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L’albatros e il mare irraggiungibile
L’albatros e il mare irraggiungibile
L’albatros e il mare irraggiungibile
E-book195 pagine2 ore

L’albatros e il mare irraggiungibile

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Info su questo ebook

I ricordi e le fantasie di Paolo Gentili irrompono come guidati da una forza oscura e si fissano sul foglio invadendolo completamente. Giungono violenti e impetuosi come un flusso inarrestabile, una marea di parole fluide che si articolano nella narrazione prive di freni e impedimenti.
Tra le strade d’una periferia romana, quella tra San Giovanni e Porta Latina, negli anni del dopoguerra, e i vicoli chiassosi e colorati della bellissima città di Napoli, il nostro Autore vive la sua infanzia barcamenandosi tra i problemi familiari e le giornate trascorse all’aperto con i sui compagni di avventure.
La vivacità alternata alla triste consapevolezza dei propri mezzi caratterizza quei momenti d’oblio, e il riviverli è un tornare in quelle strade, tra la gente; è avvertire l’odore del mare che si insinua tra la pelle, nei capelli e resta lì, fermo per sempre.
In tutto il testo si percepisce l’impellente necessità dell’Autore di rendersi indipendente da ogni schema, l’unico vincolo imprescindibile è quello che avverte con la sua terra, la natura circostante, è come un ritornare alle origini delle cose, un fondersi con l’elemento naturale.
Paolo Gentili gioca con la sintassi e con il verso, che, a volte sciolto e altre rimato, dona movimento all’intero componimento. La musicalità che si avverte in questa esposizione è accompagnata da un lessico vivace nel quale si alternano citazioni classiche e frasi molto efficaci, caratterizzando uno stile letterario molto originale.
L’Albatros e il mare irraggiungibile – La strada azzurra che non esiste più è tutto questo.

Nato a Napoli il 17/11/1940, laureato in lettere classiche, ho lavorato per molti anni come docente e dirigente scolastico in Italia e all’estero. Vivo a Roma. 
Tra le pubblicazioni: La prima Vera (1987) edito Firenze Libri, Firenze; Bloc notes per otto poeti d’oggi (1989) a cura di Giacinto Spagnoletti, edito Biblioteca Cominiana, Padova; Anabasi d’un Anarca (1998) edito Gangemi, Roma, citato da Luca Serianni per alcune sue particolarità linguistiche, come Originale romanzo in versi in una nota a pag. 26 dell’Introduzione alla lingua poetica italiana, Roma, Carocci, 2001; L’albatros e il mare irraggiungibile vol. 1 (2022) è la sua ultima pubblicazione con il Gruppo Editoriale Albatros. 
Ancora inediti e in lavorazione La favola del tulipano azzurro e del caprone dei riccioli viola, sottotitolo: Il fallito romanzo di Pepi Piagnilungo, orfano e ladro e il volume secondo della presente pubblicazione.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830674288
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    Anteprima del libro

    L’albatros e il mare irraggiungibile - Paolo Gentili

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    L’albatros e il mare irraggiungibile

    In casa dormivano tutti.

    Io mi svegliai ed erano le quattro del mattino, ancora era buio.

    Ma il sole era prossimo a sorgere.

    Dovevo scalare quel monte, sotto la cui ombra vivevamo, anche quando il sole era alto, noi in ombra laggiù sempre vivevamo.

    Del sole a noi luce veniva solo sghemba e azzurrina, come fosse perpetuamente sera.

    Fuggire.

    Oltre il monte speravo di trovare la vita, quella autentica e vera, che ha il profumo del mare, solo si vive se si può navigare, la fuga delle onde, contemplare, ed ascoltare la loro musica, il respiro del mare.

    Ero giovane, avevo buoni muscoli, se la cresta montana era tagliente e scivolosa ed irta, io avevo sofferto abbastanza per non averne paura, per esserne vincente.

    Fuggii dunque dalla trappola dorata, da una casa a lungo cercata, che quando avevo trovata m’aveva deluso e rinchiuso.

    E superai la cresta minacciosa.

    E finalmente il sole m’abbagliò d’una luce mai prima goduta.

    Lontanissimo per la prima volta laggiù lo vidi scintillare il mare, un mare blu che a tratti balenava ed a guardarlo mi sentii felice.

    Ma il mare io poi non lo raggiunsi mai.

    Abitai altre case ricche e belle da cui fuggii e discesi per valli

    deliziose e giardini incantati, ma il mare io poi non lo raggiunsi mai.

    I miei capelli si fecero bianchi, i miei muscoli si fecero fiacchi,

    gli occhi miei si fecero stanchi.

    Così m’addormentai una sera sulla riva d’un lago dove nuotavano cigni bianchi e neri, ed altri più piccoli uccelli.

    M’addormentai per non svegliarmi più e sognai il mare da me mai raggiunto, e sognai il pianto e il riso dei gabbiani, e l’albatros dalle ali maestose, re dell’azzurro, re delle tempeste, ma goffo e comico se catturato e fatto camminar per divertirsi dei marinai sul ponte della nave… l’albatros, sublime ma inetto e barcollante con le ali sue stupende, come il poeta tra volgare gente, l’albatros, che io ho solo immaginato, ma mai ho veduto e mai più vedrò alto e maestoso sorvolar l’oceano… l’albatros, di cui lessi in un libro sconquassato, in un giardino per caso trovato, lì da qualcuno dimenticato o via gettato per rabbiosa invidia dell’immenso poeta che del libro fu l’autore francese, uomo lui libero, che ben lo raggiunse il mare di cui era innamorato, specchio suo magico, e del suo cuore libero… quel mare che io ho sempre sognato, e mai raggiunto: perché regno degli uomini liberi ai mediocri è negato.

    La strada azzurra che non esiste più

    Non ritrovo la strada dove vissi gli anni più ingenui della vita mia.

    Ma la ricordo e ci ritorno in sogno a volte, specie quando tu mi lasci solo col tuo profumo nel mio letto.

    Tra i palazzoni di periferia, azzurra quella viuzza uno scialle pareva volato giù da un balcone e che stesse il vento di nuovo in punto di portarlo via.

    Cambiavano coi giochi le stagioni, l’autunno era il tempo della scuola, triste, ma al pomeriggio, quando il sole ancora dorava i vasetti di fiori sui balconi, noi bambini dopo mangiato calavamo giù dai nostri casermoni, ridendo e urlando come selvaggi, d’allegria riempivamo quei paraggi, dove di terra era la nostra strada, di ciottoli, di breccole (ghiaia) e di sampietrini sconnessi, che grigioazzurri le davano il colore…

    Per giocare a palline scavavamo buchette e accucciati od in piedi,

    tra spintoni, risate e parolacce, scrucchiavamo biglie e vetrioli, chi vinceva prendeva e chi perdeva lasciava, però a nessuno mancava la saccoccetta piena: e si giocava.

    Il nostro pallone era di stracci legati con lo spago se partita di calcio facevamo, le porte con le pietre e coi pioli di qualche sedia rotta costruivamo, e poi ci scornavamo sino a sera.

    «Questo è l’oro!» gridava Pantera, il mio amichetto di pelle nera, quando faceva gol ed imitava il radiocronista Nicolò Carosio.

    E tiravamo calci da campioni e gridavamo la tifoseria con bocche rosse e dure come bacche, il sudore ce lo asciugava il vento, che paterno ci scompigliava i capelli, e ammassava ai cancelli le foglie morte dei viali e delle ville poco lontane dalla nostra strada.

    Di pioggia in primavera morivano gattini appena nati: però dal mattino alla sera spuntavan tra le pietre ciuffi d’erba, ronzava l’ape e tra nuovi petali fioriva in oro e azzurro adesso il cielo.

    Cantavan nelle gabbie gli uccelletti, anche le donne ai balconi cantavano e battevano lenzuola e coltri coi battipanni che risuonavano.

    Scintillavan sdraiati sui muretti al sol di maggio i superstiti gatti.

    Noi maschietti l’aria inebriante più spingeva a sfidarci alla battaglia.

    §

    Ed ecco la fionda, non certo la frombola che ruotò biblico David giovinetto quando ammazzò il gigante Golia, ma solo una modesta mazzafionda che ci costruivamo da soli, tagliato e ripulito un ramo d’albero diramato a forcella e con un paio d’elastici a quadrelli: epperò un’arma capace di cecarti un occhio col sasso sparato, o farti un bel ficozzo sulla testa, spaccare i vetri d’una finestra, scoppiar le lampade dei lampioni, centrare il culo d’una bella ragazza… ma allora cavallerescamente tendendo assai poco gli elastici per evitare di farle troppo male…

    Dal posteriore delle ragazze eravamo già calamitati: innocenti, certo, eravamo, perciò quel che più ci piaceva con vera gioia lo facevamo, e strusciavamo ed allisciavamo o palpavamo e scappavamo via con gran risate… e poi raccontavamo, il bel piacere alla compagnia…

    Altra arma nostra la cerbottana: nient’altro che un tubo d’ottone con cui i nostri forti polmoncini sparavano puntuti cartoccetti su, più in alto d’un palazzone o contro i nostri avversari quando a fare la guerra giocavamo.

    Noi, della strada azzurra, contro quelli della via larga da valorosi sempre combattevamo e per noi gli occhioni brillavano delle bambine a spasso con la mamma… o così almeno creder volevamo.

    La naturale nostra cattiveria al sole dell’estate s’accresceva, ma il cartoccetto con lo spillo in punta nemmeno contro i nemici acerrimi noi lo usavamo, però li stanavamo dai cunicoli loro, fatti di bianca tela ragna, negli angoli dei muri i ragni neri, che si gettavano immediatamente l’un contro l’altro: erano grossi ragni pelosi e avvelenati di tristezza, che al solo trovarsi di fronte le zampe anteriori di scatto spalancavano, come chele di granchio.

    S’avvinghiavano quindi ed all’istante uno si rattrappiva morso a morte.

    A volte a notte poi me li sognavo quei ragni neri a spasso sul mio letto.

    §

    E si giocava a nascondarella, "nasconnarella cor barattoletto"!

    Un calcio… e via!

    Mentre chi si accecava correva dietro alla latta ammaccata, per riportarla senza guardare al posto suo e quindi iniziare a cercarci tutti, uno per uno; noi scappavamo e via di galoppo, per strade larghe, per campi e giardini, di ritornare ce lo scordavamo, del pollo che cercava ridevamo, allegramente a spasso per il mondo ce ne andavamo. Il West e la Malesia eran vicini, dietro l’angolo la grande avventura: rubavamo frutta ai fruttaroli e i giocattoli ai bimbi ben vestiti… suonavamo ai cancelli delle ville e dalle mani di adulti arrabbiati via sguisciavamo come vere anguille.

    Dalle gran corse ci riposavamo poi talvolta seduti su un muretto.

    E mi chiedeva Gnappetto, figlio di papà e mamma comunisti:

    «Ma tu ce credi ’n Dio? A me me pare che er prete dice ’n sacco de fregnacce… Io ar diavolo e ai santi nun ce credo… come a ’a Befana e a Babbo Natale… Ce n’hanno raccontate de’ fesserie…».

    Io ridevo, Gnappetto non sbagliava… e tuttavia a Dio io ci credevo e pregavo la notte nel mio letto per me, le sorelline e babbo e mamma, e per chiunque soffre in questo mondo.

    Altre volte invece chi parlava era Pantera, nero diavoletto, che maliziosamente ci spiegava quel che fa l’uomo con la donna a letto. E allora chi più si ricordava dell’accecato che ci cercava?

    Quando ritornavamo nella strada nostra sotto i lampioni illuminati ci aspettava solo il barattoletto, preso a calci e lì abbandonato a parlare con Dio come un bimbetto.

    §

    Autunni, inverni, estati e primavere son rotolati via senza rumore

    come barattoletti presi a calci dai piedi vellutati e silenziosi del Tempo, che veloce ed invisibile con noi gioca a nascondarella, ma non è un pollo lui, lui non si acceca, ma ci rincorre, ci acchiappa e fa tana e mette fine al gioco quando e come vuole lui, e tutti ci acceca.

    Oggi la strada azzurra non c’è più.

    I sampietrini li ha coperti un grigio strato d’asfalto.

    Non più giochi vi sono, né bambini.

    Tra due file d’auto parcheggiate, ai piedi dei palazzoni invecchiati,

    ci passa raramente qualche gatto unto d’olio e ubriaco di benzina.

    Solo i ragni s’accovano sotto i muri neri, pelosi e tristi come allora, ma più tranquilli, senza bambini, ora.

    Tra i palazzoni di periferia pareva uno scialle volato giù da un balcone la stradetta mia… scialle

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