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Un olocausto italiano: Voci di soldati italiani dai lager
Un olocausto italiano: Voci di soldati italiani dai lager
Un olocausto italiano: Voci di soldati italiani dai lager
E-book376 pagine4 ore

Un olocausto italiano: Voci di soldati italiani dai lager

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Info su questo ebook

Dalle nebbie del passato è rispuntata una straordinaria testimonianza corale sulla tragedia dei nostri soldati tradotti in Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre. Ufficiali e soldati, di qualunque orientamento politico e religioso, che hanno avuto il coraggio di rifiutare l’arruolamento nella Repubblica di Salò per non tradire la Patria, sono stati inviati come pecore da macello nei lager e nei campi di lavoro sparsi in tutta l’Europa sotto il giogo nazista. Mauthausen, Dora, Krankenhaus, Dachau sono solo alcune delle tristi mete che questi coraggiosi patrioti hanno raggiunto, sperimentato e sofferto. Tra loro nomi che diverranno famosi come Guareschi, Rebora, Carpi, Lazzati, Novaro, Novello, Moretti, Rosoni insieme ad altri meno noti, ma altrettanto significativi nella loro testimonianza di sopravvissuti.
Questo libro apre uno squarcio su una tragedia rimasta per troppo tempo ai margini della riflessione sul nazifascismo durante le consuete ricorrenze nel giorno della memoria, assorbito quasi completamente dalla commemorazione della shoah ebraica, dimenticando che c’è stato anche un olocausto italiano, che questi soldati hanno direttamente vissuto e trascritto subito dopo la fine della guerra, perché venga tramandato alle generazioni successive. Il libro è composto dalla narrazione del vissuto dei singoli, espresso sia in prosa che in poesia, dentro l’inferno dei lager. Molte di queste testimonianze sono corredate da disegni fatti dagli stessi artisti mentre erano ancora internati nei campi di sterminio e da riflessioni postume sul senso di questo dramma collettivo, ma sempre redatti nell’immediata vicinanza temporale agli eventi raccontati.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2022
ISBN9791280075499
Un olocausto italiano: Voci di soldati italiani dai lager

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    Anteprima del libro

    Un olocausto italiano - Paolo AA.VV. a cura di Paganetto

    COVER_un-olocausto-italiano.jpg

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2022 Oltre S.r.l.

    www.librioltre.it

    ISBN 9791280075499

    Titolo originale dell’opera:

    Un olocausto italiano

    Voci di soldati italiani dai lager

    autori: AA.VV.

    a cura di: Paolo Paganetto

    Marchio editoriale OLTRE Edizioni

    Collana *Passato Prossimo*

    prima edizione cartacea: gennaio 2022 con ISBN 9791280075406

    link per scaricare l'archivio fotografico:

    https://www.librioltre.it/public/APPENDICI-FOTOGRAFICHE/un-olocausto-italiano_epub.zip

    INDICE GENERALE

    - Per non dimenticare di Oliviero Arzuffi

    - Quadro storico di Armando Borrelli

    PARTE PRIMA

    VERSO L’ABISSO

    - Nella tragedia dell’8 settembre 1943 di Mario Cortellese

    - Le ragioni ideali di una resistenza dell’ammiraglio Alberto Parmigiano

    - La Campana: un giornale parlato di Enrico Allorio

    - Caterina e Mimma: sulle onde della libertà di Carmelo Cappuccio

    - Tener duro di Enrico Allorio

    - Merce umana del Colonnello Pietro Testa

    - Morire nello squallore dell’esilio del com. Giuseppe

    - Brignole, Medaglia d’oro

    - Fallingbostel: mille in quattro baracche di Carmelo Cappuccio

    PARTE SECONDA

    NEI REGNI DELLA MORTE PIANIFICATA

    - KGF: il marchio della vergogna di Giacomo Storti

    Massacro in marcia di Enea Fergnani

    - Mauthausen: tra le fauci dell’inferno di Paolo Liggeri

    - Dentro i luoghi dell’orrore di Enea Fergnani

    - Dachau: città madre degli aguzzini di Paolo Liggeri

    - Dora: il campo segreto di Osiride Brovedani

    - Preti triangolo rosso di P. Giannantonio Agosti,

    Cappuccino

    - Cip: il fantasma del mio castello di Giovanni Guareschi

    - Primo pacco di Alberto Rosoni

    - Il sotto tenente X di Mauro Gardini

    - Il telaio di Ermanno Cunico

    - Farinata bianca di Serafino Pacciani

    - Razzie di Franco Gerardi

    - La tazza di Enzo De Bernart

    - Fuori del tempo di Luigi Fiorentino

    - Sogni in libertà di Roberto Rebora

    - Il nunzio apostolico di P. Narciso Crosara, Cappuccino

    - La patria non lo saprà mai? di Armando Borrelli

    - Madre di Giuliano Maggioni

    - Topi di Paolo M. Pellettieri

    - L’uomo del margine di Anacleto Benedetti

    - Nel mondo vestito di ghiaccio di Fabio M. Crivelli

    - Grandezza di uomini liberi di Carmelo Cappuccio

    - Fame! di Luigi Fiorentino

    - Pasqua di Giuliano Benassi

    - Commiato di Paolo Frisoli

    - Lamento di Luigi Fiorentino

    - Senza ritorno di Gino Bertolini

    - Umlegen!: annientare di Giacomo Storti

    PARTE TERZA

    DOPO L’INFERNO

    - «Forza ragazzi: è la libertà!» del colonnello Pietro Testa

    - Smarrimento di Giosuè Bonfanti

    - Atmosfera di rattenuta kermesse di Franco Camerini

    - Il fanciullino di Umberto Galeota

    - Notte di liberazione di Raffaele De Bello

    - Nei labirinti della mente di Anacleto Benedetti

    - Gli insegnamenti dell’ uomo nudo di Bruno Betta

    - Rifare l’Italia del colonnello Pietro Testa

    - Incomprensione e ingratitudine di Angiolo Maros Dell’Oro

    - Eroismo senza odio di P. Narciso Crosara, Cappuccino

    - Fare memoria di Franco De Marsico

    - Indice delle illustrazioni

    INTRODUZIONE

    E

    QUADRO STORICO

    PER NON DIMENTICARE

    di Oliviero Arzuffi

    Dalle nebbie del passato è rispuntata una straordinaria testimonianza corale sulla tragedia dei nostri soldati tradotti in Germania dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Ufficiali e soldati, di qualunque orientamento politico e religioso, che hanno avuto il coraggio di rifiutare l'arruolamento nella Repubblica di Salò per non tradire la Patria, sono stati inviati come pecore da macello nei lager e nei campi di lavoro coatto sparsi in tutta l'Europa sotto il giogo nazista.

    Mauthausen, Dora, Krankenhaus, Dachau sono solo alcune delle tristi destinazioni che questi coraggiosi compatrioti hanno raggiunto, sperimentato, sofferto. Tra loro nomi che diverranno famosi come Guareschi, Rebora, Carpi, Lazzati, Novaro, Novello, Moretti, Rosoni, Fiorentino insieme ad altri meno noti, ma altrettanto significativi nella loro testimonianza di sopravvissuti.

    Questo libro apre uno squarcio su una tragedia rimasta per troppo tempo ai margini della riflessione sul nazifascismo durante le consuete ricorrenze nel Giorno della Memoria, assorbito quasi completamente dalla commemorazione della shoah ebraica, dimenticando che c'è stato anche un olocausto italiano, che questi soldati hanno vissuto sulla loro pelle e trascritto subito dopo la fine della guerra, perché venga tramandato come memoria ai posteri.

    Un olocausto italiano è la cronistoria, ora solo sussurrata ora invece gridata, del vissuto degli internati militari italiani, redatta sia in forma poetica che narrativa. Molte di queste testimonianze sono corredate da disegni fatti dagli stessi artisti mentre erano segregati in quegli inferni o rielaborate su dei loro appunti presi in diretta o fatte oggetto di una riflessione postuma sul senso di questa tragedia collettiva, ma sempre scritte nell'immediata vicinanza temporale agli eventi raccontati.

    Questo libro testimonia l'amore senza condizioni per la libertà, l'onore e l'umanità, che ha portato questi uomini coraggiosi a rifiutare, a prezzo anche della loro stessa vita, ogni forma di connivenza con il fascismo, vissuto come un tradimento della Patria e un intollerabile sfregio ad ogni più elementare rispetto della vita delle persone.

    Un libro che andrebbe diffuso in tutte le scuole, le università, i centri culturali e le organizzazioni sociali, per ricordare a tutti cosa è costata ai nostri padri quella libertà di cui noi godiamo spesso senza riconoscenza, e come monito alle nuove generazioni sui mostruosi esiti di una sempre possibile eclissi della ragione.

    Un libro come memoria e riscatto. La verità di un racconto corale che interpella le coscienze, prima ancora che i gruppi, la società e le istituzioni, perché tutto quello che questi sopravvissuti hanno sofferto e descritto in quei luoghi della morte programmata non ritorni a minacciare la nostra stessa natura di uomini, magari sotto le mentite spoglie di un linguaggio accattivante ma menzognero.

    QUADRO STORICO

    di Armando Borrelli

    La sera del 9 settembre 1943, quando ancor perdurava nella maggior parte degli italiani un senso di ansia e di incertezza per l'armistizio, varcavano il Brennero i primi convogli di soldati e ufficiali deportati in Germania. In preda ad un indicibile stordimento e ad una profonda angoscia, nella bancarotta completa di tutte le idee che seguiva al crollo di un vecchio sistema militare, l'esercito veniva disarmato e disperso. Il disarmo era in genere incruento: solo poche unità avevano risposto col fuoco all'intimazione tedesca di resa: però la resistenza di questi pochi, dei soldati di Cefalonia, dei marinai di Lero, delle divisioni Venezia, Firenze, Pinerolo, dimostrava come la decisione ferma e coraggiosa di un comandante potesse salvare l'esercito e dare un altro corso agli eventi.

    La responsabilità specifica dello sfacelo può essere determinata e fatta ricadere su pochi uomini; il compito di queste indagini spetta alla storia.

    Così pochi giorni dopo l'armistizio, gli uomini migliori che avevano donato alla Patria gli anni più fecondi, languivano nei campi di concentramento di Germania. Un velo di solitudine impenetrabile si stendeva improvvisamente su queste vite troncate nel trascorrere monotono delle giornate inerti e senza pane. Tutto un passato di azione, di responsabilità quotidianamente accettata ed amata scompariva nello sterile involversi delle anime nell'abbandono e nel quotidiano morire nell'inazione.

    L'Italia era lontana, in rovina, né poteva difenderli; viveva solo nelle loro anime tese in uno sforzo supremo di fedeltà alla sua voce.

    Nei primi campi di smistamento gli ufficiali venivano separati dai soldati: ad entrambi i tedeschi avevano chiesto con minacce di morte l'adesione alle SS, ma nessuno era uscito dai reticolati per indossare la deprecata divisa. I tedeschi allora precisavano di non riconoscere gli italiani come prigionieri di guerra e decidevano di avviare i soldati al lavoro nelle campagne e nelle fabbriche, e di trasferire gli ufficiali nei campi di concentramento di Polonia: Tschenstochau, Przemysl, Leopoli, Tarnopol, Deblin, Cholm, Posen, ecc....

    La storia dei soldati è la storia tragica della vita nelle miniere, nelle fabbriche, negli Arbeitskommandos, la storia di una lotta oscura ed eroica alimentata da una forza attinta alle sorgenti più pure dell'amor di patria e della religione.

    La storia degli ufficiali è quella del quotidiano morire nella fame, nel freddo, in una solitudine struggente e in una miseria desolante. La fiera e cattolicissima Polonia accolse col segno della più umana fraternità le nuove vittime della rabbia tedesca, che con la irrisione di una formula giuridica venivano sottratte alla protezione del diritto internazionale e ad ogni possibilità di soccorso da parte della Croce Rossa di Ginevra.

    In questi campi di Polonia si delineava per la prima volta la tragica realtà della nuova vita: l'insufficienza estrema della razione dei viveri, la disastrosa sistemazione in ambienti malsani, la mancanza di combustibile, di vestiario, di acqua potabile e di materiale sanitario, l'impossibilità di comunicare con le famiglie.

    Questa sciagura che si abbatteva sugli italiani non trovava tutte le anime ugualmente preparate: il desiderio della libertà e dell'azione era terribilmente vivo e torturante, ed i tedeschi cominciarono presto ad accarezzarlo offrendo il ritorno in Italia a condizione che si aderisse al governo repubblicano fascista.

    La proposta era allettante ma l'odio contro i tedeschi esaltava anche le anime più deboli e venne quindi concordemente respinta. Gli italiani cominciavano a lottare e a resistere: in quei giorni, dai campi di Polonia si levava grave, solenne, nostalgico il canto del Nabucco come negli anni gloriosi e sublimi del nostro Risorgimento.

    Ma l'entusiasmo era destinato a morire schiacciato dal potere laceratore della fame. Il destino degli italiani era ancora lontano e sarebbe maturato attraverso altre prove e più profonde selezioni. La proposta fatta dai tedeschi aveva ispirato solo odio e disprezzo, ma ripetuta più tardi da labbra italiane acquistava un fascino ed un potere suasivo che piegava i più deboli.

    Il governo repubblicano di Mussolini non aveva dimenticato che la parte viva dell'esercito era rinchiusa nei campi di concentramento di Germania, e nel novembre cominciava a mandare i suoi rappresentanti ufficialmente incaricati di raccogliere le adesioni alla Repubblica: in quelle occasioni i deportati dovettero sorbirsi al freddo e al vento le girandole dialettiche dei propagandisti. La fame, il freddo, la disperazione cominciarono lentamente a piegare i dubbiosi e gli stanchi.

    Le prime adesioni rivelavano tra gli italiani una profonda scissione che avrebbe permesso ai tedeschi di iniziare la persecuzione metodica di coloro che intendevano tenacemente resistere.

    Da un lato i reiterati inviti all'adesione, dall'altro l'ostinato rifiuto dei più inasprivano progressivamente la situazione approfondendo l'odio dei tedeschi e la loro volontà di distruzione degli italiani. Gli optanti vennero posti in baracche a parte e ricevettero il trattamento del combattente.

    Per cinque mesi costoro si unirono ai tedeschi per esasperare gli spiriti, suscitare tempeste e dubbi nelle coscienze dei fratelli.

    La loro obbrobriosa speculazione sulla fame di chi non aveva aderito costituisce la pagina più nera della deportazione.

    Nella primavera 1944 gli aderenti partirono per l'Italia e in occasione di quella partenza gli ammalati furono invitati a rimpatriare previa sottoscrizione della formula di adesione alla Repubblica: pur trattandosi di atto squisitamente formale, la maggior parte dei malati rifiutò di sottoscrivere.

    Nessuna via restava per uscire dai reticolati se non sottoscrivere questa formula: Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia repubblicana e fascista e mi dichiaro pronto a combattere con le armi del nuovo esercito italiano del Duce, senza riserva, anche sotto il comando supremo tedesco, contro il comune nemico dell'Italia fascista del Duce e del grande Reich germanico.

    Nella coscienza degli uomini migliori si confermava allora la determinazione della resistenza e della lotta passiva, benché la Patria per la quale essi accettavano coscientemente anche il sacrificio supremo, avesse completamente dimenticato i suoi figli.

    La Patria era in rovina, ma il loro sacrificio era per un'altra Italia, per un'Italia che stava al di sopra di quella in fiamme, per la Patria eterna del cuore, che allora, pur non avendo volto nel tempo, pulsava nel loro sentimento profondo.

    Si incontravano in questa resistenza uomini di climi spirituali diversi e delle più disparate fedi politiche, tutti uniti contro ogni richiesta di collaborazione al mito dell'oppressione e della forza bruta.

    Da allora la storia degli ufficiali deportati divenne sempre più tetra. La realtà brutale della vita trascorsa nelle privazioni più dure si rivelava nelle sua crudezza primordiale. La fame aveva scavati i volti, tolta l'espressione agli occhi. La tensione degli spiriti aumentava ogni giorno ed esplodeva periodicamente in eccessi di disperazione e di manie. L'avanzata russa della primavera obbligava i tedeschi a trasferire gli ufficiali italiani dalla Polonia in Germania. Cominciava allora il calvario senza fine dei trasferimenti, che rendono le ore un martirio continuato e senza nome: aumentano la fame, gli stenti, le spogliazioni, gli insulti, creando un'esasperazione che confina col delirio.

    Nei campi di Germania il numero delle vittime vinte dalla fame e dai patimenti saliva quotidianamente e sempre, nelle ore più nere, si ripetevano le adunate nefaste in cui veniva posto il problema dell'adesione.

    Mai forse uomo si è sentito così solo col suo destino come questi ufficiali a cui i tedeschi ponevano ostinatamente questa fatale alternativa: aderire o morire!

    Pochi, presi dal terrore, chiesero di uscire dal lager: la maggior parte accettò coscientemente di proseguire il suo calvario vivendo in quei campi orribili, privi di ogni cosa, indifesi, ignorati da tutto il mondo.

    C

    Nell'agosto 1944 un accordo italo-tedesco dichiarava gli internati liberi lavoratori.

    La Germania considerava definitivamente risolto il problema degli internati militari italiani.

    Un'intensa propaganda venne fatta per questo accordo, specie in Italia, per calmare le inquietudini delle famiglie dei deportati. Nel settembre il testo dell'accordo veniva comunicato agli ufficiali che ancora non avevano aderito né alla Repubblica né al lavoro, con l'avvertenza che i ribelli e gli ostinati nella resistenza sarebbero stati impiegati in lavori pesanti, compresi quelli di miniera, o avviati in campi di punizione.

    Il risultato della propaganda tedesca in quei giorni non fu brillante. La sofferenza comune aveva stretti gli spiriti in un vincolo più forte di ogni apparato retorico.

    Occorreva resistere, resistere ancora fino alla fine e la fine non era lontana. Gli alleati erano schierati sul Reno pronti per l'ultimo attacco alla Germania.

    Le ragioni per sperare non mancavano, ma intanto le minacce tedesche non davano tregua ed il secondo inverno di prigionia avanzava minaccioso e inesorabile con le sue crisi spirituali.

    Alle ore di speranza seguivano ore nere di scoraggiamento e di sfiducia: la tensione nervosa esasperante, protratta per dodici mesi, aveva provocato il collasso e diffondeva un clima in cui la forza della resistenza si attenuava.

    La tubercolosi, il tifo petecchiale, la dissenteria, mietevano sempre più intensamente in tutti i campi le loro vittime.

    Qualunque martirio ha un limite oltre il quale le forze della vita fatalmente si infrangono; e gli animi allora si sconvolgevano di fronte alla prova suprema.

    La spola della speranza era completamente dipanata: molti lasciavano i campi di concentramento per sfuggire alla morte ormai sicura. Nel dicembre 1944 languivano nei lager di Germania ancora diecimila ufficiali: in origine erano oltre trentamila. Contro questi ostinati cominciava, alle soglie del secondo inverno, la persecuzione sistematica che avrebbe dovuto portare alla loro completa eliminazione.

    Il programma diabolico iniziava col loro trasferimento in campi sempre peggiori e proseguiva con metodiche riduzioni della razione dei viveri e con l'abbandono in balia di criminali sempre più crudeli.

    La fame aveva raggiunto il suo vertice: pochi camminavano ancora; macabre apparizioni agitavano i sonni dei superstiti e la morte appariva sovrana affrancatrice da tanto spasimo.

    Eppure gli italiani resistevano ancora!...

    Gli indesiderabili, i ribelli più ostinati vennero imprigionati e trasportati ai campi di sterminio, altri avviati al lavoro con la forza su semplice richiesta numerica dei datori di lavoro: talvolta quest'ultimi sceglievano personalmente i meno deperiti per i loro lavori agricoli o industriali: un vero mercato di schiavi!...

    A questa coazione molti si ribellarono incrociando le braccia sul lavoro: la morte attendeva questi eroi sconosciuti a Buchenwald, Belsen, Dachau e Dora.

    Contro gli ultimi rimasti ancora nei campi i tedeschi sfogarono la loro rabbia con tormenti, oppressioni e derisioni di ogni genere.

    La primavera del 1945 trovava rinchiusi nei lager di Wietzendorf, Fallingbostel, Meppen e Norimberga, seimila ufficiali ribelli ad ogni intimazione tedesca. Questi campi erano ridotti ad un mare di sciagure in cui la vita era divenuta qualcosa di mostruoso.

    Superstiti di tanta tragedia erano corpi deformati e sfiniti, spettri in cui ardeva solo la fede nella Patria lontana e che sapevano resistere ancora con una forza morale leonina ed un disprezzo della morte da suscitare l'ammirazione dei prigionieri di altre nazionalità e degli stessi soldati tedeschi.

    L'attesa spasmodica, la sospensione disperata di questi uomini tra la vita e la morte era qualcosa dì così tragico e commovente che sapeva più di fantasia che di realtà.

    Essi sapevano di essere condannati a morte: l'ordine di eliminazione di tutti gli italiani ribelli era già stato sottoscritto dal comando supremo tedesco, ma le loro radio clandestine, informandoli ora per ora dell'avanzata degli alleati, avevano restituito loro la speranza di essere salvi prima che il mostro morente compiesse l'ultimo massacro.

    La primavera risollevava gli spiriti portando da remote lontananze un'aria indefinita di liberazione.

    E la liberazione così angosciosamente attesa venne. Non è possibile esprimere i sentimenti di quell'ora nei superstiti. La gioia raggiungeva la follia e l'unica parola possibile era il pianto, un pianto irruente e sconvolgente in cui si convogliavano tutte le lacrime invano invocate nei venti mesi di attesa. Era tornata la vita, e con la vita tutte le speranze sepolte risorgevano nei cuori di questi uomini sfiniti ma palpitanti ancora di libertà e di italianità.

    Il ritorno in Italia seguiva a qualche mese dalla liberazione.

    Nell'attesa, le anime si ricomponevano nel silenzio della vita interiore e la tragica esperienza trascorsa sommergeva in un'atmosfera di umana intimità che sfugge ad ogni descrizione.

    C

    Chi non ha vissuta questa esperienza, difficilmente potrà comprenderne il significato. I sopravvissuti, che hanno coscientemente e volontariamente accettata questa sofferenza per tener fede ad un giuramento e ad un ideale, hanno combattuta la battaglia più degna, anche se la meno conosciuta ed apprezzata.

    E la figura dei morti per questa fede s'illumina di una luce meravigliosa che li pone per la purezza e la fierezza del sacrificio nella tradizione degli eroi del Risorgimento, quali esempio e monito alle generazioni future.

    Il loro sacrificio non è stato una semplice follia: è il seme indistruttibile da cui sorgeranno le forze sane della Patria.

    La storia ha chiesto il terribile sacrificio perché l'Italia un giorno potesse risorgere.

    PARTE PRIMA

    VERSO L'ABISSO

    NELLA TRAGEDIA DELL'8 SETTEMBRE 1943

    di Mario Cortellese

    Avevamo compiuto il nostro dovere con coscienza, se pure spesso col segreto timore che in fondo alla strada faticosamente percorsa non un raggio di luce gloriosa vi fosse, ma un terribile buio.

    Fu bruscamente che ci trovammo di fronte a noi stessi, sciolti dal vincolo della disciplina per la mancanza di ordini. Aspettammo ordini, e che fossero quali erano da attendersi, e non vennero. Oppure quegli ordini si anticiparono e si organizzò una sanguinosa e gloriosa, quanto vana (al momento e nel futuro, purtroppo) resistenza, contro chi si impossessava, o tendeva ad impossessarsi delle nostre posizioni, delle nostre armi, dei nostri corpi. La tragedia di quel momento fu che ognuno singolarmente si trovò costretto ad assumere una responsabilità personale, là dove il principio della responsabilità poggia nettamente sulla gerarchia; e mancò anche in molti l'immediata visione della strada che si doveva battere.

    Ma presto o tardi, coinvolti tutti, e confusamente, nell'improvviso rivolgimento, un'idea si fece chiara e sicura, mentre i gremiti carri ferroviari ci trasportavano lontano verso una terra ignota, verso un destino noto ed ignoto ad un tempo: resistenza passiva, poiché l'attiva era riuscita o impossibile o inefficace.

    E quelle parole – resistenza passiva – avevano per noi un valore particolare, come particolare era la condizione nostra, ben diversa da quella dei prigionieri comuni: il modo strano della nostra cattura, alcuni punti affioranti nella confusione della situazione italiana, ci facevano presentire che quella resistenza passiva richiedeva non un abbandonarsi indolente alla fatalità di un destino già irrimediabilmente segnato, ma vigilanza fattiva e consapevole fermezza.

    Fu allora che si accesero le prime vibrate discussioni con una minoranza per convinzione o per accomodantismo incline a cedere: fu, appena giunti nella terra che consideravamo nemica, che vedemmo alcuni di noi staccarsi da noi. Accettavano di far parte di formazioni militari incorporate nell'esercito tedesco (altri particolari erano ancora da stabilire) che avrebbero, dopo un certo tempo di istruzione, ripreso le armi. Prezzo della vendita: trattamento migliore in una condizione di pur vigilata libertà e soprattutto il ritorno in Italia. Furono pochi: e quelli che lo fecero per fede, pochissimi.

    Cominciava la tragedia che doveva contraddistinguere così nettamente la nostra prigionia. Perché a quell'invito seguirono poi altri; e se il primo si presentava in forma ripugnante, altri furono invece formulati con tale larghezza da riuscire veramente allettanti. Si andava formando un esercito italiano, e l'asservimento appariva al singolo meno immediato e duro, e più sicura la promessa di tornare in Italia; ma si poteva anche riprendere l'abito borghese e la propria attività civile nelle professioni, negli uffici, nelle officine, nei campi. La libertà, l'Italia e per la maggior parte di noi la famiglia: tutto questo ci stava davanti mentre il complesso intimidatorio magistralmente si orchestrava in tante piccole vicende quotidiane con l'allettamento di rigogliose speranze e la minaccia già attuata; mentre il morso lacerante della fame, il rigore di temperature inusitate, la mancanza dei più elementari conforti materiali maceravano ed abbrutivano i nostri corpi e tendevano ad indebolire la stessa forza morale.

    La nostra tragedia fu appunto nella consapevolezza di quello cui avremmo potuto sfuggire – e per molti sarebbe stata la vita – di quello che avremmo potuto ottenere.

    Italia, libertà, famiglia e ridivenire uomini tra uomini. Bastava che una firma segnasse l'adesione, pur generica, al Governo della Repubblica Sociale Fascista. Ma in quella libertà sentivamo la schiavitù, nell'Italia l'insidia della dominazione tedesca. E d'altra parte ripugnava alla nostra coscienza, dopo aver individualmente aderito, tradire.

    Ma così la nostra prigionia diventava volontaria e moralmente si riscattava. Chiusi tra il filo spinato, i cui aculei attraverso le svariate sofferenze quasi incidevano nelle nostre carni, sentivamo di essere più liberi di quelli che ne uscivano. Perché il nemico poteva violentare e abbrutire i nostri corpi, non piegare la saldezza delle nostre convinzioni.

    In quel no! noi affermavamo la libertà dello spirito: ed il nemico stesso, quando fu sincero e leale, lasciò sfuggire il riconoscimento e l'ammirazione. Ma tutto questo significava lottare: lottare contro i timidi, i deboli, gli incerti per rincuorarli, rafforzarli, convincerli. Lottare con la nostra stessa carne, che tendeva con tutte le forze dell'istinto al superamento della sofferenza; soffocare il bisogno di tutto quel complesso di civiltà personale e sociale, materiale e morale, la cui mancanza ci abbrutiva; contenere nell'animo il grido dei bimbi, delle spose, delle madri, dei padri, che sentivamo protesi verso di noi; trattenere l'ansia di rivedere i nostri campanili e le nostre case, di riprendere il nostro lavoro e gli studi interrotti.

    Ciò importava ancora, nel travaglio di ciascuno o nelle violente discussioni così spesso insorgenti, la necessità di giustificare continuamente a noi stessi la nostra posizione, acquistare coscienza sempre più chiara e precisa dei motivi del nostro rifiuto. Che erano la fede al governo che solo poteva considerarsi legittimo, al quale ci legava un giuramento sacro, la certezza che nell'Italia vinta ed occupata dagli Alleati non si sarebbe attuata una dominazione permanente e dura come quella tedesca; che quell'Italia prostrata e calpestata dallo straniero sarebbe a nuova vita risorta ritrovando nelle libere istituzioni la sua tradizione migliore. E come la servitù politica ci aveva condotti all'asservimento nazionale, così la libertà avrebbe custodito ed alimentato quel patrimonio di civiltà nostra, e a suo tempo l'avrebbe fatto fruttificare. Là era l'Italia del Risorgimento. A quell'Italia volevamo essere fedeli.

    Ed intuivamo che il nostro sacrificio, per l'amore alla Patria di cui si alimentava, per la salvezza morale che richiedeva, portava all'Italia, per la sua risurrezione, il contributo, che in quel momento ci fosse consentito.

    Poi venne l'invito al lavoro in terra tedesca. E se a principio poté sembrare che molti se ne astenessero per timore di mali maggiori, quando però la pressione si fece più pesante e quando soprattutto cominciarono a giungere notizie certe da nostri compagni che, nonostante la gravezza del lavoro, la situazione, in genere e nel suo complesso, si presentava molto meno dura che nel campo di concentramento, allora fu chiaro che di ben diversa natura doveva essere la nostra ostinazione a rifiutare qualunque – e ce ne furono di relativamente lusinghiere – offerta di lavoro.

    Il lavoro che ci veniva offerto non dava nessuna garanzia di rispetto della nostra dignità di ufficiali italiani, anzi da un certo momento comportava anche la rinuncia alla nostra divisa. E noi d'altronde comprendevamo che le nostre braccia, rendendosi operose a favore della Germania nazista, avrebbero contribuito, sia pur minimamente, ad alimentare la guerra o aiutandone lo sforzo produttivo o dando la possibilità ad altri tedeschi di raggiungere il fronte di combattimento. Né dal punto di vista morale importava l'entità – nel caso irrisoria – del nostro contributo.

    Questi inviti al lavoro si ripetevano ad ondate; e ad ognuno corrispondeva un giro di vite al torchio che già ci comprimeva. Finché fu deciso di mandarci al lavoro obbligatoriamente, e soltanto la fine delle ostilità impedì di attuare per tutti il proposito. Ma, per quante fossero le adesioni raccolte, rimanevamo sempre molti a ripetere il no!. Molti cui ripugnava ancora raccattare il pane offerto a così caro prezzo.

    Intorno la morte serpeggiava insidiosa, le emottisi paurosamente si moltiplicavano e i corpi scheletriti rabbrividivano al gelo e si accasciavano. E il gelo penetrava negli animi nei momenti di scoramento e di angoscia per l'incerto

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