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Il confine settentrionale: Austria e Svizzera alle porte d'Italia
Il confine settentrionale: Austria e Svizzera alle porte d'Italia
Il confine settentrionale: Austria e Svizzera alle porte d'Italia
E-book540 pagine7 ore

Il confine settentrionale: Austria e Svizzera alle porte d'Italia

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Info su questo ebook

Il filosofo Zygmunt Bauman ha detto che “i confini dividono lo spazio; ma non sono pure e semplici barriere. Sono anche interfacce tra i luoghi che separano”.
Il confine settentrionale italiano non fa eccezione in questo senso. È linea di separazione ma allo stesso tempo è sempre stato luogo di passaggio, di incontro-scontro tra uomini, lingue, culture e tradizioni. Allo stesso tempo si presenta come un confine duplice per storia e realtà attuale, diviso, come è sempre stato e come è ancora, tra due mondi, quello della Confederazione elvetica e quello dell’Austria nelle sue diverse forme.
Inoltre, lo studio del confine settentrionale italiano obbliga a confrontarsi con due ordini di problemi: l’esistenza, o meno, delle frontiere naturali, poiché le Alpi per secoli più che separare unirono le popolazioni di montagna in quanto luoghi di incontro, scambio, comunicazione; e l’esistenza, questa indubbia, di frontiere linguistiche che hanno inciso anche nel processo di costruzione degli Stati e nella quotidianità di queste aree culturali.
In questo libro Roberto Roveda e Michele Pellegrini provano a indagare le peculiarità del confine settentrionale, partendo dalla sua storia più antica fino ad arrivare ai giorni nostri, e cercando di mettere in risalto il processo di formazione della linea di confine, le sue trasformazioni ma anche le sue caratteristiche durature nel tempo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2018
ISBN9788899932299
Il confine settentrionale: Austria e Svizzera alle porte d'Italia

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    Anteprima del libro

    Il confine settentrionale - R. Roveda

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2018 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788899932299

    Titolo originale dell’opera:

    Il confine settentrionale

    Austria e Svizzera alle porte d'Italia

    di R. Roveda - M. Pellegrini

    Prefazione di Fabrizio Panzera

    Collana *passato prossimo

    diretta da Edoardo Bressan

    Indice generale

    Autore

    Prefazione di Fabrizio Panzera

    Introduzione

    Sezione I - Il confine settentrionale prima dell’Unità d’Italia

    I. LE ORIGINI DEL CONFINE SETTENTRIONALE

    1. I transiti alpini dalla preistoria al medioevo

    2. Romanizzazione e cristianizzazione dell’arco alpino

    3. Le Alpi: un confine tra tardo antico e medioevo?

    4. Il Vallese: tra Borgogna e dominazione sabauda

    5. I Walser e il mondo alpino

    6. Il Ticino: una terra lombarda

    7. Il Capitolo cattedrale di Milano e le valli ambrosiane

    8. Le Alpi Centrali: tra Grigioni e Valtellina

    9. I principati vescovili di Trento e Bressanone

    10. I valichi tra medioevo ed età moderna

    II. L’ETÀ MODERNA

    1. Ai confini della Lombardia

    2. La Valtellina e l’età grigione

    3. Il confine tra Italia e Germania e le sue rappresentazioni

    III. AI CONFINI DELL’ERESIA

    1. Frontiere religiose in Lombardia

    2. La Riforma in Valtellina, a Bormio e a Chiavenna

    3. Il Protestantesimo nel Triveneto

    IV. L’EPOCA NAPOLEONICA E IL RISORGIMENTO

    1. Il Ticino e i baliaggi italiani tra Settecento e Ottocento

    2. La Valtellina dai Grigioni all’Austria

    3. La fine dei principati vescovili di Trento e Bressanone

    Sezione II - Dalla nascita del Regno d’Italia alla Grande Guerra

    V. IL REGNO D’ITALIA E IL CONFINE SETTENTRIONALE

    1. Dal confine occidentale al fronte settentrionale

    2. Le fortificazioni al confine settentrionale

    3. Le fortificazioni elvetiche e il Ticino prima della Grande Guerra

    4. Il territorio trentino

    5. La difesa di un confine montuoso: gli Alpini

    VI. TIMORI E DIFFIDENZA

    1. Il Regno d’Italia guarda a Nord

    2. Le nuove crisi di inizio secolo e l’affermazione dei nazionalismi

    3. Il confine come risorsa: il contrabbando tra Ottocento e Novecento

    VII. IL CONFINE CON L’AUSTRIA-UNGHERIA

    1. L’autonomia trentina verso la Grande Guerra

    2. Il nuovo secolo e l’irredentismo

    3. La questione ladina

    4. Il contrabbando al confine con l’Austria-Ungheria

    VIII. LA GRANDE GUERRA E IL CONFINE IN ARMI

    1. Il Ticino e la Svizzera alla prova della Grande Guerra

    2. Il Trentino in guerra

    3. L’Italia e il fronte trentino

    4. La soluzione della questione trentina

    Sezione II - Il confine settentrionale tra le due guerre

    IX. LA FRONTIERA ITALO-SVIZZERA

    1. Mussolini e il confine svizzero

    2. Gli antifascisti e la polizia italiana in Svizzera

    3. Gli anni Trenta, il volo Bassanesi e il fascismo in Ticino

    4. Il confine e le relazioni militari con la Confederazione

    X. IL SUD TIROLO E IL FASCISMO

    1. Il primo dopoguerra

    2. L’affermazione del fascismo

    3. Salorno: un confine identitario

    4. La Germania nazista al confine

    XI. IL CONFINE SETTENTRIONALE E LA SECONDA GUERRA MONDIALE

    1. L’Italia fascista e la Svizzera

    2. Tra il Reich e l’Italia: il Trentino-Alto Adige

    Sezione IV - Il confine dal secondo dopoguerra ad oggi

    XII. UNA FRONTIERA ECONOMICA: ITALIA E SVIZZERA

    1. I rapporti tra Roma e Berna nel secondo dopoguerra

    2. L’emigrazione italiana in Svizzera

    3. Le vie di comunicazione e il trasporto merci

    XIII. IL DIFFICILE DOPOGUERRA IN TRENTINO-ALTO ADIGE

    1. La strada verso l’autonomia

    2. Tra autonomia e identità

    3. La questione tirolese e la rimilitarizzazione del confine

    4. Il terrorismo in Tirolo fino agli anni Ottanta

    XIV. IL CONFINE SETTENTRIONALE E L’EUROPA

    1. Le prospettive della frontiera italo-elvetica

    2. Il trentino, l’Austria e l’Unione Europea

    3. La cooperazione interregionale

    Conclusioni

    Bibliografia

    ROVEDA R. - PELLEGRINI M.

    Roberto Roveda (Chiaravalle Milanese, 1970) si è laureato prima in Lettere moderne e poi in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Da anni si occupa di storia della Svizzera e dei rapporti italo-elvetici, con particolare attenzione al Canton Ticino ed è membro del Gruppo di studio e di informazione Coscienza Svizzera. Collabora con il magazine del Canton Ticino Ticino 7, con i mensili Focus Storia e Medioevo, con le riviste di geopolitica Limes e Limes on line e con il quotidiano Unione sarda. Svolge inoltre attività di consulenza editoriale in ambito storico presso le case editrici Pearson-Bruno Mondadori, Principato, Rizzoli, La Nuova Italia, Palumbo, Sei, Loescher, De Agostini.

    Michele Pellegrini (Milano 1981), laureato all’Università degli Studi di Milano, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia del cristianesimo e delle chiese cristiane presso l’Università degli Studi di Padova. E’ archivista e paleografo e autore di diversi studi di storia medievale e moderna; collabora con importanti case editrici per la realizzazione di testi scolastici. Socio ordinario della Società Storica Lombarda e della Società Dalmata di Storia patria, è membro del Comitato scientifico della collana Tèxnes - Editrice Leone.

    M. Pellegrini, L’«ordo maior» della Chiesa di Milano, (Studi di storia del Cristianesimo, 14), Milano 2009.

    Il Filo della Memoria. Catalogo della mostra documentale, testi a cura di G.L. Dilda, M. Pellegrini, Truccazzano 2010.

    M. Pellegrini, Cronologia ezzeliniana, in Soncino magica. Storie e leggende da Sonqi al figlio del Diavolo, a cura di F.Maestri, Associazione Castrum Soncini, Soncino 2011, pp. 79.

    M. Pellegrini, Hic plus quam diabulo timebatur. L’eresia del potere nel mito ezzeliniano, Ibidem, pp. 80-96.

    R. Roveda, M. Pellegrini, Il trono e l’altare, in La Spagna non è l’Uganda, «Limes» 4/2012, pp. 107-115.

    M. Pellegrini, Introduzione, in Giovanni Pietro Moneta. Diario (1661-1672), a cura di G.L. Dilda, «Quaderni capitolari – Fonti», 1, 2012, pp. 1-12.

    L. Fois, M. Pellegrini, Istituzioni e dissidenza religiosa. Episodi di eterodossia nell’Istria della prima età moderna, in Fenomenologia di una macro regione. Sviluppi economici, mutamenti giuridici ed evoluzioni istituzionali nell’alto adriatico tra età moderna e contemporanea, Milano 2012, Vol. 1, pp. 77-132.

    PREFAZIONE

    I termini di confine e di frontiera, spesso usati come sinonimi, hanno in realtà significati differenti. Il confine – secondo il Dizionario Treccani – «indica il limite di una regione geografica o di uno Stato,una zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti». Da parte sua la frontiera, sempre secondo la stessa fonte, rappresenta una «linea di confine (o anche, spesso, zona di confine, concepita come una stretta striscia di territorio che sta a ridosso del confine), soprattutto in quanto ufficialmente delimitata e riconosciuta, e dotata, in più casi, di opportuni sistemi difensivi». A queste distinzioni va anche aggiunta quella che si riferisce all’espressione di frontiera naturale, perché generalmente si ritiene che le montagne, i fiumi, costituiscano dei confini fissati dalla natura; una natura che sarebbe di per sé buona ed escluderebbe gli antagonismi di frontiera.

    L’idea di frontiera, così come oggi la intendiamo, emerge con la nascita dello Stato moderno, essendo esso stesso di natura territoriale: il legame tra Stato e sudditi diventa il territorio che è oggetto di sovranità. La linearità delle frontiere è ben presto presente nelle carte geografiche degli Stati moderni, ma incide nella realtà quotidiana delle popolazioni delle aree di confine solo con il Settecento e soprattutto con la Rivoluzione francese.

    D’altra parte nel corso del XVIII secolo si afferma il concetto di natura, e, accanto a questo, sorge in quel periodo l’idea di frontiera naturale. La natura tuttavia non crea che degli accidenti ai quali, a seconda dei casi, lo statuto di frontiera può essere conferito: sono in realtà gli uomini che creano i limiti e le frontiere, attraverso la loro pratica e la loro conoscenza dello spazio.

    Questo insieme di considerazioni portano i due autori di questo bel libro – Michele Pellegrini e Roberto Roveda – a confrontarsi, nell’affrontare lo studio del confine settentrionale italiano, con due ordini di problemi: l’esistenza o meno delle frontiere naturali, giacché le Alpi per secoli più che separare unirono le popolazioni di montagna in quanto luoghi di incontro, scambio, comunicazione; l’esistenza, innegabile, di frontiere linguistiche che hanno inciso anche nel processo di costruzione degli Stati e nella quotidianità di queste aree culturali.

    L’oggetto dello studio – il confine settentrionale italiano – riguarda due parti distinte: la frontiera con la Confederazione elvetica e quella con l’Austria. Come precisano i due autori, «la prima inizia al monte Dolent dove è situata la triplice frontiera tra Francia, Italia e Svizzera, e si conclude dopo 740 km al passo di Resia che divide Italia, Svizzera e Austria. Il confine italo-svizzero, comprendente anche l’enclave di Campione d’Italia sita interamente nel Canton Ticino, interessa oggi quattro regioni italiane (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige) e tre cantoni elvetici (Vallese, Ticino e Grigioni)».

    Dal canto suo «la demarcazione territoriale tra Austria e Italia corre dal passo di Resia per 430 km fino al Monte Forno, dove si incontrano i tre confini di Austria, Italia e Slovenia – l’attuale confine italo-austriaco interessa tre regioni (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia) e tre Länder (Tirolo, Salisburghese e Carinzia), e segue generalmente lo spartiacque, con due eccezioni: la conca di San Candido, nella frazione di Prato alla Drava – ramo sorgentizio della Drava e del suo affluente rio Sesto (bacino idrografico del Danubio) – e la conca di Tarvisio, attribuite all’Italia benché poste oltre la linea di displuvio (bacino idrografico del Danubio)».

    Il confine settentrionale italiano è stato luogo di incontro e confronto tra realtà sovente differenti dell’area alpina – basti pensare al mondo latino e a quello germanico in epoca medievale – ma talvolta accomunate da lingue e culture che eludono la dimensione amministrativa delle frontiere nazionali. Una ricerca su tali vicende non ha potuto che prendere avvio dall’indagine sulla nascita dei transiti montani e il loro utilizzo in età antica per arrivare a indagare sull’immagine dell’area alpina in epoca medievale. Le origini dell’attuale demarcazione mostrano infatti la complessità etnica, religiosa e sociale del mondo alpino, che ha costituito a lungo una realtà atipica rispetto alla progressiva definizione degli Stati moderni.

    Da questo punto di partenza, dedicato alle origini del confine settentrionale e quindi alla preistoria, alla romanizzazione e alla cristianizzazione, e ai primi secoli del medioevo, lo studio – accurato, ricco d’informazioni e scritto in chiara forma divulgativa – attraversa via via i successivi periodi storici. Dal cuore del medioevo si passa all’età moderna, con il formarsi dapprima degli Stati regionali e nazionali e in seguito con la nascita dei conflitti tra riformati e cattolici. Eventi, questi, che incidono in modo marcato sul mondo alpino e perciò anche sul confine settentrionale. La ricerca si snoda poi lungo i meandri dell’epoca napoleonica e del Risorgimento italiano per giungere sino agli anni della nascita del Regno d’Italia e della prima guerra mondiale: un periodo che si rivelò decisivo per definire i rapporti del Regno con la Confederazione, ma soprattutto con l’Impero austro-ungarico. Non meno irti di difficoltà si sarebbero nondimeno rivelati i decenni compresi tra le due guerre, sia per quanto riguarda le relazioni tra l’Italia fascista e il Canton Ticino sia per le vicende del Sud Tirolo.

    La ricerca porta quindi la sua attenzione ai rapporti tra Roma e Berna nel secondo dopoguerra, prendendo in esame questioni rilevanti come quella dell’emigrazione italiana in Svizzera e quella legata allo sviluppo delle vie di comunicazione e del trasporto delle merci. Non minor spazio viene però dedicato al difficile dopoguerra in Trentino-Alto Adige, con i complessi problemi legati all’identità di quella regione e alla definizione di una sua autonomia. Lo sguardo di Pellegrini e Roveda si volge infine alla situazione attuale del confine settentrionale, che lo vede da un lato confrontato con una Svizzera alle prese con le sfide della globalizzazione e tentata a ripiegarsi su se stessa, e dall’altro lato con un’Unione europea che ha sì portato alla scomparsa dei confini, ma che in questi ultimi anni si trova alle prese con le crisi provocate dall’afflusso di migranti.

    Nelle loro conclusioni i due autori ricordano come all’accelerazione, avvenuta in questi ultimi anni, del processo di unificazione europea e della globalizzazione si sia accompagnata la riscoperta delle piccole patrie intese come difesa rispetto a processi ostili alle peculiarità nazionali e regionali. Ciò ha ridato vita a sentimenti di appartenenza localistici e restituito significato a linee di confine reali o immaginarie. Le vicende del confine settentrionale – ricostruite in questo libro in maniera esemplare – hanno un duplice significato: riguardano la storia della frontiera con la Confederazione elvetica e di quella con l’Austria. Tuttavia a questo limite tracciato sulle carte geografiche corrisponde la complessità di luoghi di transito abitati da genti unite da culture, religioni e tradizioni, per le quali tale demarcazione per secoli non è esistita o non è stata percepita come tale.

    La ricerca che ci viene qui presentata ha due meriti. Il primo è quello di offrirci una storia sintetica, ma assai incisiva del confine settentrionale. Il secondo è quello di indurci a riflettere sui motivi che al di qua e al di là di questo confine (ma non solo) hanno fatto sorgere, con la crisi del processo di costruzione dell’Europa unita, nuovi nazionalismi e partiti fautori di politiche di chiusura delle frontiere.

    Fabrizio Panzera

    Fabrizio Panzera, dottore di ricerca in storia, dal 1986 al 2012 è stato archivista all’Archivio di Stato del Canton Ticino. In seguito è stato professore a contratto di Storia della Svizzera all’Università degli Studi di Milano. Ha scritto numerosi libri e saggi: le sue ricerche riguardano in particolare la storia politica e religiosa del Canton Ticino nell’Otto e Novecento, e quella delle relazioni politiche, economiche e culturali tra Svizzera e Lombardia.

    INTRODUZIONE

    Il concetto di limite comprende, come categoria generale, la frontiera. È dunque il caso di domandarsi cosa vi sia alla sua origine: un’autorità, un potere che può esercitare la «funzione sociale del rituale e del significato sociale della linea, del limite di cui il rituale legittima il passaggio, la trasgressione»¹.

    Il limite, linea tracciata, instaura un ordine che non è soltanto di natura spaziale, ma anche di natura temporale, nel senso che non separa soltanto un al di qua e un al di là, ma anche un prima e un dopo².

    Esso è per molteplici aspetti fondatore e portatore della differenza, ed è presente in ogni grande mito e cosmogonia, e la frontiera nel senso geografico e politico non è che un sotto-insieme dell’insieme dei limiti. Come osserva Claude Raffestin, la frontiera come la concepiamo oggi deve molto a quel tipo di rappresentazione del territorio che è la carta: se è vero che il limes romano non fu una frontiera ma il limite dell’occupazione militare, nondimeno i muri edificati in più parti dell’impero prefigurano una linearità moderna e articolano una interiorità e una esteriorità che danno loro al contempo il significato di zona e linea³. In epoca medievale questa idea di linearità si perse, sebbene evidentemente questo non implicasse ignorare il concetto di delimitazione spesso marcato da cippi, strade e fiumi⁴. L’idea di frontiera come la intendiamo oggi emerge con lo Stato moderno poiché è esso stesso di natura territoriale: il suo legame con i sudditi diventa il territorio che è oggetto di sovranità. Sebbene la linearità delle frontiere compaia precocemente nelle carte geografiche degli Stati moderni diverrà reale nella quotidianità delle popolazioni delle aree di confine solo con il XVIII secolo e la Rivoluzione francese⁵.

    Una delle parole chiave del Settecento è indubbiamente natura ed è pertanto nel corso di questo secolo che emerge l’idea, sovente carica di attese e disillusioni, di frontiera naturale ma:

    sono gli uomini che creano i limiti e le frontiere, attraverso la loro pratica e la loro conoscenza dello spazio, la natura non crea che degli accidenti ai quali, eventualmente, lo statuto di frontiera può essere conferito⁶.

    Quanto sin qui osservato, mostra il carattere non arbitrario ma relazionale della frontiera realizzata dai rapporti che un soggetto, individuale o collettivo, stabilisce con lo spazio. Solamente nel XIX secolo si precisarono le regole per la definizione della frontiera: definizione, delimitazione e demarcazione. La prima è opera dei negoziatori e dei trattati e, sebbene puntuale nei termini geografici impiegati, mantiene un distacco sensibile dalla realtà territoriale. La seconda è opera dei cartografi che debbono fornire la rappresentazione più precisa possibile; in ultimo la demarcazione si effettua sul terreno e deve fare coincidere carta e territorio, rappresentazione e rappresentato. Le tre fasi sono separate da periodi spesso considerevoli e in ogni caso la fissazione della frontiera (ovvero l’insieme delle tre fasi) può spesso richiedere tempi lunghi. La delimitazione territoriale è in ogni caso una manifestazione del potere che ci informa sul potere che l’ha instaurata e sulle sue intenzioni: essa traccia il quadro territoriale di un progetto sociale e contribuisce all’elaborazione di un’ideologia. Per questo motivo occorre esser vigili ad ogni ristrutturazione dei sistemi di limiti e frontiere poiché nessun cambiamento è mai innocente e finisce sempre per influenzare l’esistenza degli uomini. Approcciarsi allo studio delle frontiere comporta analizzare quelli che Daniel Nordman chiama fatti di frontiera «ben marcati nei paesaggi, nella circolazione degli uomini e dei beni, nelle lingue, negli usi e nelle culture», ma anche le rappresentazioni della frontiera in alcune circostanze non percepita come tale e in altre invece elemento di distinzione di una comunità, una regione, uno Stato⁷. Non meno importante è porre l’accento sulla distinzione tra i termini confine e frontiera che spesso usati come sinonimi hanno in realtà accezioni differenti:

    limitando lo sguardo all’identico quadro geografico del territorio dello Stato, frontiere e confini sono molto diversi: attraverso questi ultimi si afferma il registro della pace; laddove la guerra e la forza spostano le frontiere a scapito dei vicini, la fine delle ostilità conduce alla pace dei confini⁸.

    Senza dubbio con scarsi risultati si ricercherebbero occorrenze dell’espressione frontiera naturale; in compenso si ammette comunemente che le montagne, i fiumi, costituiscano dei confini fissati dalla natura, una natura provvidenziale e buona che escluderebbe gli antagonismi di frontiera⁹.

    Lo studio del confine settentrionale italiano obbliga inoltre a confrontarsi con due ordini di problemi: – l’esistenza, o meno, delle frontiere naturali poiché le Alpi per secoli più che separare unirono le popolazioni di montagna in quanto luoghi di incontro, scambio, comunicazione; – l’esistenza, questa indubbia, di frontiere linguistiche che hanno inciso anche nel processo di costruzione degli Stati e nella quotidianità di queste aree culturali. Quello che per comodità indicheremo come confine settentrionale consta invero di due parti distinte: la frontiera con la Confederazione elvetica e quella con l’Austria. La prima inizia al monte Dolent dove è situata la triplice frontiera tra Francia, Italia e Svizzera, e si conclude dopo 740 km al passo di Resia che divide Italia, Svizzera e Austria. Il confine italo-svizzero, comprendente anche l’enclave di Campione d’Italia sita interamente nel Canton Ticino, interessa oggi quattro regioni italiane (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige) e tre cantoni elvetici (Vallese, Ticino e Grigioni).

    Dal passo di Resia la demarcazione territoriale tra Austria e Italia corre per 430 km fino al Monte Forno, dove si incontrano i tre confini di Austria, Italia e Slovenia: in merito a quest’ultimo e alle complesse tematiche ad esso afferenti si rinvia alla sintesi di Giorgio Siboni¹⁰. L’attuale confine italo-austriaco interessa tre regioni (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia) e tre Länder (Tirolo, Salisburghese e Carinzia), e segue generalmente lo spartiacque, con due eccezioni: la conca di San Candido, nella frazione di Prato alla Drava – ramo sorgentizio della Drava e del suo affluente rio Sesto (bacino idrografico del Danubio) – e la conca di Tarvisio, attribuite all’Italia benché poste oltre la linea di displuvio (bacino idrografico del Danubio).

    Progettato ed elaborato in stretta collaborazione tra i due autori, il presente volume è da considerarsi sotto la responsabilità scientifica di Roberto Roveda per quel che concerne il confine italo-svizzero, di Michele Pellegrini relativamente ai temi della frontiera austriaca.

    NOTE

    1 C. Raffestin, Elementi per una teoria della frontiera, in La frontiera da stato a nazione. Il caso Piemonte, a cura di C. Ossola, C. Raffestin, M. Ricciardi, Bulzoni, Roma 1987, pp. 21-38.

    2 Ibidem, p. 21.

    3 Ibidem, p. 25: «È proprio degli imperi di nutrirsi, alla loro periferia, di un paradosso: fissare limiti per imporre un ordine e un’amministrazione, ma trasgredirli per incorporare, per integrare nuovi spazi e sottometterli»; «Lucien Febvre relativamente a questi temi osservava che non esistono frontiere naturali in senso deterministico, ma gli uomini aggiustano tutto a costruzioni complesse e continuamente in gioco, che queste mutano, che gli uomini le attraversano cogliendo i percorsi possibili ma anche forzando quelli difficili, che i territori di frontiera sono soggetti a ibridamenti culturali di varia natura» (M. Pellegrini, Il confine occidentale. Dalla langue d’oc al movimento No Tav, Oltre edizioni, Sestri Levante 2014, pp. 16-17).

    4 Su questi temi si veda la lucida sintesi di P. Marchetti, Spazio politico e confini nella scienza giuridica del tardo Medioevo, in Confini e frontiere nell’età moderna. Un confronto tra discipline, a cura di M. Ambrosoli, F. Bianco, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 65-80.

    5 C. Raffestin, Elementi,cit., pp. 25-26. Da questo punto di vista il trattato di Campoformio costituisce un buon punto di riferimento.

    6 Ibidem, p. 27.

    7 D. Nordman, Frontiere e confini in Francia: evoluzione dei termini e dei concetti, in La frontiera da stato a nazione. Il caso Piemonte, a cura di C. Ossola, C. Raffestin, M. Ricciardi, Bulzoni, Roma 1987, pp. 39-56.

    8 M. Pellegrini, Il confine occidentale, cit., p. 18; si veda anche P.P. Viazzo, Frontiere e confini: prospettive antropologiche, in Confini e frontiere nell’età moderna. Un confronto tra discipline, a cura di M. Ambrosoli, F. Bianco, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 21-44, per una attenta analisi delle prospettive antropologiche dei due termini e una riflessione sulla più recente storiografia, e per una riflessione dal punto di vista dei geografi, P. Sereno, Ordinare lo spazio, governare il territorio: confine e frontiera come categorie geografiche, in Confini e frontiere nell’età moderna. Un confronto tra discipline, a cura di M. Ambrosoli, F. Bianco, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 45-64.

    9 D. Nordman, Frontiere e confini, cit., p. 47.

    10 G.F. Siboni, Il confine orientale. Da Campoformio all’approdo europeo, Oltre edizioni, Sestri Levante 2012.

    I. LE ORIGINI DEL CONFINE SETTENTRIONALE

    Il confine settentrionale italiano è stato luogo di incontro e confronto tra realtà sovente differenti dell’area alpina – basti pensare al mondo latino e a quello germanico in epoca medievale – ma talvolta accomunate da lingue e culture che eludono la dimensione amministrativa delle frontiere nazionali. Una riflessione sulle sue vicende deve dunque prendere avvio dall’indagine circa la nascita dei transiti montani e il loro utilizzo in età antica per giungere a riflettere sull’immagine dell’area alpina in epoca medievale¹. Le origini dell’attuale demarcazione mostrano la complessità etnica, religiosa e sociale del mondo alpino, che ha costituito a lungo una realtà atipica rispetto alla progressiva definizione degli Stati moderni.

    1. I transiti alpini dalla preistoria al medioevo

    La sistemazione delle prime vie transalpine dovette essere strettamente legata alla nascita dei primi insediamenti umani permanenti o semipermanenti; questi tracciati si modificarono gradualmente nel corso di millenni attraversando fasi di recessione e successivi incrementi in relazione a oscillazioni climatiche che ne rendevano più o meno conveniente l’utilizzo². In origine erano sentieri aperti da cacciatori del paleolitico attraverso i boschi in prossimità di solchi vallivi o di imbuti torrentizi che facilitavano l’accesso ai valichi³. Nel neolitico, l’oscillazione calda del clima iniziata nel 10.000 a.C. raggiunse l’optimum intorno al 5000 a.C. e favorì la messa a cultura di zone alpine e perialpine che ebbe come conseguenza l’intensificarsi dei contatti fra i due versanti, sebbene le evidenze archeologiche di questo fenomeno siano piuttosto ridotte e lo si debba dedurre per via indiretta⁴. Come osserva Giulio Schmiedt, in Lombardia l’utilizzazione dei valichi a nord del lago Maggiore è dimostrata dalla presenza in Svizzera di elementi culturali affini a quelli della cultura del neolitico superiore della Lagozza di Besnate⁵. Nell’alta valle dell’Adige i reperti del neolitico medio rinvenuti nella valle di Trento e a Romagnano (8 km da Trento) lasciano intuire che il Brennero, il Resia e il Monte Giovo fossero i transiti più largamente utilizzati per i collegamenti con l’alta pianura veneta, che tuttavia per la sua natura paludosa ha fatto scomparire le tracce degli insediamenti di quel periodo⁶.

    È però nell’età dei metalli (dal 6000 a.C. a tutto il primo millennio a.C.) che scambi e traffici lungo le vie alpine vanno intensificandosi: nelle Alpi Lepontine i valichi del Sempione⁷, del Gottardo, di San Bernardino, di Lucomagno e dello Spluga furono certamente usati da genti stanziate sulle due rive del lago Maggiore⁸. Particolarmente complessi risultano i collegamenti fra Alpi Orobie e Retiche separate dal solco longitudinale della Valtellina. Il passo dello Julier attraverso la val Bregaglia era risalito da genti degli insediamenti sorti sulle sponde del lago di Como⁹. Queste popolazioni potevano raggiungere la Valtellina, da cui transitavano anche i Camuni che, raggiunto Edolo, vi entravano dal passo dell’Aprica¹⁰.

    L’importanza che la Valcamonica aveva per le comunicazioni fra il lago d’Iseo (lambito dalle strade provenienti da Milano, da Bergamo, da Brescia) e l’alto Adige è dimostrata dal rinvenimento nella provincia di Bolzano di statue menhir simili a quelle della Valcamonica¹¹.

    Nelle Alpi Atesine, le valli dell’Adige, Venosta, dell’Isarco e Pusteria furono frequentate sin dalla fine del neolitico e conservano resti di insediamenti dalla prima età del bronzo all’età del ferro: il passo più frequentato era indubbiamente il Brennero¹². L’antica via preistorica doveva passare dalle pendici del monte Sattel, a differenza di quella romana che sarebbe passata più in basso sulle sponde del laghetto del Brennero. Sebbene al passo di Resia non siano stati rinvenuti resti archeologici, il gran numero di ritrovamenti in val Venosta sia dell’età del bronzo che di quella del ferro indicano che esso fosse frequentato. Usate erano anche la via che da Merano conduce a Vipiteno attraverso il Monte Giovo, quella che attraverso il passo di Pennes collega la valle dell’Adige all’Isarco e quella che dalla val Pusteria conduce al passo di San Candido¹³. Nelle Alpi Carniche era in uso il passo di Monte Croce Carnico¹⁴, nelle Alpi Giulie quello di Camporosso, il Loibl e quello di Seeberg.

    La diffusione delle asce a forma di spatola della prima età del bronzo, i cui centri di produzione sono collocabili nell’attuale Svizzera, mostra che le vie di diffusione furono quelle del Reno e della Reuss, e da qui oltre le Alpi attraverso il Gottardo e lo Spluga per giungere in Italia nell’area del lago di Como e della valle dell’Adda. Le fibule italiche seguivano invece tre percorsi sud-nord:

    una sarebbe passata per il Ticino e il Gottardo; una avrebbe percorso la valle dell’Adige e valicato il Brennero o il passo di Resia; la terza proveniente dalle valli della Sava e della Drava avrebbe raggiunto la Baviera attraverso i passi di Tarvisio¹⁵.

    Già nella tarda età del bronzo e nella prima età del ferro la via dell’ambra seguiva il Brennero e la valle dell’Adige¹⁶. Per la medesima via giungeva nella Penisola anche il sale prodotto a Dürnemberg (presso Hallein a nord di Salzburg)¹⁷.

    La maggior parte dei valichi usati in epoca protostorica continuarono ad esser attraversati anche in epoca romana¹⁸ quando, a partire almeno dal III secolo a.C. si iniziò anche a ritenere l’arco alpino confine geografico dell’Italia, sebbene quello politico fosse ancora ben lungi dal giungervi. Su questa base i Romani elaborarono l’idea delle Alpi intese come barriera di protezione piuttosto che regione da conquistare, e in tal senso non deve stupire che la sottomissione delle popolazioni alpine avvenisse solamente in epoca imperiale¹⁹. Fino alla tarda età repubblicana, Roma non diede particolare rilievo ai valichi alpini poiché in caso di necessità li forzò con gli eserciti o ne acquistò diritti di passaggio dalle popolazioni locali. Solo in occasione della conquista della Gallia da parte di Cesare apparve chiaro che era necessario imporsi sulle genti delle Alpi per estendere la romanità oltre le montagne. In questa direzione si mosse Augusto nelle guerre combattute contro i Salassi e da quel momento ad ogni nuova conquista corrispose l’apertura o la sistemazione di nuovi valichi²⁰.

    Nelle Alpi Lepontine non si riscontrano tracce di percorsi romani attraverso i transiti del Sempione e del Gottardo che si affermeranno come vie privilegiate in epoca medievale. Il Sempione (2005 m) che oggi collega Milano all’alta valle del Rodano (asse Milano-Gallarate-Arona-Domodossola-Briga) secondo alcuni studiosi non venne utilizzato in epoca romana per le oggettive difficoltà di tracciato di una strada carreggiabile²¹. Il collegamento con il Vallese era tuttavia garantito da una strada proveniente da Novaria (Novara) che dopo aver toccato l’insediamento preromano (e municipio in età imperiale) di Plumbia (Pombia) per Oscela Lepontiorum (Domodossola) e la valle del Toce (valle d’Antigorio) superava l’Albrun Pass²² (2409 m) e scendeva sulla destra orografica del Rodano toccando Sierre e Sedunum (Sion) per giungere a Octodurus (Martigny)²³. Non diversamente anche per il Gottardo, che avrebbe permesso di passare dall’alta valle del Ticino (val Leventina) all’alta valle del Reno con una strada proveniente da Bellinzona, non si hanno elementi sufficienti per sostenere che venisse usato in epoca romana²⁴. Tracce di strade romane ad uso quasi esclusivamente locale sono state rinvenute ai passi di Lucomagno (1917 m) e San Bernardino (1608 m). Il primo era percorso da una difficile mulattiera che collegava Bilitio (Bellinzona) e la valle del Reno; più importante era invece la strada che da Bellinzona attraverso la val Mesolcina, dopo aver toccato Roveredo e Mesocco, superava il passo di San Bernardino e scendeva nella valle dell’Hinterrein per collegarsi a Splügen alla strada romana che proveniva dallo Spluga²⁵. Nelle Alpi Retiche il valico dello Spluga era uno dei transiti più diretti (e frequentati) tra la Cisalpina e la Raetia. Il passo è attraversato dall’asse stradale Como-Milano che utilizza il solco glaciale di Chiavenna e val San Giacomo²⁶; la strada toccava la mansio di Tarvesedo e dopo il valico quella di Lapidaria, quindi proseguiva fino a Curia (Coira) su cui convergevano la strada proveniente dal Septimer Pass e dallo Julier Pass collegati a Chiavenna da una strada per la val Bregaglia che seguiva la riva destra della Mera salendo poi verso il passo Maloia²⁷ (1815 m); poi, superati i due laghi di Sils, entrava in un corridoio naturale che conduceva allo Julier per poi scendere a Tinnenzio (Tinzen), Curia, Magia (Maienfeld), Clunia (Altenstadt) per giungere infine a Brigantium (Bregenz) sul lago di Costanza. Schmiedt osserva come le strade transalpine per lo Spluga, il Septimer e lo Julier fossero per molti tratti intagliate nella roccia e con pendenze fortissime²⁸ e rileva altresì che è lecito domandarsi se in età romana venissero utilizzati l’Albula Pass, il passo del Bernina e il passo del Forno: «poiché non sono ricordati nelle fonti letterarie o documentati da rinvenimenti archeologici di rilievo, non sembra azzardato ipotizzare che abbiano avuto scarso interesse militare e siano stati utilizzati soprattutto per le comunicazioni locali»²⁹.

    Nelle Alpi Atesine i passi più frequentati in epoca romana furono quello di Resia e il Brennero. Il primo collega la val Venosta e la valle dell’Inn ed era attraversato dalla via Claudia Augusta, mentre il Brennero era in uso sull’asse Verona-Tridentum-Augusta Vindelicorum. Sebbene in contrasto con le informazioni circa la preistorica via dell’ambra transitante dal Brennero, le evidenze archeologiche di epoca romana sembrerebbero mostrare che il tronco della Bolzano-Brennero-Veldidena sia posteriore alla Claudia Augusta. Schmiedt osserva come il raccordo della Claudia Augusta con il tronco che risale il Brennero sarebbe stato difficile sia nella conca di Bolzano sia per il superamento della gola dell’Isarco: per questo motivo solo in un secondo momento, dopo le campagne di Druso e Tiberio per la conquista di Rezia e Vindelicia, sarebbe stata costruita la strada lungo il solco dell’Isarco che conduce al Brennero³⁰.

    La Claudia Augusta aveva due distinti punti di partenza (Hostilia e Altino) e un unico punto di arrivo (il Danubio), mentre la via del Brennero toccava Hostilia, Verona, Tridentum, Pons Drusi, Veldidena, Augusta Vindelicorum. La Claudia Augusta aveva due diversi avvii poiché nel 15 d.C. Druso aveva scelto come basi logistiche per la campagna in Rezia la testa di ponte di Ostiglia e il porto di Altino, scelta motivata dal fatto che le operazioni in quella regione non erano fini a se stesse ma parte del più ampio progetto di definitiva conquista della Germania. Per questo motivo il tracciato aveva essenzialmente funzione militare ed era intagliato a mezza costa e mai in trincea onde evitare attacchi dall’alto³¹. Dal III secolo la via del Brennero fu preferita a quella per il Resia, che pure continuò ad essere utilizzata anche in epoca medievale e conobbe una significativa ripresa dei traffici nel Trecento³².

    Nelle Alpi Carniche a partire da ovest, sei passi consentono di raggiungere la valle del Gail: il passo di Monte Croce di Comelico, i passi d’Oregone, Monte Croce Carnico, Promosio e Pramolle e il valico di Camporosso. Di questi in epoca romana furono usati quelli che permettevano il passaggio delle direttrici di maggior rilievo militare, mentre gli altri continuarono ad essere usati localmente. Il passo di Monte Croce di Comelico era percorso da una strada proveniente da Bellunum che alla confluenza del Soligo nel Piave si congiungeva con un tracciato secondario (Altinum-Opitergium-Ceneta) ed era fondamentale per i traffici tra la Venezia e il Norico Mediterraneo. Il toponimo locale di strada di Alemagna e i molti resti medievali e moderni trovati mostrano l’importanza del tracciato per le comunicazioni con Vienna, Innsbruck e Lienz. Il passo di Monte Croce Carnico³³ non è indicato negli itinerari romani, ma iscrizioni sul passo ricordano la strada che lo attraversava e la stazione doganale che vi era impiantata. Oltre il valico si diramava verso nord una strada che conduceva a Castra Batava (Passau) sul Danubio e una verso sud-est per Santicum (Villach). Questa ricchezza di itinerari su entrambi i versanti fece sì che i Romani lo controllassero da vicino con la colonia di Iulium Carnicum (Zuglio)³⁴: «il valico vide certamente passare le orde dei Quadi e dei Marcomanni provenienti dal Danubio ed in seguito quelle degli Alemanni penetrati nella parte retica dell’Austria». Il valico di Camporosso (817 m) mette in comunicazione la valle del Fella con quella della Sava: le evidenze archeologiche mostrano come la strada Aquileia-Virinum passasse per la sella di Camporosso e per Tarvisio, che costituiva un nodo stradale e fluviale di notevole importanza³⁵.

    Nelle Alpi Giulie il valico più importante è quello di Piro (Hrušica), strada dal notevole valore militare da cui transitarono le legioni romane che conquistarono la Pannonia, quelle di Tiberio che sedò la rivolta illirico-pannonica e costruì una serie di strade e di fortificazioni, quelle di Domiziano che sconfissero i Daci e quelle di Traiano. L’importanza del valico decadde in età tardo antica come molte delle vie che si dipanavano da Aquileia, Concordia e Altino.

    In età romana dunque non vennero utilizzati tutti i valichi conosciuti in epoca preistorica ma solo quelli ritenuti rilevanti per le operazioni militari: la rete stradale che conduce a tali passi è mostrata dalla Tabula Peutingeriana, unico itineriarium pictum conservatosi in copia del XII-XIII secolo fino ai nostri giorni. La sua analisi mostra come la rete viaria imperiale fosse un sistema policentrico costellato di nodi stradali usati come punti di partenza per la Gallia, la Raetia, la Germania, il Norico, la Pannonia e l’Illiria. L’organizzazione amministrativa dei territori alpini in distinte province e la creazione di colonie militari su entrambi i versanti era altresì finalizzata ad assicurarsi la libera disponibilità degli itinerari e allo stesso tempo la difesa dell’Italia.

    2. Romanizzazione e cristianizzazione dell’arco alpino

    È intuibile come fosse proprio la costruzione delle strade di valico a favorire la graduale integrazione delle popolazioni che abitavano quelle regioni all’interno della civiltà di Roma. Il valore epocale della piena agibilità dei valichi, raggiunta grazie agli imponenti lavori edilizi voluti da Augusto, è pienamente compreso dal geografo Strabone, che significativamente collega la sicurezza dei percorsi stradali alpini, tracciati grazie alla grande tecnica edilizia romana in un ambiente naturale ostile, con l’assoggettamento dei gruppi etnici locali, ai quali era stato di fatto tolto il controllo dei transiti. Discendenti delle popolazioni provinciali tardoromane continuarono ad abitare le valli alpine sino al medioevo e oltre contribuendo in modo determinante alla formazione del complesso quadro etnico, linguistico e religioso dell’area su cui oggi corre il confine settentrionale italiano³⁶.

    Una riflessione sulla cristianizzazione dell’arco alpino deve necessariamente tenere conto che se con questo termine si vuole indicare l’assimilazione in profondità del messaggio cristiano con il cedimento dei residui di paganesimo nelle campagne allora è possibile parlarne compiutamente solo in riferimento alla piena età moderna.

    Lungo l’arco alpino, la penetrazione del cristianesimo fu generalmente lenta con qualche eccezione costituita dalle aree sulle vie di maggior transito. In generale le pievi sorsero allo sbocco delle valli, ove la popolazione dell’interno si recava con buona regolarità per ragioni economiche³⁷. Ad esempio in val d’Ossola tre antiche pievi si trovano a Pieve Vergonte, Domodossola e poco dopo Crodo³⁸; in Ticino a Biasca e poi Olivone, in val Mesolcina a San Vittore, a Bellinzona, per citarne alcune³⁹. Nelle Alpi Centrali e Occidentali lo sviluppo delle pievi fu più graduale, in parte per la sopravvivenza delle vie di commercio transalpino, in parte anche per il fenomeno dell’incastellamento a seguito del quale si crearono nuove giurisdizioni e si diffuse il sistema delle chiese private⁴⁰.

    In considerazione del rilevante ruolo delle popolazioni del Vallese nelle vicende dell’area in questione, è opportuno notare come la cristianizzazione del Vallese avvenisse già nel IV secolo: Teodulo, in una cronaca del V secolo, viene citato come il primo vescovo dell’allora capitale Octodurum. Nel 515, il principe burgundo Sigismondo, per celebrare il trionfo del cristianesimo fondò il monastero di Saint-Maurice-d’Agaune, nel basso Vallese dotandolo di vasti possedimenti nella regione; dopo che i Longobardi distrussero Octodurum, la sede episcopale fu trasferita a Sion. La prima citazione della Contea Vallese (Comitatus Vallisorum) risale all’epoca carolingia quando, nell’839, venne assegnata a Lotario. Nel 999 il re di Borgogna Rodolfo III concesse con prerogative sovrane ad Ugo, vescovo di Sion, e ai suoi successori, la contea in tutta la sua estensione: iniziava così il lungo dominio dei vescovi-conti di Sion direttamente dipendenti dalla corona imperiale⁴¹.

    Nell’area lombarda e ticinese la presenza del cristianesimo, inizialmente limitata alle aree urbane, si dilata a partire dal IV secolo secondo linee di flusso che essenzialmente coincidono con le vie di comunicazione. A fianco di una evangelizzazione condotta attraverso l’opera di missionari, si riscontra (e questo vale in generale per tutto l’arco alpino) la diffusione del nuovo culto dovuta alla presenza di individui convertiti e intenzionati a diffonderlo. Tra IV e V secolo, l’evangelizzazione delle campagne dell’Italia settentrionale avviene comunque prevalentemente per impulso della Chiesa di Milano attraverso l’invio di missionari e la fondazione di chiese pubbliche. Nell’epoca del vescovo Ambrogio⁴², la sua Chiesa era dunque un centro propulsore di diffusione del cristianesimo:

    accanto ad essa, svolgono la loro azione le altre grandi chiese metropolitiche: Ravenna e soprattutto Aquileia, la quale ha un ruolo notevole nella diffusione del messaggio cristiano e nell’invio di missionari⁴³.

    La fondazione di chiese vescovili in epoca ambrosiana rispondeva alla convinzione che istituzione ecclesiastica e organizzazione della vita religiosa costituissero uno strumento indispensabile per la diffusione del cristianesimo.

    Come osserva Paolo Ostinelli nell’importante studio Il governo delle anime. Strutture ecclesiastiche nel Bellinzonese e nelle valli ambrosiane (XIV-XV secolo), la conversione dei rustici non può avvenire secondo un disegno preordinato, ma si sviluppa attraverso un’azione più casuale e sporadica che porta alla formazione di isole intorno a centri di culto posti solitamente in prossimità delle più frequentate vie di comunicazione secondo dinamiche non dissimili da quelle che si riscontrano in altre regioni dell’area alpina e perialpina⁴⁴. Già nel corso del IV secolo partendo da Milano, alcuni missionari si spingono nelle zone intorno al lago di Como e sulle sponde del lago Maggiore ma la cristianizzazione assume caratteri sistematici solo tra la fine del secolo e l’inizio del successivo⁴⁵.

    In epoca altomedievale, in area lombarda e ticinese non si può supporre una

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