbe voluto un cannocchiale per vederla meglio. Galileo ci guardava le stelle, ha trovato la conferma dell’eliocentrismo, poi l’ha rinnegato, ha rischiato la pelle. Lui senza andare così lontano si sarebbe accontentato di vedere l’intimità di quel corpo che adesso vede e non vede. Vedeva la silhouette che s'accoscia, s'alza, si spazzola i capelli...ma è sempre un barlume che s'intravede...e un attimo dopo aveva già spento la luce. E dalla finestra Gabriele Fortis era passato ai muri. S'era attaccato con l’orecchio a una parete. Riesce a captare qualche sonorità, qualche risata stridula. Tornò in cucina, da un altro muro arriva una musica, era lo stesso muro che qualche volta porta gridi d'amore, sussurri, invocazioni dall'utero di un palazzo dove non conosce quasi nessuno, incontra spesso davanti all’ascensore la signora Pecchioli, settant’anni, buongiorno e buonasera, e sicuro non sono suoi quei richiami d’amore. Però almeno questo pezzo di muro dice che il sangue continua a scorrere...sempre più lentamente ma scorre. Il calo dipende anche dall'ultimo trasloco, a ottobre erano volati via gli studenti del secondo piano portandosi dietro un bel po' di fottisterio. Restano sempre i vecchi...e il parrucchiere Taras Bulba al pianterreno, sempre fitto di fregna, gli arrivano a casa per farsi sistemare i capelli. Ma per arrivare laggiù ci vorrebbe un sonar che infila l'orecchio fra quelle femmine che le immaginava a mangiarselo cogli occhi quanto è lungo un metro e novanta senza neanche un millimetro di pelo in testa, per lui ce l’hanno loro, e stanno lì in fibrillazione dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi mentre aspettano di mettersi sotto quelle mani per aprirgli il cuore e il resto.

    «Basta!» si era stancato di questi muri. Non gli si drizza neanche il cazzo. Tornò al telefono, questa volta digitava il numero di Ettore. Adesso lo dice anche lui digitare...si guardava il digitum indicem mentre il telefono di Ettore continua a squillare. Niente...neanche lui. Lasciò il messaggio in segreteria, «Bellezza...non si trovano neppure gli amici. Non ti volevo stasera...ma domani sì. Che ne dici un salto da Tano...o anche al Montesino...che lì c’è pure la poiesis che ti piace tanto...l’altra sera che non sei venuto c’era uno col pizzetto che recitava in sardo...non si capiva un cazzo. Comunque a un certo punto se n’è venuto fuori con una luna in cielo...e lì qualcuno si è messo a ridere. C’era tutta la banda dei punk...uno che l’orecchino gli mancava di averlo solo nel buco del culo s'è alzato e fa, Scusa...luna calante o luna crescente? Luna Nuova ha gridato pizzetto…si è incazzato e ha gettato i fogli per terra. Ci dovevi essere bellezza...Au revoir!». Che poi neppure Gabriele Fortis aveva capito quella risposta, neanche lui sapeva cos’era la luna nuova...l'ha scoperto su internet, e adesso che sa la luna nuova è quella invisibile avrebbe apprezzato la risposta sibillina del poeta sardo. E tornò ad ascoltare un muro del bagno...l'acqua che scorre, lo scroscio di uno sciacquone, gli sciami striduli penetrano attraverso gli interstizi porosi dell'intonaco. Sente anche un silenzio carico di elettricità, sente il suo respiro inglobarsi nella parete, e se anche gli altri inquilini del palazzo si fossero appiccicati al muro in quel preciso momento, sarebbe stato un bel respirare tutti insieme a contarsi pure i battiti cardiaci, o passarsi le carezze mano mano, accarezzando tutti i muri del palazzo come stava facendo lui aggrappato a ventosa a quel muro che gli sembra di accarezzare le natiche di Gilda che si figurava con quel culetto all’insù, e cercava di ricordarne la voce, gli sarebbe bastata anche una voce del suo culo in mezzo a tutti quei cessi che il muro attraversa, ma non arriva niente, e neanche lui ha voglia di scoreggiare, sente solo l’odore della pittura a tempera di un colore che era stato bianco ma ormai è ingiallito. Provò a leccarla...è amara. Prese dal cesto della biancheria sporca un paio di mutande…anche queste sono amare specialmente sulle macchie, e qualche macchia c’è sempre davanti o dietro, è inevitabile. Avrebbe voluto leccare anche il culo di Elisa, il suo gran culo insieme al culetto elastico di Gilda. Leccava come per togliersi dalla mente la smania che ha dentro che per farla passare non basta certo quel po’ d’anfetamina che c’è nella piperina, ammesso ci sia. Ci vorrebbe la coca. E poi può continuare tutta la notte ad ascoltare muri e a levigare natiche di cemento armato...ma sa che con la cocaina non risolverà certo i problemi con le sue donne o coi suoi cento chili…il bersaglio sta sempre da un'altra parte, comunque da un’altra parte. Ma da quale parte? Che poi a forza di stare in quella posizione aveva cominciato a fargli male un fianco, quello sinistro...s'era incrampata una natica: cercando culi alla fine ha trovato il suo. «L'ho somatizzato...culo di merda...», e sorride tornando in cucina zoppicante. «Adesso Elisa stai esagerando...dovevi arrivare alle otto.» Riprese il telefono...«Magari sei ancora a casa…», ma una voce di donna dice che stanno trasferendo la chiamata sulla segreteria telefonica. «’Affanculo...ma che cazzo è stasera! Non risponde nessuno!» Non fece neanche finire quella frase che conosce a memoria, come conosceva anche l'altra più lunga che avrebbe aperto le porte al suo messaggio. E lui non vuole lasciare nessun messaggio, vuole sentire una voce viva, vuole sapere dov'è, soprattutto vuole sapere quando arriva, che tra un po' sono le nove. E però ormai la conosce, mai una volta sia arrivata in orario, in questo era puntuale, la sua è una puntualità inversa che si giustifica ridendo del piccolo ritardo, per lei sono sempre piccoli solo perché nascono sempre all’ultimo momento quando è sul punto di uscire in orario. E questa volta c’è stato l’intoppo di sua madre, e se Gabriele l’avesse vista mentre litigavano c’era proprio da ridere, lei tutta rossa in viso che sbraita con sua madre come una vasciaiola napoletana proprio per via di quel culo grasso che lui stava accarezzando sulla parete del bagno e lei se porta in giro sotto una gonna che non copre neppure le mutande, così aveva detto piagnucolando sua madre, la signora Anna Gaudino.  

    Seconda Stanza

    «E una perché ha il culo grosso allora non si può mettere la gonna sopra il ginocchio?» «Ma tesoro...si vede tutto quando ti pieghi. Vieni a guardarti allo specchio…dai...». «Ma che cazzo mi frega dello specchio!» e s'era infilata il cappotto beige. Usciva di casa col bavero alzato, sbattendo la porta. «Questa donna deve farmi sempre incazzare!», sillaba le parole a denti stretti entrando nell’ascensore mentre sua madre aveva appena riaperto la porta, ma non ha fatto in tempo a vederla. Lei però ha sentito la porta che si apre, e scendendo sente che la chiama, «Elisa...Elisa...». «Povera donna che sei...», però non riesce a perdonarle quello che dice di suo padre, anche se poi lei l’ha sempre saputo, si vedeva, però una cosa è averlo visto e una cosa è sentirlo dire chiaro e tondo...e lei ha avuto il coraggio di dirlo solo dopo che lui è morto, dopo l'infarto che ha posto fine alla commedia, quella che sua madre stasera aveva chiamato la baracconata. Ed Elisa urlava «Sei una troia!» Le ha detto che papà doveva mandarla a fare il mestiere che sa fare invece di stare lui tutte le notti fuori a lavorare...e sua madre piangeva e anche lei alla fine ha pianto perché avrebbe voluto continuare a credere che dietro quei grandi silenzi fra papà e mamma ci doveva essere almeno un po’ di rispetto per giustificare una resistenza andata avanti quarant’anni. E invece niente, non c’era niente...a sua madre quell’uomo faceva schifo, lo ha detto e ridetto, le facevano schifo le sue mani addosso, se l’è dovuto sposare perché era incinta, aveva maledetto il giorno che l’ha incontrato…e ora che è morto lì senz’altro starà meglio di qui dov’è sempre stato un uomo senza palle, un signorsì, un fallito che in tutta la vita è riuscito solo a fare il portiere di notte da un albergo all’altro che si vergognavano pure a farlo lavorare di giorno

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