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Il futuro che ho avuto
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E-book174 pagine2 ore

Il futuro che ho avuto

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Info su questo ebook

L’autrice ripercorre la storia della sua famiglia a partire dal 1866, tracciando una linea temporale fatta di istantanee che ricordano, con affetto e un pizzico di amarezza, tutte le persone e gli animali che ha amato e che non fanno più parte di questo mondo ma che hanno lasciato in lei un’impronta significativa. Le storie, corredate di foto d’epoca che le rendono ancora più ricche e interessanti, sono tutte portatrici di insegnamenti profondi che traspaiono dalle rinunce e dalle conquiste, dalle gioie e dai dolori che la vita porta con sé. È necessario non cedere all’oblio. Gli aneddoti riportati vogliono fare da monito affinché non si dimentichino i periodi bui del passato, da considerarsi come radici a cui ancorarsi per costruire un nuovo futuro più luminoso, non dominato dall’egoismo e dalla mancanza di valori, come sembra invece essere destinato a divenire. Solo ricordando il passato possiamo tentare di costruire un futuro illuminato dalla pace.

Ambretta Maria Vecchietti nasce a Camerino (MC) il 23 marzo del 1942. Dopo gli stenti del dopoguerra, si dedica agli studi classici e al diritto. Poi, la vita per gli altri, nell’ombra. Ora, dal silenzio della solitudine e dell’isolamento, rinasce la vena ed esplodono nella scrittura ricordi mai sepolti.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673656
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    Il futuro che ho avuto - Ambretta Maria Vecchietti

    LQvecchietti.jpg

    Ambretta Maria Vecchietti

    Il futuro che ho avuto

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6862-1

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Il futuro che ho avuto

    A Guglielmo,

    Panta rei:

    le nostre vite, le speranze e i sogni.

    Ma non i ricordi.

    Prima che l’inconscio

    li trasformi o li cancelli,

    li ho trattenuti qui,

    per te e per chi resta

    come salde radici.

    Non c’è tempo senza lacrime.

    Ma il dolore non è una malattia:

    è la vita.

    "…costruire un tempo comune, quello che è trascorso

    da un’epoca lontana sino ad oggi – per restituire,

    ritrovando la memoria della memoria collettiva

    in una memoria individuale,

    la dimensione vissuta della Storia".

    (da ‘Gli anni’, di Annie Ernaux,

    premio Nobel 2022).

    PREFAZIONE

    Quando arrivi alla mia età, ti accorgi che, da qui in avanti, il futuro che avrai – se lo avrai – non ti darà il tempo di viverlo per raccontarlo.

    Non ti rimane che guardare indietro, per scoprire se l’hai avuto. Ti siedi e, con altri occhi, ti ritrovi a guardare l’inedito film della tua vita.

    Comincia così, con te che scavi nel passato, l’unico che veramente possiedi, per cercare le radici e i perché del tuo vissuto. Hai sempre delle scelte, quando ti trovi a un bivio. Ma i modelli, da seguire o da cui discostarsi, sono lì che ti indicano la strada.

    Affondano nel tempo, ma li ritrovi avanti a te. Non si misurano più col metro del vicino e del lontano, ma del possibile e dell’impossibile.

    Il tempo! È crudele. Va in due sole direzioni: indietro o avanti. E lascia fuori dal tuo sguardo tutto quello che ti è passato accanto, di lato o di traverso.

    Su quella linea retta c’è posto solo per uno alla volta. È come un asse di equilibrio: solo un passo avanti all’altro e, se hai le vertigini, rischi di non arrivare in fondo.

    Così, cambi, ti guardi intorno, l’orizzonte si allarga e, finalmente, puoi toccare anche quello che vedi solo con la coda dell’occhio. Perché lo spazio si apre e ti circonda, come diceva Sepulveda, in un abbraccio che ti sorprende.

    E tutti quelli che ti hanno preceduto nel tempo e che sembravano lontani, tornano, lì, vicino a te, accanto a quelli nati ieri, che ancora non possono segnare in alcun modo la tua vita.

    Certo, ormai hanno smesso di camminare sulla terra, ma tu li senti, ti possono parlare. Ti dicono le conquiste, gli errori, le gioie e i dolori che hanno avuto. Li riconosci, sono simili ai tuoi.

    Tu lo sapevi. L’hai ammirati, condannati, condivisi. La stessa sorte di sempre, le stesse scelte che l’uomo è chiamato a fare, in ogni tempo, in cui né morte o vita è differente.

    La cornice di quello specchio si allarga e ora li puoi vedere, non più dietro, coperti dalle figure più vicine, ma intorno a te, che ti circondano: i Nonni, che credevi di avere conosciuto appena, ma che si levano come giganti, con le loro pur semplici vite; la Tata, che chiamavi ‘mamma’, per non aver accanto quella vera, insieme a tutti i fantasmi della tua infanzia; i tuoi Maestri, che ti hanno dato la torcia per illuminare i più difficili passi; i piccoli animali, che ti hanno insegnato la tenerezza; l’amore, che non hai conosciuto mai fin in fondo, ma che da sempre cerchi e da sempre ti accompagna; i vecchi fossili, imprigionati, come insetti in una goccia d’ambra, da un passato breve, ma che ne ha segnato così profondamente ogni momento della vita, da farne delle irripetibili icone di dolore e di speranza. Anche loro tesi alla ricerca di un mondo migliore.

    Tutti, non più ombre, ma presenze vere, ormai leggere. Le puoi tenere tutte insieme, in una sola mano. Non ti sfuggono più, come la vita, che senti ormai così precaria. Sono entrati in te, che non sei più corpo, ma scrigno, cassaforte piena di segreti da svelare.

    La loro morte non è che un momento. Siamo troppi, in questo mondo così stretto e, senza rumore, ce ne dobbiamo andare, per fare un po’ di posto a quelli che verranno. Ma solo i corpi scompaiono. Quello che si è fatto resta, immutato, entrando nelle vene di quelli nati dopo.

    Così, anche la mia morte non segnerà una fine. Nessuno ricomincia mai da capo a vivere, ma porta in sé quel poco o tanto delle vite passate. Tutti lasciano un segno. Siamo un filo tenace, tessuto tra presente e passato, che forse non è facile districare, tra i tanti complessi passaggi nelle mani che vi si sono aggrappate.

    Tutti, avvolti come un enorme gomitolo che rotola, da sempre e per sempre, in un Universo impenetrabile.

    In questo bellissimo, misterioso spazio lasciato solo a noi. La vita.

    Capitolo I – LE ORIGINI

    Nessuno di noi sarebbe quello che è oggi, senza avere le radici in una terra, nel sangue e nelle voci di chi ci ha preceduti.

    Le nostre erano intrecciate in due terre

    simili: belle colline, i monti dietro, avanti il mare, vaste pianure di campi arati, piccoli e grandi laghi, le mura antiche, i teatri e gli acquedotti romani, i castelli medievali; il passaggio di stranieri (Federico I Barbarossa e Alarico, in Veneto, Federico II, nelle Marche), la gloriosa età dei Comuni, il lungo dominio della Città del Vaticano, il fervore risorgimentale e garibaldino.

    Il sangue, anche questo è simile. Frutto di secolari incroci: antiche nobiltà, gente venuta dal mare, sulle vie del commercio o che razziava la costa, radicati contadini stanziali, guerrieri scesi dal nord e poi rimasti a dominare. Tutti, lasciando indelebili tracce nell’arte, nel linguaggio, nei costumi, nei cibi e nelle tradizioni.

    Così, ho cercato nei racconti d’altri, nei ricordi tuoi e nei miei, di ricostruire storie di vite all’apparenza lontane, iniziate quasi 150 anni fa che, anche senza volere, hanno radicato in noi quei valori antichi, tanto necessari, oggi, per dare fondamenta più sicure a una società, che pare aver perduto la capacità di guardare lontano e di lottare, per costruire un comune destino migliore.

    Ho sentito le loro voci e li ho fatti resuscitare, con le loro debolezze e le loro virtù, indulgente e fiera a un tempo di quell’appartenenza. Ho visto i loro corpi vivi camminarmi al fianco, quasi a volermi prendere per mano, su quei selciati antichi da non dimenticare.

    . . .

    I NOSTRI NONNI

    Tuo nonno, Giovanni Silvetti.

    Era nato nel 1866 da una famiglia benestante di possidenti agricoli (solo sei anni dopo la sconfitta dell’esercito pontificio a Castelfidardo e dopo il Plebiscito del 4.XI.1860, che aveva fatto entrare le Marche nello Stato italiano, cancellando l’antico prestigio della città di Macerata, che da allora fu una piccola città in un grande Stato¹). Alla morte del padre, il fratello maggiore gli impose di interrompere gli studi per collaborare alla gestione dell’azienda familiare. Resistette un paio d’anni. Poi lo affrontò e gli comunicò che voleva continuare a studiare.

    Il confronto da verbale divenne fisico. Lui, più alto di statura, afferrò sotto le braccia il fratello e lo tenne sospeso fuori da una delle finestre che danno sul giardino della grande casa di campagna finché non… estorse il consenso: continuò a studiare fino al diploma di ragioniere, rinunciando, in cambio, a ogni diritto sulle vaste proprietà. Tenne per sé solo un piccolo appezzamento nella periferia della città (che si rivelò prezioso per qualche rifornimento di frutta, verdura, uova e animali da cortile durante la guerra).

    Diplomato con ottimi voti, sposò Giselda S., da cui ebbe cinque figli.

    Insegnò matematica e diventò anche assistente di laboratorio di chimica all’Istituto Tecnico. Divenne, poi, analista nel Laboratorio di Igiene e Profilassi provinciale. Le figlie hanno raccontato che, spesso, si portava a casa qualche studente bisognoso, gli dava ripetizioni gratis, la merenda e, se veniva da fuori, i soldi per il biglietto della corriera.

    Alla morte della moglie, la figlia maggiore Roma (1897), prese le redini della gestione della casa.

    Nel 1905 fu tra i fondatori della Società Virtus, a cui iscrisse, appena nata (1907), la figlia minore Egle, che gli fece onore, partecipando nel 1920/21 anche a gare internazionali di corsa («A Roma vincemmo sulle parigine!»).

    Lei ne andava fiera

    ,

    anche se, all’epoca, in città le ginnaste venivano chiamate saltimbanche. (Visto oggi, il loro abbigliamento può sembrare per lo meno un po’ strano: l’enorme berretto copriva il volto e la pesante gonna a pieghe, fermata sull’orlo da una grossa spilla, dal davanti al dietro, frenava i movimenti, raddoppiando il tempo della corsa!). Lo sport era talmente nel suo sangue che, poi, trasmise al figlio le doti atletiche e la passione per la staffetta².

    Alla Virtus erano iscritti tutti antifascisti, socialisti e repubblicani anticlericali, tra cui anche mio nonno, Umberto Vecchietti.

    Fu assiduo frequentatore della Società Il Giardinetto, luogo di ritrovo, prima, dei volontari unitisi al Generale nel 1849 al suo passaggio nella città di Macerata (dove sostò all’Albergo della Pace, sotto l’arco del Palazzo Cioci) in viaggio verso Roma, dove fu eletto nella Costituente della Repubblica Romana e, poi, dei reduci garibaldini³ che lo riaprirono nel 1873, riempiendolo dei ricordi delle battaglie, in specie di quella di Porta San Pancrazio del 30 aprile 1849, dedicata da Garibaldi ai Maceratesi, che ne avevano costituito la vittoriosa IX Legione⁴.

    Non aveva scelto a caso per i figli tutti nomi adespoti: Roma, Dino, Manlio, Fedra ed Egle⁵.

    All’avvento del fascismo, nonno Giovanni e la sua famiglia abitavano al primo piano della palazzina alla destra di Piazza Sferisterio.

    Alcune squadracce di giovani, in camicia nera e fez, avevano già devastato le case di noti antifascisti (socialisti, comunisti, liberali e repubblicani), picchiandoli e purgandoli con l’olio di ricino.

    Avevano saccheggiato libri e carte degli oppositori e ne stavano facendo un enorme falò in mezzo alla piazza, proprio sotto casa Silvetti.

    La grande sagoma del Professore apparve, in camicia da notte, berretta in testa e… fucile nella destra, sul balcone (le figlie ragazzine, dietro di lui). Alcuni scalmanati gli urlarono da sotto: «Vigliacco, vieni giù se hai coraggio!». Lui si affacciò e cominciò a chiamarli per nome (molti erano o erano stati suoi studenti), invitandoli a salire. Ma nessuno lo fece. Neppure più tardi, quando i metodi verso gli oppositori erano diventati meno

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