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Il giardino delle statue che ridono
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E-book300 pagine4 ore

Il giardino delle statue che ridono

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Info su questo ebook

Matteo e Ludovica sono abituati da tempo a fare i conti ognuno con le proprie solitudini. Un incontro casuale in un giorno di pioggia è l’inizio della loro profonda storia d’amore: due personalità complesse e sensibili si avvicinano e, in un gioco delicato di ascolto e desiderio di comprensione, con coraggio ed equilibrio si mescolano fino a rendersi reciprocamente indispensabili.
Alla casa di cura Villa degli Angeli c’è un paziente misterioso, Michelangelo. Uomo dalle apparenze tranquille e riflessive, di cui nessuno conosce le origini, Michelangelo conserva in sé una storia tormentata ancora da raccontare. E può farlo solo con il linguaggio che meglio padroneggia, quello della scultura.
Queste le situazioni da cui prende le mosse Il giardino delle statue che ridono, romanzo complesso e affascinante di impetuosa scoperta interiore, alla ricerca della verità su una vicenda famigliare perduta nelle tortuosità del tempo, per sconfiggere gli spettri del passato e arrivare a riabbracciare gli affetti più cari.
I personaggi a cui le pagine di Claudio Minoia danno corpo non concedono niente alla velleità e alla leggerezza. Le loro esistenze e i loro modi di agire sono permeati costantemente dalla volontà pertinace di sviscerare la natura e la realtà di ogni loro sentimento. Sono creature letterariamente intense e totalizzanti nel loro rapportarsi, che magnificano e spingono alla dimensione più grandiosa quella capacità di ascolto che è caratteristica più essenziale dell’essere umano.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2018
ISBN9788832922004
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    Il giardino delle statue che ridono - Gianni Minoia

    ridono

    1

    Quel cielo senza stelle di Ludovica

    A volte mi sento una scatola di pelati vuota abbandonata in un campo di grano appena tagliato, si riempie in fretta di acqua e di fango al primo temporale di fine estate. Allora provo a unire punti che inventano disegni fantastici, tra una banderuola sul tetto, la luce rossa di un semaforo e un cane bassotto che scodinzola davanti a una macelleria. Tu invece hai uno specchio nel buio degli occhi, cerchi una traccia qualsiasi di intimità nella mia gestualità mentre ti guardo e sono già lontano, sto salendo a dorso di mulo la cima del monte Aguilara, chiedendomi se esiste davvero e riuscirò mai a raggiungerlo. È bello pensare a una montagna che abbia un nome simile. Mi aspetto da un momento all’altro, come risultante associativa tra passato e presente, l’affacciarsi improvviso di un panorama già immaginato, mi riferisco alle Ande di Catamarca. In quei luoghi deve essere caduta molta neve e credo che in una grotta ben mimetizzata da qualche cespuglio si nasconda, pronto a colpire, l’orso del rancore. Strano posto dove andare a rifugiarsi, ma è indubbio che talvolta i sentimenti diventino feroci e si celino in nascondigli improvvisati, pronti a ferire. Abbiamo sbagliato pensando che potesse sbranare per sempre la furia della passione. Presto, troppo presto la tenerezza si è trasformata in carezze languide diventate una cascata di cubetti di ghiaccio fumante. Adesso stiamo commettendo un errore più grande, credendo che il boomerang della voglia di ricominciare tornerà a sibilare sopra le nostre teste. È più probabile che la freccia di una cerbottana, che faccio coincidere con l’odio e il risentimento, mi colpisca alle spalle, come vendetta per avere ferito la tua voglia di esistere. Nel nostro microcosmo, perché questa è diventata la proiezione di ciò che resta del sogno, mi attribuisci con facilità, e forse con eccessiva disinvoltura, colpe che dovremmo perlomeno dividere in parti uguali. Rifiutarsi di appartenere a questa lettura equivale a sostenere che fuggo e ti sto abbandonando. Chissà cosa sarà davvero successo? Mi domando se tra la finzione e l’apparenza è rimasta qualche impronta della realtà che abbiamo condiviso. Perlomeno spero sia così. Persino sospirare gli costò fatica.

    So bene che siamo una complessa forma di solitudine che cerca rifugio nella notte. A Lund l’aurora boreale si sta spegnendo in modo quasi impercettibile, mentre noi abbiamo assunto la forma di una candela consumata. Vorrei abbracciarti ancora una volta con il calore di ieri, tra le parole pensate e quelle prive di enfasi, ma la campana ha sfondato il pavimento della sacrestia. Il prevosto che zappava l’orto scavando piccole buche per seminare patate, per un attimo ha alzato il capo. Un momento di fragore non gli interessa, ritiene che la vita sia una sequenza incessante di eventi, una stampella robusta che sostiene e aiuta a credere, senza regalare sicurezza ma distribuendo forme diverse di incertezza. Soppesò con cura le ultime parole.

    Nulla può cambiare di più un essere umano se non riesce a comprendere quale sarà il suo destino. Matteo lo credeva profondamente ma tentò di nasconderlo in minuscoli anfratti della mente, in quei luoghi segreti dove in genere si ammassano le espressioni consuete e ripetitive delle persone deluse. Qualche passo alle spalle interruppe le riflessioni, anzi le immobilizzò e il film muto tornò sonoro.

    Stai bene? Ti serve qualcosa? Magari un ombrello? Seduto su una panchina del parco del castello visconteo gli accadde di scontrarsi all’incrocio tra via del Sospiro e piazza dell’Amarezza con un viso giovane, sul quale la gioia sembrava avesse stabilito la residenza permanente.

    Tu chi sei?

    Ludovica.

    Non hai pensato che potrei essere un individuo socialmente pericoloso? Le labbra di lui disegnarono un sorriso incompleto, sfumato, appena accennato: Non credere che sia ubriaco ma se tu indossassi un intimo color blu china saresti una preda perfetta. Adoro il frusciare della seta. La guardò negli occhi e la ragazza sostenne lo sguardo con molta naturalezza.

    La risposta non si fece attendere oltre: Un conto è esprimere ciò che si sente per sfidare i luoghi comuni e provocare l’interlocutore e un altro è vivere ciò che prende dentro. Detto questo, non credo che basti vestire il desiderio di trasgressione, anche quando racchiude una fantasia di violenza. Ci vuole solo un attimo per comprendere che la prepotenza non ti appartiene, che piuttosto preferiresti fare del male a te stesso, che senti il bisogno di restare sotto l’acqua scrosciante per punirti di un dolore che hai provocato o lasciato come regalo a qualcuno la notte dell’ultimo Natale. Sei la prima persona che incontro che invece di chiarirsi le idee e i pensieri li sottopone a un accurato lavaggio sotto la pioggia. Matteo si rese conto che non era affatto calata di intensità e realizzò che l’ombrello di Ludovica lo stava proteggendo.

    Un gesto carino, fin troppo affettuoso per uno sconosciuto.

    È perché temevo che i pensieri più belli potessero annegare da un momento all’altro.

    Che ci fai in una città longobarda come Pavia?

    Studio, o almeno ci provo, a volte mi sembra tempo perso, replicò prendendo la palla al balzo. E tu? Immagino ci abiti, a volte appare una città sordomuta ma altre si risveglia all’improvviso in primavera. Può essere sufficiente un volo di piccioni in piazza del Duomo ai primi raggi di sole o un pensiero triste che si isola dagli altri e poi cade al suolo, annegando in una pozzanghera.

    Sono un pittore che non sa più dipingere, uno scrittore che ama alla follia il foglio bianco in attesa di ricevere parole che diano emozione, sì, sono tutto questo e altro ancora.

    Ludovica lo osservava con curiosità, ma non era uno sguardo insistente e soprattutto riuscì a non farlo sentire a disagio. Restò in silenzio, non aggiunse ulteriori commenti, anzi improvvisamente gli sembrò inquieta, sul punto di andarsene da un momento all’altro. Lo lasciò così, senza parole, senza neppure un saluto, non rimase neppure la scia di un pensiero leggibile o perlomeno intuibile.

    Tornò a piovere, più forte di prima.

    La vetrata era sporca all’interno e all’esterno e l’uomo in piedi davanti alla grande finestra osservava il vento intrappolarsi tra i fili d’erba, più fitti dei capelli di una quindicenne. Capelli biondi e lisci con i quali il grecale si divertiva a giocare. Aveva una ruga al centro della fronte, anzi appariva quasi un solco, una ferita antica e profonda che sembrava separare passato e presente. Gli infermieri della casa di cura Villa degli Angeli l’avevano chiamato Michelangelo. Nessuno ricordava esattamente da quanto tempo fosse loro ospite. Non era un lupo in gabbia, anzi viveva fuori dalla gabbia, gli bastava usare fantasia e immaginazione e mutare continuamente il punto di osservazione. A chi lo guardava con attenzione Michelangelo appariva una persona un po’ assente, perché aveva imparato ad addomesticare gli istinti o forse erano stati proprio loro ad adeguarsi alle sue forze residue.

    L’erba era per Michelangelo il mare infinito e sterminato. L’allusione poteva essere all’oceano degli eventi, nel quale è facile diventare relitti alla deriva. La fantasia lo faceva diventare un’immensa distesa blu e quando le margherite sbocciavano numerose Michelangelo riteneva che i punti bianchi fossero la criniera di onde che chiamava punk, stanche del continuo vagare. Gli sembrava cercassero di distendersi nell’incontro con la spiaggia, raggiunta dopo un viaggio stressante. La risacca provava a trascinarle via di nuovo, più o meno dolcemente, avvolgendole in un lenzuolo di sabbia fine in sospensione. Ogni tentativo era tuttavia vano.

    Ma a un certo punto Michelangelo ebbe la percezione di una forza nascosta che aveva deciso di concedergli una pausa ristoratrice. Una sorta di premio dopo tanta sofferenza.

    Allora Michelangelo, hai trovato il pezzo di legno giusto? La scorsa settimana un fulmine ha colpito un cedro del Libano, mi riferisco all’albero più alto, quello vicino all’ingresso. Presto verranno gli operai e taglieranno il tronco, vedi di esserci, se glielo chiedi ti regaleranno il pezzo che ti piacerebbe lavorare.

    Michelangelo lo guardò con espressione indefinibile e la luce che gli avevano trasmesso quelle parole accesero per un attimo il suo sguardo, sino a quel momento attonito, prima che si smarrisse di nuovo in qualche parte profonda.

    Ho visto un veliero stamattina presto.

    Lo dici quasi ogni giorno. L’infermiere si chiamava Simone Bocconcelli e aveva grande pazienza. Sapeva ascoltare quello strano paziente del quale conosceva bene l’abilità di scolpire il legno. Ne era addirittura affascinato, una parte lo invidiava ed era la migliore espressione di affetto che avrebbe potuto regalargli nella diversità, apparente o reale, del loro rapporto.

    In fondo l’arte è uno dei tanti volti della pazzia, l’altra faccia della moneta, pensò. La falsa normalità è uno stato psichiatrico che può diventare incredibilmente feroce, un santo diventa improvvisamente uno squalo, un impiegato di banca un piranha se non accetti i consigli finanziari che stanno alla base del suo interesse. Un dirigente può assumere le sembianze di un caimano che piange prima di sbranare l’impiegato che detesta.

    Michelangelo continuava a osservare la campagna dalla vetrata.

    Come si chiama la tua barca?

    Non è una barca, si tratta di un veliero. Forse Poseidone.

    Forse?

    Il nome è dipinto sulla parte dello scafo che non si vede, solo una volta ha virato di poppa e ho potuto leggere il nome che ti ho detto.

    E la scritta di quale colore era?.

    Te l’ho già detto! Bianca, candida come lo scafo, dello stesso colore erano le vele e persino i due alberi.

    Sarà come dici allora! Se vedo gli operai gli dirò che quando segheranno il tronco del cedro dovranno metterne da parte un grosso pezzo per te.

    Gli sembrò che Bocconcelli alludesse a una grande fetta di torta alla crema. Non ringraziò l’infermiere o se lo fece usò il silenzio, un contenitore enorme nel quale si erano accumulate le parole che era più riuscito a pronunciare. Magari un giorno si sarebbero affacciate alla bocca, labbra curiose sulle quali troneggiavano occhi neri e capelli dello stesso colore, pur con diverse striature argentate.

    Il Bocconcelli se ne andò con andatura strana, sembrava un uomo a cavallo ma i piedi erano bene appoggiati al suolo, forse un insolito effetto ottico indotto dalle gambe corte e tozze e discretamente curve. Sembrava sul punto di inciampare da un momento all’altro.

    Oggi ai giardini del castello ho incontrato una ragazza davvero fuori dal comune.

    Tu devi detestare ogni cosa che assomigli anche solo vagamente a un ombrello. Anzi nuoti molto bene, ti ho visto mentre rientravi zuppo dalla testa ai piedi… Con ogni probabilità hai chiacchierato a lungo, magari fino alla fine del temporale, Noemi lo punzecchiò in modo aspro prendendolo in giro, continuando a osservarlo con insistenza. L’ironia strideva con la durezza che aveva dentro. Come usare un punteruolo per incidere una lastra di cristallo.

    Sei forse gelosa?

    Per quel che rimane di noi!

    Dai, in fondo anche le piramidi hanno un loro fascino.

    Probabilmente mi attrae il fatto che ti detesto. Fai di tutto per essere insopportabile, non perdi mai occasione.

    È una vita intera che il tuo disagio mi insegue e un giorno o l’altro dovrò regalarti una nuova automobile, un autentico bolide, così riuscirai a raggiungermi, ma posso confermarti che spesso sono fermo ad aspettarti! Sei tu che scivoli via… e non perdi neppure un’occasione.

    Parlami della ragazza che hai incontrato.

    Ludovica.

    Un gran bel nome, direi troppo aristocratico per i miei gusti. Aveva qualcosa di veramente speciale, se intuisco bene.

    È vero, aveva un’espressione radiosa, sebbene piovesse a dirotto, a differenza di qualcuno di mia conoscenza. Anche quando il sole risplende accenderebbe le luci dell’intera città per illuminare i pensieri.

    Incontri di questo tipo non mi accadono mai. L’ultima volta che sono stata fermata da un uomo era un salumiere del centro.

    Un incontro suggestivo.

    Voleva sapere se era buono il salame di Varzi che avevo comprato al suo negozio qualche giorno prima.

    Allora si trattava di un buongustaio, in tutti i sensi! Noemi gli spedì un insulto inequivocabile e prima che Matteo avesse il tempo di elaborare una risposta gliene inviò altri tre o quattro, a intervalli più o meno regolari.

    Il problema è che come donna sei un po’ snob e soprattutto ipercritica.

    Ha parlato l’inventore della semplicità. C’è una lapide al camposanto che ho letto quasi volentieri.

    Un po’ macabro.

    "Ma no, vedrai, ti farà sorridere. C’era scritto Qui giace l’inventore della semplicità che però, avendo scoperto che si annoiava, non ha comunque mai smesso di essere una struttura complessa."

    Vivi come un gambero, un passo avanti e dieci indietro, per raccogliere tutta la spazzatura che mi butti addosso.

    Non provocarmi, potrei essere un pacco con una bomba dentro, per cui quando meno te lo aspetti potrebbe avvenire la grande esplosione.

    È da molto che sono in attesa.

    Mi spieghi che ho fatto per essere trattata in questo modo?

    Forse nulla, potrebbe essere questo il vero problema, sei rimasta alla finestra tutto questo tempo… Ti sei chiamata fuori da quello che era accaduto e che io ho continuato ad affrontare in splendida solitudine. Ho desiderato all’infinito che mi aiutassi a scoprire ciò che stava accadendo.

    A posteriori dovrei considerarla una richiesta affettiva?

    No, si trattava solo di una speranza. Ho continuato a credere che fossimo in grado di arrestare la fine del nostro rapporto.

    Non capisco che vuoi dire.

    Spero adesso che tutto finisca il più presto possibile.

    Mi stai chiedendo di andarmene? Ci metto meno di un quarto d’ora a fare la valigia.

    Ti sto comunicando che sono io a lasciare questa casa, mi bastano pochi minuti! Noemi iniziò a piangere in silenzio. Matteo era cosciente che la cattiveria non avrebbe mai asciugato le lacrime di una donna.

    2

    I colori dell’anima

    La via della semplicità e la via della sete. A volte guardando l’incredibile monumento della Certosa mi chiedo quante vite questa grandiosa opera deve essere costata. C’è sempre un motivo per cui un atto assurdo diventa un’opera d’arte. E poi senza rischio l’esistenza sarebbe così banale! A quel tempo la morte di poveri operai doveva apparire ai pochi eletti un evento noioso, un dettaglio, una zanzara che pungeva la coscienza e finiva stecchita, uccisa dal veleno nascosto nel sangue dei potenti. In questi anni il mio cervello è diventato arido, le idee sono poche e sembrano fiori secchi. L’esistenza è appesa a un filo e altre volte precipita al suolo sotto il peso di catene opprimenti. È così che a volte crolla il soffitto nella casa delle idee, ci si ostina a portare dentro un peso enorme. Il passato, che siamo abilissimi a difendere, non contiene steccati e a prima vista non vi sono barriere. Eppure le ho rafforzate sino a renderle invisibili, il che equivale ad affermare che sono più sicure di un caveau blindato. L’ostacolo vero da superare è alterare la stabilità, nel momento in cui tendo a confonderla con l’immobilità, anche in quelle rare situazioni in cui riesco a essere spontaneo. C’è un tessuto spugnoso alla periferia dell’io, che assorbe di continuo percezioni e sensazioni. Poca roba rispetto a quello che potrebbero offrire le emozioni vissute con pienezza. A volte mi accontento di residui di comunicazione, ad esempio quando bevo un caffè al bar la mattina presto, scambiando circa trenta parole col vicino al bancone. In certi giorni riesco a sostituirne qualcuna, ma è la massima capacità di rinnovamento che possiedo. Rimane sempre una tela grigia, una bevanda calda senza profumo né sapore. Eppure idealmente vorrei scagliare il sasso lontano, sentirlo cadere nel buio, per risvegliare dal letargo qualche stato d’animo scalpitante e difficile da contenere. Macch é ! Nulla da fare, il mappamondo della possibilit à non gira mai al contrario.

    Stesso parco, stessa panchina, quasi la stessa ora, quando arrivò la medesima ragazza, in una sera senza pioggia.

    La luna accelerò la corsa, o almeno così sembrò a Ludovica, mentre si nascondeva al riparo di una nuvola destinata a confondersi col cielo nero. Il lampione era a pochi metri di distanza e si accese all’improvviso. Gli spazi di luce e il buio nero ricordavano un dipinto di Caravaggio.

    Le nostre abitudini si divertono a farci incontrare.

    In un anno è la seconda volta che vengo ai giardini del castello visconteo. Mi manca il tempo di farlo, anche se poi non è male stare seduto su una panchina ad aspettare che i pensieri mi lascino, permettendomi di ritrovare un senso di pace. La curiosità, ma non solo, mi ha spinto a tornarci. Speravo di incontrarti di nuovo.

    Speravi?

    Ne ero certo!

    Così va meglio. Allora posso dirti che abbiamo avuto lo stesso desiderio.

    Desiderio?

    Esprimi ciò che sei solo quando decidi di farlo, in me accade quando ho bisogno di mascherare il senso di vuoto.

    Potrebbe anche essere. Rilevo in te una certa avversione per il linguaggio convenzionale.

    Non riesco e non voglio nascondere ciò che ho dentro. Trovo sia la via più breve per raggiungere ciò di cui ho bisogno.

    Traducendo meglio quello che hai detto a un ottuso come me, mi spiegheresti a che ti riferisci?

    All’immediatezza, alla spontaneità, lenzuola bianche e lenzuola blu, viviamo nella luce e non in una miniera. So che per molte persone sono termini abusati, considerati obsoleti.

    Quindi guardare gli altri con il cuore e attraverso il mondo che tratteniamo dentro, scoprirsi senza valutare rischi e benefici… Davvero fantastico, sorrise e Ludovica vide in un attimo le contraddizioni che lo sconosciuto aveva trasferito in superficie, rendendole finalmente leggibili.

    Ciò che hai detto solleva gioia e anche polvere. La tristezza e la delusione con il tempo si depositano ovunque. Trovo il tuo modo di pensare dolce e incosciente per cui sarei pazza se rifiutassi di capire.

    Ludovica indossava scarpe bianche da ginnastica e una tuta celeste. Stava in piedi davanti a lui che distese le braccia sulla panchina di metallo verde scuro, quasi volesse abbracciare la rivelazione che lei rappresentava.

    Se riuscissi a estrarre dall’incubo che ti divora colori dimenticati torneresti a dipingere i sogni. Riscopriresti il rosso e il giallo, smetteresti di usare le mezze tinte, o peggio quelle sbiadite. Butta via il tubetto di colore nero, ho sempre odiato ciò che toglie la speranza.

    Non sarà facile, ho una buona memoria. A proposito, ho scoperto che ci siamo già incontrati, direi che in modo insolito ci siamo già conosciuti.

    Finalmente ci sei arrivato! Non avevo dubbi che prima o poi ti saresti ricordato di me. Avrei potuto dirtelo ma c’era qualcosa che volevo capire prima di parlartene.

    Il vento diffondeva ampi respiri intorno a sé e cercò persino di spostare la nuvola, senza riuscirci. Si trattava di una fantasia impossibile, ben oltre la sua portata.

    Sei riuscita a capire?

    Penso di sì. Matteo si aspettava un forse o credo, ma la ragazza non faceva sconti, il suo vocabolario non dava adito a equivoci o interpretazioni errate. Tuttavia non le chiese altro. Era certo che gli avrebbe detto, con la consueta schiettezza, a quali conclusioni era arrivata.

    Preferisco sia tu a tradurre i percorsi di questo sogno bizzarro in parole. Quando esco dall’igloo e rientro tra le vie del mondo inizialmente mi appare il deserto e allora provo una sensazione ossessiva e devastante. È un brulicare di pensieri impazziti, credo si tratti di un’elaborata forma di aridità che vorrebbe continuare a dominarmi incontrastata. Matteo navigava a vista, entrava e usciva da una sequenza interminabile di banchi di nebbia. Si sentì frastornato, pervaso dal senso di stupore che si affacciava regalandogli un io diverso da quello che aveva immaginato, quasi si stessero risvegliando meccanismi assopiti e confusi.

    Decise di buttare sul tavolo le carte che aveva in mano, non per gioco e neppure per stupire quell’insolita ragazza, sbucata da un tempo che non immaginava né conosceva. Era riuscita a risvegliare in lui un inderogabile bisogno di chiarezza, a fargli intravvedere come avrebbe potuto uscire da dove si era rifugiato, portandolo a ritenere che avrebbe potuto mettersi di nuovo in gioco. Finalmente. Era per lui un vocabolo ancora estraneo, un suono al quale sarebbe rapidamente riuscito ad adattarsi, quasi si trattasse di qualcosa di famigliare.

    Hai ucciso mio padre e dopo due anni hai salvato me. A raccontarla così è come se tu avessi pareggiato i conti con la coscienza. Sei stato molto fortunato. Prima di parlarti credevo che per te il cuore fosse un complicato oggetto pulsante. Se all’improvviso in un paziente il cuore si ferma non è colpa tua, ti assolvi convincendoti in meno di un minuto che hai messo nel lavoro tutta la perizia e l’abilità che possiedi. Se il cuore del malato riparte allora diventi un eroe moderno, un lontano parente di Dio, perché hai la capacità di compiere qualche sfumato miracolo. Adesso capisco che sei coraggioso, sai combattere per sconfiggere la malattia, non vuoi apparire un’icona. Ti ho odiato a lungo nell’immaginario, pensando il contrario. In questo momento sono arrabbiata con me perché mi trovo addirittura nella posizione di difenderti. E bada bene che non ti conosco, ma l’istinto mi spinge a comprenderti, a cercare di intuirti, prima era una sensazione sfumata ma adesso è diventato l’ago di una bussola orientato nella tua direzione.

    Matteo Vignati, ascoltando Ludovica e leggendole negli occhi ciò che stava raccontando, rimase qualche minuto in silenzio, incapace di credere ciò che udiva. Pensò alle forme più subdole di ipocrisia, che in fondo era l’abito quotidiano di molti, adatto a tutte le stagioni. A turbarlo maggiormente era la calma interiore della sua interlocutrice e la lucidità delle sue parole. Abbelliscono la visione del mondo e delle cose.

    Teneva le mani nelle tasche del cappotto e giocherellava con un mazzo di chiavi. Erano divagazioni, servivano per guadagnare tempo e comporre le tessere mancanti del mosaico. Si rifiutò di fare ricorso a

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