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Don Carlo Gnocchi: Una vita al servizio degli ultimi
Don Carlo Gnocchi: Una vita al servizio degli ultimi
Don Carlo Gnocchi: Una vita al servizio degli ultimi
E-book271 pagine2 ore

Don Carlo Gnocchi: Una vita al servizio degli ultimi

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La biografia del professor Edoardo Bressan dal titolo “Don Carlo Gnocchi” è certamente il testo su don Gnocchi più completo e con il maggior rigore storico.
«L’annuncio della beatificazione di don Carlo – scrive l’autore in premessa – aggiunge il riconoscimento della Chiesa a una vita straordinaria, che porta un giovane sacerdote impegnato nell’educazione dei giovani a condividere accanto a loro la grande tragedia della seconda guerra mondiale. L’esperienza del dolore, consapevolmente vissuta “là dove si muore”, è il seme della futura Opera di carità, che prende forma negli anni della Resistenza per poi segnare profondamente il dopoguerra con l’aiuto agli orfani dei caduti, ai mutilatini, alle vittime della poliomielite, trovando alla fine la risposta vera alla sofferenza presente nella storia».
Il volume riprende con ampie modifiche e integrazioni, la parte dello stesso professor Bressan contenuta nel volume firmato con il compianto professor Giorgio Rumi “Don Carlo Gnocchi. Vita e opere di un grande imprenditore della carità” (Mondadori, Collana Le Scie, 2002).
«La Fondazione Don Gnocchi ha impresso nel proprio modo di operare lo stigma del fondatore – aggiunge nella prefazione il presidente monsignor Angelo Bazzari -. Questa severa, documentata e agile biografia, coronamento di un lungo percorso di studi, di ricerca e di passione da parte dell’autore, sappia infondere nel lettore quello stupore creativo davanti alle cose nuove che lo spirito sa suscitare anche nelle notti oscure della vicenda umana e faccia del beato don Carlo Gnocchi un “seminatore di speranza” e un “indimenticabile maestro di vita”».
Edoardo Bressan (Tricesimo-Udine, 1953), già docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, attualmente insegna presso l’Università di Macerata. I suoi studi hanno riguardato la storia delle istituzioni sanitarie e sociali dal Settecento al Novecento sul piano nazionale e in riferimento alla Lombardia, e diverse vicende e figure della Chiesa contemporanea.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2017
ISBN9788899932022
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    Anteprima del libro

    Don Carlo Gnocchi - Edoardo Bressan

    ultimi

    I. GLI ANNI DELLA FORMAZIONE

    1. La giovinezza e il sacerdozio¹

    Anche la mia famiglia ha tanto duramente sofferto. Ma ogni volta che viene il dolore, bisogna sperimentare una forza inattesa e inaspettata che viene a sostenerci. Dio non manda mai una croce senza unirvi la grazia per sopportarla: in questo modo, scrivendo a Carlo Gasparini che aveva perduto il fratello Vittorio nell’eccidio di piazzale Loreto del 10 agosto 1944, don Carlo Gnocchi parla della sua famiglia². Non gli capita molto spesso, perché se molte delle sue lettere si sono perse egli comunque, nella sua vasta corrispondenza, fa riferimento soprattutto ai problemi e alle urgenze del momento, in particolare di coloro che egli sente affidati a sé: i giovani dell’oratorio, i militi della Legione universitaria, gli studenti del Gonzaga, gli alpini, i ragazzi della montagna del 1944-1945, e poi gli orfani, i mutilatini, i poliomielitici, in quell’opera di carità che giorno dopo giorno prende forma.

    Eppure la grande avventura di un sacerdote destinato a lasciare un segno nella storia del Novecento, il secolo breve di cui vide tutte le tragedie³, muoveva proprio dall’esperienza familiare subito segnata dalla sofferenza, con una giovane donna, sua madre, capace di vincere la disperazione e di ricominciare ogni volta. Così sarebbe stato per don Carlo, nell’incessante tentativo di dare un senso al dolore, di riscattarlo, di trasfigurarlo in una prospettiva più alta: una ricerca lunga e difficile, che doveva essere continuata sui fronti di guerra e poi su quelli dell’aiuto alle vittime.

    La famiglia Gnocchi era originaria di Gallarate, dove il padre Enrico era nato il 16 agosto 1860 e la madre Clementina Pasta il 23 marzo 1867; il loro matrimonio fu celebrato nel 1894. Per il lavoro del padre, artigiano del marmo, si trasferirono a San Colombano al Lambro, borgo in provincia di Milano situato ai piedi di una collina, ricca di vigneti, fra la pianura lodigiana e quella pavese. Era a quel tempo una terra povera, caratterizzata da una piccola proprietà contadina spesso insufficiente a garantire ai suoi abitanti un adeguato tenore di vita, ma i rapporti sociali rimanevano solidi e la pratica religiosa diffusa. Enrico Gnocchi lavorava presso una ditta e poi in proprio con un socio, mentre la moglie esercitava il mestiere di sarta, contribuendo al mantenimento dei tre figli: Andrea nato il 26 marzo 1895, Mario Carlo l’8 settembre 1899 e Carlo il 25 ottobre 1902. Il terzogenito fu battezzato il 30 ottobre da don Giuseppe Cornalba, coadiutore della parrocchia, con i nomi di Carlo, Fortunato, Domenico⁴.

    La vita della famiglia fu presto turbata dalla morte del padre per silicosi, la malattia che portava al cimitero buona parte dei marmurìn, il 9 aprile 1907⁵. Clementina Gnocchi decise di vendere l’abitazione e la propria quota dell’azienda per trasferirsi a Milano nel 1908; il figlio maggiore, sofferente ai polmoni, si sarebbe poi stabilito presso gli zii a Montesiro, frazione di Besana in Brianza, dove la famiglia si recava assai spesso. La madre poté così svolgere l’attività necessaria al mantenimento economico e badare ai più piccoli, soprattutto a Mario inviato in quarta elementare presso i Salesiani dove studiava il fratello maggiore. Si ammalò purtroppo di meningite e morì, decenne, in un’angosciosa notte d’inverno, il 29 dicembre 1909⁶. Carlo visse la sua infanzia nella piccola casa di via Gozzadini – che allora si trovava fra corso di Porta Romana e corso San Celso, poi corso Italia, parallela al naviglio di Santa Sofia, in un quartiere completamente diverso dall’attuale – frequentando la parrocchia di Sant’Eufemia, dove faceva il chierichetto e dove ricevette la cresima il 19 maggio 1910⁷. In questo periodo si manifestò il suo desiderio di divenire sacerdote, assecondato dalla madre, che preferì attendere qualche tempo per l’ingresso in Seminario, iscrivendolo al ginnasio pubblico e in seconda a quello dell’Istituto salesiano Sant’Ambrogio di via Copernico – nel nuovo complesso dei religiosi di don Bosco sorto nel cuore della Milano operaia e fortemente voluto dal cardinale Ferrari – di cui erano stati allievi i fratelli⁸. I risultati dell’anno scolastico 1914-1915 furono molto lusinghieri e in Carlo rimase vivo il ricordo di un metodo educativo improntato a concretezza e serenità⁹.

    Nell’agosto successivo egli fece la domanda per essere ammesso in Seminario¹⁰, mentre la madre si trasferiva a Montesiro dalla sorella; il 31 agosto 1915 morì il fratello Andrea e la vita del giovane Carlo e della mamma cominciava davvero a essere segnata da troppi distacchi¹¹. L’ingresso del figlio in Seminario fu un motivo di speranza per Clementina, che lo avrebbe costantemente seguito e consigliato lungo l’iter consueto: il ginnasio a San Pietro Martire in Seveso, il liceo a Monza, il quadriennio teologico a Milano. I risultati, già buoni in terza ginnasio, migliorarono in quarta e quinta, con diverse votazioni brillanti, anche in latino e greco, e qualche discontinuità di rendimento; lo stesso si verificò in liceo, con gli esiti migliori in storia politica e in storia naturale. Una brusca caduta si verificò all’ultimo anno, quando fu rimandato in italiano scritto, anche se ciò è forse da mettere in relazione al suo ruolo di prefetto presso il Collegio arcivescovile di Gorla Minore. Volle però sostenere gli esami di licenza, come privatista, presso il liceo Berchet a Milano, nelle due sessioni di luglio e ottobre, con un risultato particolarmente soddisfacente in greco e ancora in storia naturale, forse in prospettiva di un corso universitario da affrontare in un secondo momento¹².

    La sua formazione si concluse però con gli studi teologici presso il Seminario maggiore di corso Venezia a Milano, con risultati in questo caso decisamente più costanti ed elevati, al di là di alcune cadute, peraltro poco spiegabili, soprattutto in sacra eloquenza. Le materie fondamentali – teologiche, filosofiche, scritturistiche, storiche – furono comunque seguite con molto profitto, con la media finale del nove all’ultimo anno¹³. L’impostazione degli studi, soprattutto quelli superiori, del Seminario milanese era quella voluta dall’arcivescovo cardinale Ferrari e da lui tenacemente difesa contro i ripetuti attacchi degli ambienti più intransigenti dell’antimodernismo, impostazione che aveva trovato il suo momento di sintesi e insieme di proposta nel Programma dei vescovi lombardi del 1907. Le aperture più coraggiose – come l’insegnamento della sociologia cristiana affidato a figure quali Giuseppe Toniolo, Francesco Rovelli, Carlo Dalmazio Minoretti, Giacinto Tredici – dovettero essere abbandonate, ma la linea fu mantenuta anche durante gli episcopati seguenti, quello brevissimo del cardinale Ratti fra il 1921 e il 1922, fino alla sua elezione al pontificato come Pio XI, quello del cardinale Tosi dal 1922 al 1929 e poi quello del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, già abate benedettino di San Paolo fuori le Mura a Roma. Quest’ultimo riprese e portò a compimento l’idea che aveva avuto, nel 1926, come visitatore apostolico della diocesi ambrosiana: il trasferimento del Seminario teologico e liceale in un nuovo grande complesso a Venegono Inferiore, in provincia di Varese¹⁴.

    L’orientamento degli studi non mutò, rimanendo legato all’intuizione di Ferrari e al senso del suo progetto pastorale: coniugare la tradizione ambrosiana con l’affronto libero e spassionato dei problemi di una società in trasformazione, puntando sull’associazionismo dei laici, l’educazione della gioventù con un rinnovato modello di oratorio, la presenza in campo civile e politico oltre le antiche divisioni fra i cattolici, l’attività caritativa, l’inserimento nel mondo del lavoro e soprattutto dell’industria, con la creazione dei cappellani del lavoro e l’appoggio alle organizzazioni sindacali bianche. Tutto questo esigeva una profonda unità dottrinale, garantita dal rigoroso impianto tomistico dei corsi di filosofia, a partire dal liceo con il professore don Giovanni Morelli fino ai due corsi superiori – di filosofia tomistica e teologia tomistica – con Giacinto Tredici, una della figure più rappresentative della neoscolastica italiana, poi divenuto vicario generale della diocesi e vescovo di Brescia. Di analoga ispirazione era l’insegnamento della teologia dogmatica fondamentale, affidato in quegli anni a Carlo Figini, figura di grande rilievo intellettuale e dalle molte aperture, e della dogmatica speciale, con Pietro Mozzanica. Figini aveva altresì l’incarico di morale generale, al quale si affiancava l’insegnamento di morale speciale tenuto da Adriano Bernareggi, altra personalità di rilievo e futuro vescovo di Bergamo, che in quegli anni ebbe anche il corso di liturgia, aprendo in questo campo la strada a un profondo rinnovamento¹⁵. L’insegnamento della storia della Chiesa era affidato a Giovanni di Dio Mauri, con un carattere invece nettamente apologetico¹⁶.

    Il seminarista Carlo Gnocchi ebbe dunque docenti di prim’ordine e s’impegnò nello studio con indubbia serietà, accanto agli altri compiti ai quali, secondo l’abitudine, gli alunni dovevano dedicarsi. Si ha però l’impressione che non si sentisse particolarmente attratto da discipline certo fondamentali, ma che pur sempre si presentavano come un mondo chiuso: se negli scritti posteriori vi è un’eco molto pallida dei testi in uso in corso Venezia e delle opere dei suoi professori, rispetto a una grande ricchezza di citazioni dai classici della letteratura e della spiritualità, già allora egli manifestò una certa insofferenza per un clima che non sempre lo soddisfaceva, sia dal punto di vista dei rapporti umani sia da quello culturale¹⁷. Diverse testimonianze di compagni ne sottolineano il singolare e per allora non consueto interesse per la letteratura, per la storia dell’arte e per la musica che coltivava assai bene¹⁸, mentre la cordialità e l’apertura agli altri sono ricordate, dopo molto tempo, con viva simpatia. Egli era vivacissimo, scanzonato¹⁹ e da prefetto trattava bene tutti e tutti lo stimavano sia per la sua intelligenza sia per la sua verve che lo spingeva ad aiutare chiunque si trovasse un po’ in difficoltà. A chi aveva bisogno spesso diceva: «Non prendertela, è tutto più facile, te lo spiego io in poche parole». Era sempre di buon umore e quando gli dicevo: «Ma tu sei sempre allegro», mi rispondeva: «Cosa vuoi, la vita bisogna prenderla come viene»²⁰. Molto legato al padre spirituale, Gaetano Speroni, sue doti naturali apparivano la bontà, la cordialità, la gentilezza, la disponibilità. Don Carlo sapeva un po’ di tutto perché leggeva molto, e questo stimolava tutti a sentirlo con interesse e a interrogarlo²¹. Lettore davvero infaticabile, avrebbe intessuto i suoi scritti di un’innumerevole quantità di citazioni e richiami letterari.

    Di questo tenore è il ricordo del compagno di studi e coetaneo Giovanni Colombo, futuro arcivescovo di Milano e cardinale, che lo rivede sempre generoso ogni volta che occorresse un sacrificio ed un superamento del proprio comodo e del proprio egoismo e sempre così cortese, così affabile verso i suoi compagni e verso tutti, che ciascuno aveva l’impressione di essere da lui preferito. Già al termine del liceo era di una sensibilità singolare, per cui aveva un’intuizione caratteristica nel capire sentimenti altrui, nel condividere non soltanto le esigenze di chi gli stava vicino, ma anche di tutta la società: che, in quegli anni del primo dopoguerra, con sussulti andava cercando il suo assestamento²².

    Alcuni suoi componimenti del periodo sottolineano quest’ultimo aspetto, con una particolare denuncia della situazione europea al termine della Grande Guerra. Chiamato a commentare una frase di Manzoni (La vita è il paragone delle parole, e le parole che esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di tutti gli impostori e di tutti i beffardi del mondo saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrificio), il giovane seminarista la applica al dopoguerra, in contrapposizione alla lungimiranza del magistero di papa Benedetto XV. I trattati di pace e la stessa opera del presidente americano Wilson appaiono ambigui e contraddittori, perché incuranti delle sofferenze dei vinti e inclini a una pace dettata dal vincitore²³.

    In un’altra circostanza le parole sono ancora più pervase di sentimenti patriottici, introducendo un elemento destinato a incidere notevolmente sull’azione del futuro sacerdote. Il titolo del tema (Alla porta d’ingresso del nostro Seminario liceale sotto lo stemma arcivescovile si legge ancora la seguente iscrizione a caratteri rossi: Ospedale Militare di Riserva. Impressioni, ricordi, propositi) gli offre lo spunto per una descrizione a tinte forti di feriti e mutilati; ed è l’incontro con uno dei questi a colpirlo particolarmente. Il giovane mutilato sembra rammentare l’azione bellica:

    Era una notte di ferro e di fuoco! Le granate nella loro parabola infocata venivano a rimbalzare fittamente sulle scogliere del monte, con una ridda d’inferno; da lungi il 305 rombava come l’ululato della belva ignota nella foresta. I riflettori guizzavano, si rincorrevano, si cercavano colle loro scie d’argento nell’oscurità. Dopo breve fummo lanciati a un contrattacco; in capo al gruppo volavo ebbro di lotta! A un tratto mi sentii vacillare, come se un gigante mi avesse assestato un pugno sulla nuca e un forte bruciore mi invase le membra. Caddi a terra e perdetti i sensi. Del resto nulla più so.

    Alla giovane sposa affida un pensiero di consolazione: Così volle Iddio, così volle la Patria amata!²⁴.

    Al di là dell’enfasi, vi era qui un riflesso dell’intensa partecipazione della diocesi ambrosiana alla Grande Guerra, con posizioni anche piuttosto decise come quelle assunte da padre Agostino Gemelli e talora incoraggiate dallo stesso Filippo Meda, entrato a far parte del ministero Boselli. Anche alla luce dell’impegno a favore della causa nazionale della rivista Patria!²⁵, il patriottismo cristiano del cardinale Ferrari aveva per molti versi legittimato l’adesione convinta alla causa di un’Italia a cui i cattolici non si ritenevano secondi a nessuno per attaccamento. I cappellani militari venivano continuamente proposti come esempio e all’interno del Seminario si creò una rete di collegamento e di solidarietà con i compagni al fronte, attraverso le pagine de Il Nodo, dalle quali traspariva soprattutto quella sollecitudine pastorale per i soldati e quell’attenzione al loro sacrificio che tanta parte avrebbero avuto nella vita di don Carlo, cappellano militare in circostanze ben più difficili dal punto di vista patriottico e religioso²⁶. Non si può comprendere questo aspetto della sua vita e della trasfigurazione poetica che emerge in Cristo con gli alpini senza riandare a un giudizio in cui l’amore per la cara Patria²⁷, scossa dai turbamenti del dopoguerra e incompresa dalle grandi nazioni, ha un peso molto importante per i sentimenti e per le convinzioni etico-politiche. È un sentire che precede e attraversa il fascismo e attraverso il quale i sacerdoti possono vivere fino in fondo la vita del popolo, fatti carne e sangue con la propria gente, attori di primo piano in questo dramma immane che dà allo spirito questa pienezza vitale, questa socialità gioiosa e questa coralità immensa²⁸.

    Sono parole – tratte da uno degli scritti dal fronte greco-albanese confluiti nella prima edizione di Cristo con gli alpini – che rappresentano una chiave per comprendere gli inizi del ministero sacerdotale di don Gnocchi a diretto contatto con l’esperienza parrocchiale, prima ancora di diventare direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga e cappellano delle organizzazioni giovanili del regime e dei reparti alpini. La prima tappa fu quella di Montesiro, sua residenza per tutta la durata degli studi in Seminario, dove si era sempre recato per le vacanze e dove, soprattutto nel corso dell’ultimo anno di studi, trascorse diversi periodi per motivi di salute; qui celebrò la prima messa il 6 giugno 1925, giorno dell’ordinazione sacerdotale conferitagli nel Duomo di Milano dal cardinale Tosi²⁹. A Montesiro don Carlo – partecipe della vita del paese e legato alla famiglia Prinetti – aveva fin da ragazzo collaborato all’attività di una parrocchia vivace, conservando un grato ricordo del giovane vicario don Luigi Ghezzi, animatore di una vita religiosa buona sì ma un po’ meccanica e tradizionale che si ridestò a forme agili, moderne e coscienti. Il decoro del culto divino, il canto sacro, l’istruzione del piccolo clero, l’abbondanza della predicazione e della frequenza ai Sacramenti rappresentarono i caposaldi della ripresa, pronta e vigorosa. Come un fuoco cui venga data l’esca abbondante di una bella e asciutta fascina. Ma il segreto e l’arma della vittoria furono nel rilancio dell’associazionismo e in particolare dell’Unione Giovani, che don Luigi seppe costruire legando a sé i ragazzi nel momento cruciale della loro vita, quando la fede minaccia di incrinarsi nell’urto col mondo scettico e corrotto. Molti i frutti, nella formazione delle coscienze cristiane, nella vita delle famiglie e nelle coraggiose opere parrocchiali, le conferenze popolari di cultura, le attività sindacali per la tutela degli operai, contro la concorrenza avvelenatrice dei rossi, le manifestazioni religiose, i congressi, le rappresentazioni e, in tempo di guerra, l’assistenza ai richiamati e alle loro famiglie³⁰.

    Nel suo primo incarico pastorale, quello di coadiutore presso la parrocchia di Santa Maria Assunta a Cernusco sul Naviglio, don Gnocchi s’ispirò a questo modello, in piena sintonia con la tradizione ambrosiana. L’impegno maggiore fu rivolto alla cura dei giovani, con la promozione di iniziative e di gruppi all’interno dell’oratorio, fino a un’Associazione Amici dell’Oratorio per sostenerne le attività: un’intuizione anticipatrice, che avrebbe poi seguito tutti gli sviluppi dell’opera di carità dopo la guerra. La memoria di questo suo primo apostolato rimase viva a Cernusco, come per esempio emerge dalla testimonianza di una delle persone che gli furono vicine, Clemente Gironi, che si sofferma sui risultati più salienti: la sezione aspiranti dell’Azione Cattolica divenuta una delle più numerose della diocesi, l’Associazione Amici dell’Oratorio che coinvolse quasi tutte le famiglie del paese, il teatro, la cura della liturgia. Ma al centro è soprattutto la persona di don Carlo: Incantava tutti col suo sorriso e con la sua cordialità, si fermava a chiacchierare con la gente, in particolare con i ragazzi, visitando i malati e le famiglie povere³¹. Il bollettino della parrocchia, Voce Amica, salutò l’operaio in più nella Vigna del Signore, augurandogli buon lavoro tra i folletti dell’Oratorio³² e seguendone la frenetica attività nei mesi successivi, molto apprezzata dal prevosto Giuseppe Toselli³³.

    L’anno successivo – nel quadro di avvicendamenti tanto rapidi quanto normali, soprattutto nei confronti di giovani sacerdoti promettenti – don Gnocchi fu nominato, il 22 giugno, coadiutore presso la popolosa parrocchia cittadina di San Pietro in Sala, in piazza Wagner, fuori Porta Magenta, allora retta dall’energica figura di monsignor Giuseppe Magnaghi. La realtà sociale che don Carlo incontrò era ancora quella di una periferia urbana, in una città che stava velocemente espandendosi, molto composita riguardo alla condizione sociale dei suoi abitanti; anche qui don Carlo è destinato soprattutto all’attività dell’oratorio, all’interno del quale per prima cosa si occupa dei più piccoli con la creazione del Piccolo Oratorio Don Bosco, insieme al compagno di studi e amico don Carlo Dameno, che lo avrebbe accompagnato negli ultimi momenti della sua esistenza³⁴. Con i ragazzi e i giovani dell’Azione Cattolica diede vita a numerose iniziative culturali, teatrali, sportive, alpinistiche, come pure a gite e viaggi, al di là di quanto normalmente si faceva, in un’effettiva unità d’intenti dei due giovani sacerdoti³⁵.

    L’amico Armando Mantovani, la cui madre era assai legata a quella di don Carlo, ne ricorda la dedizione, bambino tra i bambini, giovane tra i giovani, unita a una grande attività e alla passione per il teatro e la musica: Egli attirava i giovani con la bontà e la simpatia e senza mai risparmiarsi³⁶. Da eccellente alpinista compì con i suoi ragazzi numerose e spesso notevoli escursioni, creando un clima di amicizia che si esprimeva nella consuetudine dei rapporti personali – destinati a durare nel tempo – e nelle interminabili serate trascorse insieme³⁷.

    Giuseppe Natale ne sottolinea la simpatia umana e l’anticonformismo, anche nei confronti della figura di Mussolini, oggetto di ripetute ironie, mentre i balilla e gli avanguardisti del gruppo rionale Baracca – di cui era divenuto, come si vedrà, assistente – la domenica venivano portati in chiesa per la messa tutti inquadrati in divisa. Don Carlo – che abitava presso la canonica con la madre, in quel periodo già ammalata ai reni – era anche molto aperto alla realtà sociale, secondo le indicazioni della diocesi e in un momento di grave crisi economica. La scuola di carità per i suoi giovani consisteva anche nelle visite al Piccolo Cottolengo milanese voluto da don Orione, di cui divenne amico, in via Caterina da Forlì nel territorio parrocchiale: fu probabilmente questo il primo impatto coi derelitti e la prima idea di una futura opera caritativa³⁸. La testimonianza di un religioso dell’Opera di don Orione è al riguardo importante, proprio per aver conosciuto don Gnocchi mentre era coadiutore a San Pietro in Sala, sotto la guida di Mons. Giuseppe Magnaghi che aveva per don Carlo una particolare predilezione, tanto che disse diverse volte «starà qui poco don Carlo … ». Allora e anche negli anni successivi del Gonzaga don Gnocchi visitò spesso il Piccolo Cottolengo, al punto di esprimere più tardi il desiderio di entrare nella congregazione orionina³⁹.

    Dall’inesauribile attività di questi anni nacquero le conferenze tenute per la Federazione oratori milanesi, poi raccolte in volume nel settembre del 1934⁴⁰. Esse fecero conoscere la figura di don Gnocchi all’opinione cattolica di Milano, al di là dei cooperatori oratoriani cui erano destinate; nel loro carattere indubbiamente occasionale e vario, pieno delle citazioni più disparate e spesso non controllate, emergeva uno stile accattivante, teso a cogliere la concretezza dei problemi educativi e l’esigenza di rilanciare uno strumento prezioso quale l’oratorio, al cui centro egli poneva, con

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