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La Missione impossibile: Il PSU e la lotta al fascismo
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E-book210 pagine2 ore

La Missione impossibile: Il PSU e la lotta al fascismo

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Con un titolo fortemente evocativo il libro ricostruisce le vicenda del Partito socialista unitario, di orientamento riformista e democratico, nato dalla scissione del Partito socialista italiano nell'ottobre 1922, poche settimane prima della marcia su Roma. Un partito che ha trovato poco spazio nella storiografia, che ha tentato di rilanciare, in una fase drammatica per il nostro Paese, la tradizione riformista delle origini socialiste.

Il cammino del Psu, guidato da personalità del calibro di Turati, Matteotti, Modigliani, Treves, Buozzi, per citarne alcuni, è tortuoso sin dagli inizi, schiacciato a destra dal fascismo − che lo ritiene il nemico più temibile − e a sinistra dal bolscevismo dei socialisti massimalisti e dei comunisti che lo ritengono un "partito socialfascista".

Il saggio si concentra non solo sulla lotta al fascismo − che portò avanti fino all’avvento delle leggi fascistissime nel 1926 e che ebbe il suo momento più drammatico con la morte del Segretario Giacomo Matteotti – ma evidenza i principi e gli aspetti riformisti del partito: il miglioramento, graduale ma costante, del tenore di vita degli ultimi; l’eguaglianza del punto di partenza, che vuol dire dare a tutti le stesse possibilità, non discriminando nessuno per il rango di nascita.

LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2021
ISBN9788832104370
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    Anteprima del libro

    La Missione impossibile - Fabio Florindi

    Biblioteca della Fondazione Pietro Nenni

    © Arcadia edizioni

    I edizione, marzo 2021

    Isbn 9788832104370

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    In copertina: Alcuni protagonisti ed esponenti di spicco del Psu.

    Da sinistra: Giuseppe Emanuele Modigliani, Anna Kuliscioff, Giacomo Matteotti, Bruno Buozzi e Filippo Turati.

    Tutti i diritti riservati.

    Prefazione

    Il successo editoriale e mass mediale di romanzi documentati, sintesi a carattere pubblicistico, docufilm e finzioni cinematografiche ha portato nuova e diffusa attenzione su vicende e personaggi della storia italiana tra le due guerre. La cura della memoria collettiva non potrebbe che essere valutata positivamente, ma l’uso pubblico della storia non è mai neutro e può presentare non poche insidie se e quando si astenga o addirittura si contrapponga nei confronti di quell’uso critico delle fonti (e della storiografia) che è peculiare del metodo dello storico. In tale contesto il rischio delle manipolazioni è ben presente specialmente quando l’oggetto sono le famiglie politiche (oggi in grande crisi di identità). Nel merito sarebbe ormai lecito aspettarsi una compiuta laicizzazione degli studi, ma non è così, come attestano sorprendentemente anche le recenti celebrazioni del centenario della nascita del Partito comunista d’Italia.

    Si deve dunque salutare positivamente l’iniziativa della Fondazione Pietro Nenni di promuovere il saggio di Fabio Florindi, La missione impossibile. Il Psu e la lotta al fascismo, che in una sintesi apprezzabile anche per la chiarezza espositiva propone all’attenzione del lettore nodi problematici su cui la storiografia sembra stentare a compiere significativi passi avanti rispetto agli anni ’70-’80. La chiave di lettura scelta dall’autore, anche se non l’unica, è la ricostruzione della vicenda del Partito socialista unitario, di orientamento riformista e democratico, nato dalla scissione del Partito socialista italiano nell’ottobre 1922, poche settimane prima della marcia su Roma. Assumendo come temine ad quem l’avvento del regime nel 1926, il saggio si focalizza sull’opposizione al fascismo, riassunta nel titolo: missione impossibile. Titolo facilmente evocativo, e certamente provocatorio, ma che non manca di stimolare nuove suggestioni rispetto a stereotipi fin troppo consolidati.

    La formazione del Governo Mussolini fu frutto di una crisi extraparlamentare ma ricondotta nell’alveo costituzionale dopo l’incarico ricevuto dal Re e il voto favorevole del Parlamento (dove la presenza fascista era minima) eletto con le elezioni anticipate del 1921 volute da Giovanni Giolitti in funzione antisocialista. Era un governo di ampia coalizione contro il quale – occorre sempre ribadirlo – i socialisti furono la forza politica più decisa, se non l’unica, ad opporsi. Per tutti, valga il discorso di Filippo Turati sulla fiducia, uno dei momenti più alti della storia parlamentare, e, più in generale, della coscienza democratica del nostro paese.

    Le prospettive e le modalità dell’opposizione si presentarono problematiche fin da subito contro un avversario violento, spregiudicato e abile in una situazione che lungi dal normalizzarsi si stava sempre più evolvendo in chiave autoritaria. Con larga approssimazione si possono distinguere: un’opposizione intransigente e pregiudiziale, che attribuiva al Governo una irriducibile natura autoritaria e quindi la responsabilità della perdurante violenza nel paese e contro le istituzioni; un’opposizione più tattica su singoli provvedimenti nel tentativo di dividere e infine di sgretolare la maggioranza parlamentare a sostegno di Mussolini; un’opposizione da modulare in relazione all’acquisizione di garanzie minime di tutela delle libertà personali e di gruppo, o alla salvaguardare degli spazi residuali per l’agire, di fatto per sopravvivere. Come documenta Florindi, tali orientamenti non erano affatto stabili, ma piuttosto mutevoli, con accelerazioni e attese di riaperture dettate dagli eventi, rivelatesi ben presto vane, oppure con atteggiamenti di disillusione che si traducevano in posizioni di pura testimonianza.

    L’opposizione risolutamente intransigente fu rappresentata in particolare da Giacomo Matteotti, il giovane deputato che tra i primi aveva denunciato in Parlamento i misfatti dello squadrismo fascista nel Polesine e nel Ferrarese e che con Filippo Turati, Claudio Treves e Emanuele Modigliani aveva costituito una sorta di direttorio del Gruppo Parlamentare socialista, almeno per la componente riformista. Chiamato alla segreteria del nuovo Partito, il PSU, si era trovato davanti una realtà organizzativa drammatica. Interrotte o addirittura compromesse le linee tradizionali della trasmissione del discorso politico – dalle sedi territoriali politiche o della rete associativa collaterale, al corpo dei quadri e degli amministratori locali e dei quadri – e ridotta la consistenza della struttura centrale ad un piccolo ufficio, al segretario non restava che un’esile rete di fiduciari, che a mala pena copriva l’Italia meridionale; e, per la propaganda, «La Giustizia», gravemente indebolita dalla limitata diffusione e dagli irrisolte difficoltà economiche. «La Critica sociale» manteneva la sua tradizionale autonomia. L’organizzazione del Partito doveva fare i conti con l’esigenza di difendersi innanzitutto dalla polemica settaria di massimalisti e comunisti, che in tutte le sedi facevano dell’accusa di cedevolezza alla borghesia l’arma polemica principale contro gli unitari. L’impegno di Matteotti fu comunque straordinario, in linea con il temperamento, e quel suo tratto di rigoroso attivismo, che lo induceva a supporre che non si facesse mai abbastanza, ha contribuito a consacrarne l’immagine eroica del difensore della libertà comune. Delle difficoltà e dei rischi della lotta Matteotti era ben consapevole come attestano l’impegno profuso nella costante denuncia dello squadrismo fascista sulla base di una documentazione costantemente aggiornata (Un anno e mezzo di dominazione fascista, a cura di Stefano Caretti, Pisa University Press 2020), e financo l’adozione di precauzioni a tutela della incolumità personale, rivelatesi poi non sufficienti.

    Esigenze diverse aveva il gruppo dirigente della Confederazione generale del lavoro, anch’esso di orientamento socialista riformista, perché doveva fronteggiare il frazionismo interno massimalista e comunista, la caduta libera degli iscritti, la concorrenza crescente delle corporazioni fasciste e le incursioni costanti dello squadrismo. Nel giro di un paio d’anni il crollo era stato di proporzioni enormi, e la china sembrava inarrestabile. La capacità di mobilitazione, che in via teorica avrebbe dovuto costituire la forza d‘urto resa disponibile anche per il partito del proletariato, si era andata riducendo in modo sostanziale dopo il fallimento dello sciopero legalitario dell’estate del 1922. Alcuni anni dopo Mussolini, nella fattispecie fonte attendibile, considerò con quell’evento conclusa la guerra civile, ricordando come da allora le sinistre non fossero più riuscite a promuovere una vera e propria mobilitazione di piazza, né contro la marcia su Roma, né contro gli atti del suo Governo, né dopo il delitto Matteotti.

    La CGdL temeva la progressiva riduzione dell’area propria dell’attività sindacale, quella della contrattazione, fino alla definitiva estinzione con il patto di Palazzo Vidoni. La duplice esigenza del gruppo dirigente confederale era dunque di salvaguardare ciò che restava dell’organizzazione sindacale contenendone l’emorragia, a cominciare dai quadri e dalle sedi territoriali, e di tenere comunque aperto un sia pure residuale spazio di agibilità contrattuale. Da lì partivano la dichiarazione di suoi autorevoli esponenti a favore della pacificazione con il fascismo fino a valutare la praticabilità dell’inedita ipotesi di un sindacato nazionale, la disponibilità a partecipare a titolo personale alla compagine governativa, il ripiegamento ad una funzione puramente tecnica contemporaneamente alla rinuncia alla pubblica professione politica. Tutto ciò era funzionale alla normalizzazione che di volta in volta Mussolini professava, per poi vanificarla. Era Mussolini che accendeva e spegneva l’interruttore. Era esattamente tutto ciò che Matteotti contrastava con il massimo rigore, essendo alternativo alla sua prospettiva.

    I margini di un’opposizione efficace erano resi ancora più stretti dallo scollamento tra partito/i e sindacato. L’imperversare del frazionismo politico della sinistra, che in certi momenti pareva assorbire qualsiasi azione senza mostrare alcun segno di ravvedimento, rendeva di per sé non più praticabile quel legame che nel 1907 l’allora neonata CGdL aveva stretto con il Partito socialista e che poi aveva confermato all’indomani della guerra mondiale. D’altra parte, nella comune professione della ortodossia marxista i tre partiti della sinistra, pur in concorrenza tra loro, aspiravano tutti alla rappresentanza politica del proletariato, conditio sine qua non della loro stessa esistenza. A ben guardare, e ciò in prospettiva di più lungo periodo, sarebbe difficile comprendere le complesse vicende della sinistra italiana prescindendo da tale nodo, tra risorsa e vincolo.

    La vera tribuna dell’opposizione restava il Parlamento, dove giganteggiava Filippo Turati, l’unica grande personalità socialista in grado di portare la più alta testimonianza della sua parte politica, ma anche di interloquire alla pari con gli esponenti della classe dirigente liberale e perfino di aggregare intorno a sé personalità di diversa cultura e orientamento. La lotta antifascista di Turati, assecondato da Claudio Treves, fu tutta all’interno del Parlamento, prima, nel 1923, nel tentativo di disgregare la composita maggioranza del Governo Mussolini con la campagna contro la legge Acerbo e a favore della proporzionale confidando sui popolari di don Sturzo, poi cercando la convergenza delle opposizioni in occasione delle elezioni dell’aprile 1924, infine nell’Aventino quando puntò alla creazione di un blocco democratico per la libertà nell’attesa di un colpo d’ala della Monarchia, che non venne, o della convergenza dei gruppi di opposizioni a Mussolini formatisi alla Camera.

    Numerosi ostacoli si contrapponevano a tale disegno: le pressioni dello squadrismo e dei ras del fascismo sullo stesso Mussolini, il Vaticano, la Monarchia che avrebbe dovuto farsi garante costituzionale, la debolezza dei ceti liberali fiduciosi nella normalizzazione del fascismo, ma comunque sempre diffidenti nei confronti della presenza di una sinistra legata a Mosca e sostenitrice della dittatura del proletariato, e infine rassegnati di fronte alla svolta autoritaria. Sulla rapidità dell’avvitamento autoritario basterà considerare il confronto della composizione dei listoni nazionali presentati nelle elezioni politiche del 1921 e del 1924: nel Giolitti aveva incluso una pattuglia di candidati fascisti nella convinzione che così sarebbe stato più facile addomesticare il fascismo riconducendolo nell’alveo liberal-costituzionale, nel secondo, battezzato sotto il gagliardetto del fascio, la proporzione era invertita a danno dei candidati liberali.

    Nel dicembre 1926, quando in patria qualsiasi forma di opposizione legale non fu più possibile, Turati accettò di farsi simbolo vivente di un’Italia libera e democratica eludendo la sorveglianza della polizia di regime e trasferendosi all’estero. Così intesero Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini che lo accompagnarono in motoscafo in Corsica. Fu una fuga, ma entrata nella leggenda epica dell’antifascismo italiano e europeo. Solo con evidenti forzature potremmo includere nelle forme e nei tempi peculiari alla politica attiva tanto l’attività clandestina quanto le testimonianze di rigetto culturale dell’ideologia fascista, pur essendo tutte altamente significative nella formazione di una diversa identità nazionale.

    Cosicché ultima fase dell’opposizione costituzionale al fascismo, o almeno la più rilevante, si può identificare nell’esperienza aventiniana. Certo, nei tempi brevi che sono quelli della politica, l’Aventino fu un fallimento perché non si avvicinò neppure alla possibilità della formazione di un Governo di coalizione che ripristinasse gli spazi di un agire democratico, e anzi alla fine Mussolini ne trasse vantaggio per la stretta di regime sopprimendo ogni dissenso. Quell’evento è stato facilmente caricato di passività, inerzie, rassegnazioni, vuoti. Il giudizio ha coinvolto, con particolare severità, anche il socialismo riformista, che ne fu parte decisiva, e assai meno la sinistra pregiudizialmente e irriducibilmente antiborghese, per la quale si sono potute invocare almeno le attenuanti generiche. E’ doveroso osservare, tuttavia, che finora si sono rivelate assenti o assai poco convincenti le tesi di eventuali alternative realmente praticabili che fossero ugualmente indirizzate alla caduta di Mussolini. Per lo più, quando espresse, si sono rivelate frutto dell’assunzione diretta e acritica degli slogan del dibattito politico di allora. Essendo la ricerca storica sempre in progress, non c’è che da aspettare fiduciosi. Ma intanto non si può dimenticare del tutto che, sia pure in condizioni assai mutate, fu il blocco democratico costituito dai combattenti per la libertà a sostituirsi alla dittatura fascista, la cui caduta fu resa possibile per l’intervento della Monarchia (intervento tardivo che non fu sufficiente a salvare la Corona); e che lì furono poste le ragioni identitarie della Costituzione repubblicana.

    Un ulteriore punto merita una precisazione, cioè quello secondo il quale gli aventiniani, a cominciare dai capi riconosciuti, fossero irrimediabilmente vittime della loro ignoranza politica, in particolare sulla natura del fascismo, come amabilmente si sente ripetere ancora. Invero, in una lettera a Anna Kuliscioff proprio all’indomani della costituzione dell’Aventino, Turati fu tra i primi ad avanzare dubbi sulla sua effettiva efficacia tanto più a fronte della pronta e abile reazione di Mussolini che sospese per sei mesi i lavori della Camera dei deputati. Ma ugualmente Turati ritenne quell’atto necessario. Era un pensare ed agire nell’immediato finalizzato alla caduta del Governo Mussolini, ma anche al futuro, per preparare cioè –secondo le parole di Ivanoe Bonomi – le condizioni del sorgere di una democrazia che oggi non c’è, ma che ci sarà domani. Di un domani di cui il socialismo unitario potesse costituire il fulcro.

    Questo ci porta ad una riflessione conclusiva. Qualche mese prima, al convegno nazionale del PSU a Milano il 23 novembre 1923, la mozione di Turati, approvata all’unanimità, era contro il Governo Mussolini per il suo carattere tipicamente dittatoriale e antidemocratico e pertanto antiproletario e antisocialista. Si noti il nesso sancito tra democrazia e socialismo, dove la prima è premessa e sostanza del secondo. La distanza dal comunismo terzointernazionalista ed anche dall’estremismo massimalista, nei cui confronti lo stesso Pietro Nenni cominciava a prendere relativa distanza, era sostanziale. E lo era anche in virtù anche di un aggiornamento teorico e programmatico, in connessione con l’evoluzione del quadro internazionale e della complicata riorganizzazione dell’Internazionale socialista. E’ un tema che ancora attende studi adeguati. Come nel resto d’Europa, anche in Italia tra le due guerre la socialdemocrazia maturò su questo terreno, e non altrove, con le difficoltà derivanti dall’impari confronto con il fascismo e poi dalla condanna alla marginalità dell’esilio. Quarto Stato, su cui conclude Florindi, fu un episodio, significativo ma tutt’altro isolato, di tale aggiornamento, che implicava anche un profilo generazionale, su cui io stesso in altra sede mi sono soffermato (L’Epoca giovane. Generazioni, fascismo e antifascismo, Lacaita, Manduria 2002). La continuità/discontinuità delle generazioni del socialismo italiano, specialmente della componente riformista e democratica, tra le due guerre e a causa del fascismo, resta uno dei nodi centrali della storia italiana del ‘900.

    Maurizio Degl’Innocenti

    Capitolo 1.

    La nascita del Partito Socialista Unitario e l’avvento del fascismo

    Lo squadrismo fascista spadroneggia nel Paese già da diverso tempo, quando a Roma si apre il XIX Congresso del Partito Socialista Italiano (1-4 ottobre 1922)¹. Le emergenze da affrontare dovrebbero essere altre, ma l’appuntamento è solo una resa dei conti tra i massimalisti (che teorizzano la rivoluzione immediata per attuare il socialismo) e i riformisti (che invece sono per il gradualismo

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