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Pericolosi sovversivi: Storia del Centro Socialista Interno (1934-1944)
Pericolosi sovversivi: Storia del Centro Socialista Interno (1934-1944)
Pericolosi sovversivi: Storia del Centro Socialista Interno (1934-1944)
E-book273 pagine3 ore

Pericolosi sovversivi: Storia del Centro Socialista Interno (1934-1944)

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Info su questo ebook

Il libro di Florindi ricostruisce una pagina poco nota dell'antifascismo italiano, una pagina di opposizione irriducibile al regime, che vede protagoniste personalità di spicco del socialismo italiano.

La storia del "centro socialista interno" è divisa dall’autore in due parti, perché i centri sono stati due e sono nati e hanno operato in contesti e con uomini diversi. Il primo centro socialista interno, che opera dal 1934 al 1939, rappresenta una delle pagine più originali e gloriose dell’antifascismo. Totalmente diverso il discorso sul secondo centro interno (1941-1944) contaminato dall’Ovra.

In questo quadro- scrive Paolo Mattera nella Prefazione - l’esperienza del Centro Socialista Interno spicca in tutta la sua importanza, perché i suoi protagonisti riuscirono a preservare una presenza socialista in Italia sfidando tutte le difficoltà e ponendo così le basi per gli sviluppi futuri del partito. È un’esperienza che per lungo tempo ha patito anche un minore interesse da parte degli studiosi, che si sono concentrati sulla più consistente organizzazione clandestina comunista, oppure sull’azione - fondata su diverse basi - dei cattolici oppure sui dibattiti politici degli esuli. Per tutte queste ragioni, sono particolarmente benvenute le nuove ricerche che, fondate su un approfondito scavo delle fonti, potranno porre le premesse per ulteriori approfondimenti e aprire una nuova stagione di studi.

LinguaItaliano
Data di uscita30 mag 2022
ISBN9788832104578
Pericolosi sovversivi: Storia del Centro Socialista Interno (1934-1944)

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    Anteprima del libro

    Pericolosi sovversivi - Fabio Florindi

    Biblioteca della Fondazione Pietro Nenni

    © Arcadia edizioni

    I edizione, maggio 2022

    Isbn 9788832104578

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Ai miei genitori

    Paolo Mattera

    Prefazione

    Il Centro Socialista Interno: una storia da esplorare

    L’antifascismo significava una vita improntata all’opposizione irriducibile al regime, in tutte le sue forme. E si trattava di una scelta difficilissima. Molti militanti infatti, piegati dalla violenza e scoraggiati dalla sconfitta, decisero di chiudersi nella vita privata, rinunciando a ogni forma di attività pubblica e continuando a coltivare in silenzio le proprie convinzioni. Ma molti altri non volevano compiere una scelta che, escludendo la lotta, comportava la decisione di trovare dei modi di convivenza col fascismo.

    Come fare? In tanti per evitare l’arresto furono indotti alla via dell’esilio. Era una scelta difficilissima e dolorosa. Il fascismo privava infatti gli esuli della cittadinanza, li marchiava col termine infamante di fuoriusciti e confiscava i loro beni. Condurre l’attività antifascista all’estero comportava perciò lasciare tutti i propri averi, la casa, i mobili, i libri e persino i vestiti. E in più significava abbandonare gli affetti e le amicizie per ricominciare da zero in un paese sconosciuto e in una situazione piena di incognite.

    Per chi decise di restare in Italia, i dilemmi risultavano parimenti difficili e dolorosi: bisognava cercare una qualche forma di convivenza col fascismo, col rischio di offrire al regime una patente di legittimità? Oppure occorreva condurre un’intransigente attività di opposizione, col rischio di patire nuove persecuzioni? Ci fu chi, attratto dai progetti dello Stato Corporativo e dai piani di lavori pubblici, pensò che il fascismo avesse delle potenzialità positive da valorizzare a vantaggio dei lavoratori e si convinse a cercare dei contatti. Sorsero così iniziative come l’Associazione Nazionale di Studio per i problemi del lavoro, che vide tra i protagonisti l’ex fondatore della CGdL Rinaldo Rigola, e come la decisione dell’ex sindaco socialista di Milano Caldara di chiedere nel 1934 udienza al Duce. A spingere in questa direzione concorrevano fattori differenti. In primo luogo, il presagio inquietante che il regime fascista aveva raggiunto una piena stabilità e che l’ora della riscossa non sarebbe risuonata presto. Da qui discendeva una considerazione di natura anche psicologica: era molto difficile per operatori di lungo corso, abituati all’azione e alla ribalta, rassegnarsi a doversi fare da parte. La prospettiva di vivere lunghi anni - forse tutto il resto della vita - come dei vinti, collocati ai margini della società, poteva apparire insopportabile e spingeva a cercare degli spazi d’azione, anche a costo di giungere a dei compromessi col regime. Del resto, persino la scelta di ripiegare in una dimensione strettamente privata non era affatto facile in un regime a vocazione totalitaria come quello fascista, che non si limitava a sopprimere la libertà ma occupava tutti gli spazi pubblici e si insinuava in quelli privati dei cittadini, per coinvolgerli nelle proprie attività a convertirli alla propria ideologia.

    E l’azione clandestina? A funestare l’orizzonte subentravano subito i pericoli delle persecuzioni. La quotidianità era costantemente oscurata dalla presenza di spie e delatori che diffondevano un clima di sospetto, logorando le relazioni anche sul piano personale. L’arresto significava la condanna al confino o al carcere. I confinati venivano condotti in catene in luoghi inospitali, dove erano costretti a convivere coi criminali comuni. I carcerati si trovavano in condizioni di segregazione molto rigida, spesso in celle sovraffollate, con forti limitazioni nell’accesso a libri e giornali, la cui mancanza risultava particolarmente dolorosa per chi aveva svolto attività intellettuali.

    Da tutte queste premesse emerge con chiarezza che la scelta dell’antifascismo richiedeva energie straordinarie. Da quali risorse attingere? L’organizzazione politica più attiva era quella del Partito comunista proprio perché poteva avvantaggiarsi di risorse indisponibili agli altri militanti. C’erano ovviamente gli appoggi materiali e finanziari che arrivavano da Mosca e dalla Terza Internazionale. Inoltre c’era un fattore psicologico di importanza cruciale: il senso di forza dato dall’appartenenza a una grande organizzazione internazionale. Erano tutte risorse che mancavano ai socialisti, i quali dovevano quindi compiere la propria scelta per l’antifascismo in condizioni più sfavorevoli e con difficoltà maggiori. Non desta perciò meraviglia che i primi tentativi, portati avanti da futuri leader come Faravelli e Basso, fossero stati schiacciati dalla repressione alla fine degli anni Venti. E non desta nemmeno meraviglia che all’inizio degli anni Trenta tra i militanti socialisti stesse prevalendo lo sconforto, che moltiplicava le scelte individuali di disimpegno.

    In questo quadro l’esperienza del Centro Socialista Interno spicca in tutta la sua importanza, perché i suoi protagonisti riuscirono a preservare una presenza socialista in Italia sfidando tutte le difficoltà e ponendo così le basi per gli sviluppi futuri del partito. È un’esperienza che per lungo tempo ha patito anche un minore interesse da parte degli studiosi, che si sono concentrati sulla più consistente organizzazione clandestina comunista, oppure sull’azione - fondata su diverse basi - dei cattolici oppure sui dibattiti politici degli esuli. Per tutte queste ragioni, sono particolarmente benvenute le nuove ricerche che, fondate su un approfondito scavo delle fonti, potranno porre le premesse per ulteriori approfondimenti e aprire una nuova stagione di studi.

    Introduzione

    La storia del centro socialista interno è da dividere in due parti, perché i centri sono stati due, sono nati e hanno operato in contesti e con uomini diversi. Scrivere del primo centro socialista interno, che opera dal 1934 al 1939, vuol dire ricordare una delle pagine più originali e gloriose dell’antifascismo. Ma vuol dire anche cercare di tirare le fila di un lavoro che a 60 anni di distanza dal suo pioniere, lo storico socialista Stefano Merli, non ha visto molti studi complessivi. Dopo la ricerca di Merli sul centro socialista interno, che conteneva documenti scovati nell’archivio Tasca(1), ci sono stati numerosi contributi che però hanno riguardato singole figure del Csi e solo in minima parte il percorso storico complessivo dell’organizzazione clandestina. Basti ricordare gli importanti lavori di Aldo Agosti su Rodolfo Morandi, di Leo Solari e di Antonio Tedesco su Eugenio Colorni, di Nando Briamonte e di Gianni Fresu su Eugenio Curiel(2), per citarne alcuni. Eppure, il centro socialista interno, che svolse la sua attività tra il 1934 e il 1939, ebbe un ruolo chiave per lo sviluppo del socialismo di sinistra negli anni successivi e contribuì a sviluppare temi chiave nella storia del Psi degli anni della Resistenza e del secondo dopoguerra. Non è un caso che Lucio Luzzatto, braccio destro di Morandi nel primo Csi, in una sua testimonianza sull’Avanti! dell’8 novembre 1960, abbia scritto: «Fa paura riscrivere la data del 1934, più di un quarto di secolo è passato, eppure è là credo che dobbiamo riportare il ricordo. Lo dobbiamo per le impostazioni dottrinali e programmatiche di quel momento, cui un quarto di secolo trascorso non ci ha dato di aggiungere molto»(3). Alla guida dell’organizzazione si alternano Morandi (dall’estate 1934 all’aprile 1937), Colorni (da agosto-settembre 1937 al settembre 1938) e Curiel (dall’ottobre 1938 al maggio 1939). Pur nelle diverse sensibilità e idee, si possono riscontrare almeno due fili rossi che legano le diverse fasi del centro interno: il sostegno all’unità organica tra socialisti e comunisti, che deve portare a un partito unico del proletariato; il fatto che la rivoluzione debba partire dalla base, dal popolo, e non essere frutto esclusivo dell’azione di un partito ‘avanguardia’ della classe.

    Nel periodo in cui il Csi sviluppa la sua attività, in piena dittatura fascista, l’unico socialismo possibile sembra essere quello rivoluzionario, non certo quello riformista. D’altra parte iniziative che miravano alla creazione di una voce dialettica accettata dal regime si erano risolte o in esperienze meramente collaborazioniste (come l’Associazione nazionale studi – Problemi del lavoro, creata nel 1927 da Rinaldo Rigola e altri ex sindacalisti) o in un nulla di fatto (come il tentativo dell’ex sindaco socialista di Milano, Emilio Caldara, di convincere Mussolini a dare il via libera a una rivista sul mondo del lavoro). Il fascismo aveva costretto alla clandestinità tutti gli altri movimenti e quindi, in quegli anni, il socialismo rivoluzionario appare ai giovani del centro interno, da Morandi a Curiel passando per Colorni, l’unica via possibile per sovvertire il regime, visto che i fatti hanno dimostrato che nel pieno della reazione non si può praticare una politica riformista.

    Totalmente diverso il discorso sul secondo centro interno che fu in contatto con il centro estero svizzero del Psi, guidato da Ignazio Silone tra il 1941 e il 1944. Innanzitutto, bisogna premettere che quell’organizzazione è contaminata da una spia fascista e quindi è lecito chiedersi quanto questo abbia influito sulle sue attività. Tuttavia, si deve aggiungere che il C.I. che collabora con Silone non lo fa da una posizione di parità, come era avvenuto per il Csi milanese nei confronti della direzione di Parigi, ma è praticamente un recettore delle parole d’ordine elaborate dalla centrale svizzera. Quindi ‘l’inquinamento’ è avvenuto a livello pratico, sulle attività svolte, ma di certo non ha intaccato le idee formulate. Le parole d’ordine sono totalmente diverse da quelle elaborate dal centro interno degli anni ‘30 e, stando a quanto riferito dallo stesso Silone, vengono accettate da tutti i gruppi italiani in contatto con Zurigo. Con Silone si parla di federalismo ed economia pluralista; lotta a statalismo, fascismo e comunismo; rifiuto del socialismo marxista e scientifico, nel solco di un socialismo liberale e federalista vicino alle idee di Carlo Rosselli e di Andrea Caffi, oltreché del Colorni del Manifesto di Ventotene.

    (1) Stefano Merli, Documenti inediti dell’archivio Angelo Tasca. La rinascita del socialismo italiano e la lotta contro il fascismo dal 1934 al 1939, Feltrinelli, Milano, 1963.

    (2) Cfr. Aldo Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza, Bari, 1971; Leo Solari, Eugenio Colorni, Marsilio editore, Venezia, 1980; Antonio Tedesco, Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo, Editori Riuniti University press, Roma, 2014; Nando Briamonte, La vita e il pensiero di Eugenio Curiel, Feltrinelli, Milano, 1979; Gianni Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Odradek, Roma, 2013.

    (3) «Avanti!», 8 novembre 1960.

    La nascita del centro socialista interno

    Quando il fascismo cancella tutti gli altri partiti, nel novembre del 1926, solo i comunisti hanno pensato a costruire una rete clandestina. Gli altri movimenti, chi più chi meno, si erano impegnati nella nobile ma nell’immediato sterile opposizione legalitaria dell’Aventino, perdendo l’occasione di creare dei nuclei clandestini. D’altra parte, la mentalità cospirativa era qualcosa di totalmente estraneo a quei gruppi dirigenti, in particolare alle vecchie generazioni. Dunque, con l’affermazione definitiva del regime, di quei partiti non rimane in Italia che qualche piccola isola, ridotta però all’impotenza e via via decimata dagli arresti della polizia. Per questo esponenti di vari movimenti, a esclusione dei comunisti che riescono a mantenere una discreta organizzazione, spesso si trovano a collaborare fianco a fianco nella clandestinità. A Milano, ad esempio, nel gruppo di Giustizia e Libertà(4), operano soprattutto elementi socialisti accanto a democratici e repubblicani. Tra di loro ci sono Giuseppe Faravelli e Rodolfo Morandi, che in seguito diventeranno il referente all’estero dell’attività clandestina del Psi (il primo) e il principale animatore del centro socialista interno (il secondo)(5).

    Nel luglio del 1931 tra le forze dell’antifascismo arriva una novità: il Psi stipula un accordo con Giustizia e Libertà, delegandogli formalmente tutta l’attività clandestina in Italia. Tre mesi dopo, l’accordo viene esteso alla Concentrazione antifascista (che oltre al Partito Socialista e a GL comprende anche il Pri, la Cgil e la Lega italiana dei diritti dell’uomo). GL è un movimento eterogeneo, che di certo non si può definire classista, in cui confluiscono varie sensibilità. Per questo motivo, Morandi critica l’accordo e interrompe la sua azione clandestina: evidentemente considera l’attività in Giustizia e Libertà momentanea, in vista della ripresa di un socialismo classista; mentre il patto sancisce di fatto l’abdicazione a una politica di classe da parte del Psi, in nome di una lotta antifascista democratica. «Non capisco a dir vero – scrive Morandi – come il Partito socialista abbia potuto accettare condizioni politiche del genere: abbandonare di principio e di fatto il terreno di classe nella lotta antifascista»(6). Attorno a Morandi ruota già un gruppo di antifascisti classisti, che dopo la rottura con GL avvia dei contatti con alcuni esponenti comunisti, che però non si concretizzano in un’adesione formale al Pcd’i.

    Nel febbraio del 1934 accadono alcuni fatti di primaria importanza che gettano le basi politiche della nascita del centro socialista interno. Il primo è il cosiddetto ‘caso Caldara’. Il consolidamento del regime e il via libera allo ‘Stato corporativo’, con l’obiettivo di sciogliere i sindacati fascisti nelle corporazioni, porta un gruppo di ex socialisti, capeggiato dall’ex sindaco di Milano Emilio Caldara(7), a cercare un compromesso con il fascismo, probabilmente per ottenere il via libera alla pubblicazione di una rivista sul lavoro. L’operazione viene però condannata dai giovani socialisti milanesi. D’altra parte, un tentativo simile, realizzato da ex sindacalisti della Confederazione generale del lavoro (Cgdl) con a capo Rinaldo Rigola, che nel 1927 avevano costituito l’Associazione nazionale studi – Problemi del lavoro, si era risolto in una mera operazione collaborazionista. Per i giovani socialisti non ci sono spazi per una campagna legalitaria. Ma se criticano ‘l’operazione Caldara’, Morandi e Lelio Basso(8) condannano anche i facili anatemi espressi dall’estero. In un articolo, infatti, Basso sottolinea: «Che Caldara abbia creduto opportuno accettare l’invito rivoltogli e recarsi a conferire con Mussolini, è – comunque lo si voglia giudicare – sempre e soltanto una decisione personale [...]. Le polemiche scandalistiche che sono state condotte intorno a questo gesto [...] sono una prova di più della scarsa conoscenza della reale situazione italiana di certi ambienti di fuoriusciti»(9). Secondo Basso «bisogna avere una volta per tutte il coraggio di riconoscere che le antitesi fascismo-antifascismo, dittatura-democrazia, non hanno più fortuna in Italia, che le formule vuote di giustizia o di libertà non attecchiscono più». E questo perché «in Italia i 12 anni di fascismo che son passati e gli altri che si preparano, son venuti formando e finiranno col plasmare una generazione per la quale le espressioni democrazia, liberalismo saran vuote di senso». Dunque «parlare oggi agli italiani di difesa delle libertà democratiche è parlare un linguaggio che non intendono più»(10). Già in questo scritto è presente l’intuizione della necessità di parole d’ordine nuove ed efficaci, in grado di smuovere la classe operaia: una ricerca che nei mesi e negli anni seguenti sarà uno dei chiodi fissi del centro socialista interno. Anche Morandi interviene nel dibattito sul tentativo di Caldara: «Il fatto, le intenzioni e gli uomini sono stati giudicati da un punto di vista deformante e con una misura incongruente»(11). Alla fine, la manovra ostruzionistica dei giovani socialisti riesce a far fallire il tentativo di Caldara. A essere decisivo, però, è lo scarso entusiasmo di Mussolini per l’iniziativa, nonostante il duce a maggio avesse incontrato l’ex sindaco di Milano. Forse a far desistere Mussolini è l’intransigenza dell’ala più estremista del fascismo. L’iniziativa di Caldara, per Morandi, è una manovra «che doveva essere portata a contraddizione dagli elementi rivoluzionari, che non mancarono di accettare la sfida. Sorvegliata così dall’interno, la manovra tentata con eccezionale sicurezza di sé da taluno, con eccezionale ingenuità politica da altri, è andata fallita»(12).

    In una lettera del 6 giugno, Faravelli racconta a Pallante Rugginenti(13) alcuni retroscena interessanti sulla vicenda. A informarlo è stato lo stesso Morandi, il giorno precedente, durante un incontro all’estero. La missiva, oltre che per alcuni dettagli sul ‘caso Caldara’, è molto utile a capire il contesto che porta alla costituzione del centro socialista interno. «Un gruppo di caldaristi – scrive Faravelli – non è mai esistito. Parimenti non è mai esistito un piano d’azione fra i nostri, che abbia preparato il colloquio di Caldara e quel che ne è seguito»(14). A Milano sono presenti «dei compagni appartenenti alle varie sfumature del socialismo (dal vecchio riformismo di Caldara all’estremismo di Prometeo(15)) che da lungo tempo, in colloqui occasionali e sparsi, chiacchierano sul da farsi». L’inizio di questi colloqui è databile a un paio di anni prima, col ritorno di Domenico Viotto(16) dal confino: «Costui si è subito dato attorno per la ricostituzione del Partito».

    Sui possibili sbocchi e le eventuali azioni, le opinioni dei socialisti milanesi divergono. «Tutti sono d’accordo – scrive Faravelli – nel ritenere che per mettere in moto le masse, ossia per ricominciare un’azione socialista efficace, è necessario fruire di un minimo di libertà», ma «i dissensi cominciano quando si tratta di venire al pratico». Infatti, se Caldara e Viotto arrivano a teorizzare dei contatti con i dirigenti fascisti per ottenere quel minimo di libertà, Morandi e Basso negano che al momento si possa ottenerla «senza compromessi disonorevoli». Nella lettera a Rugginenti, Faravelli parla anche della realizzazione di una rivista, caldeggiata da Morandi e compagni, il cui primo numero vedrà la luce ad agosto («Politica socialista. Rivista teorica del socialismo italiano»). Una rivista che, nelle intenzioni del Csi, deve essere diversa da quelle che venivano diffuse di nascosto fino a quel momento: priva di scandalismo e di critica negativa, nessun «vituperio», ma «sommariamente costruttiva nell’esame dei problemi italiani contrapponendo alle soluzioni fasciste le soluzioni nostre»(17).

    Proprio negli stessi mesi del ‘caso Caldara’, c’è un secondo elemento che favorisce la fondazione del centro socialista interno: la rottura tra il Psi e GL. A innescare tutto è un articolo di Emilio Lussu, che esce per i Quaderni di Giustizia e Libertà nel febbraio del 1934, in cui si parla di GL come l’unica erede del socialismo italiano e si critica l’inerzia del Psi. L’articolo rappresenta una posizione personale, ciò nonostante, innesca una crisi irreversibile che porta, a maggio, allo scioglimento della Concentrazione antifascista. Questo perché sono maturati diversi aspetti che inducono il Partito socialista a rompere con GL e a recuperare una politica di classe e ad avvicinarsi al Partito comunista. Il fascismo, infatti, è in una fase espansiva e una politica puramente democratica sembra non bastare più: l’anno prima Hitler aveva preso il potere in Germania, cancellando comunisti e socialisti e poi ogni sorta di opposizione; a febbraio del 1934 in Francia viene sventata una sommossa fascista e negli stessi giorni in Austria un colpo di stato del cancelliere clerico-fascista Engelbert Dollfuss, mette fuori legge il Partito socialdemocratico. Dollfuss sarà poi assassinato in luglio da un tentato ‘putsch’ nazista. Se a questi eventi si aggiunge che, raffreddatasi la crisi economica, il regime di Mussolini in Italia appare più saldo che mai, ci sono tutti gli ingredienti per un cambio di politica da parte del Psi. La sterzata definitiva arriva in estate con l’avvicinamento di socialisti e comunisti e l’avvio della politica dei Fronti popolari. Decisivo è il via libera di Mosca, che decide di mettere in soffitta la teoria del ‘socialfascismo’ con cui fino a poco tempo prima i comunisti avevano equiparato tutti gli altri movimenti, dal fascismo alla socialdemocrazia, rendendo impossibile qualsiasi accordo.

    Il Partito socialista italiano, dunque, decide lo strappo con GL, abbandona l’abbraccio con la piccola borghesia e con le altre forze democratiche per porsi sulla strada di un socialismo schiettamente classista. Contemporaneamente, nel partito in esilio, sotto la spinta in particolare di Faravelli, emerge la consapevolezza della necessità di costruire una rete clandestina solida in Italia, in modo da trovarsi in una posizione di

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