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L'obiettivo vien viaggiando
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E-book279 pagine4 ore

L'obiettivo vien viaggiando

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Info su questo ebook

Un libro tratto da una storia vera.
Le avventure intorno al mondo di un giovane ragazzo
con tanta voglia di vivere,
raccontate attraverso ricordi ed emozioni.
Un invito a non lasciare mai i sogni nel cassetto e 
a raggiungere i propri obiettivi,
perché con coraggio e determinazione si possono realizzare.
La continua sfida con sé stesso
e la dolce speranza, al suo ritorno,
di una grande storia d’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9788830677043
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    Anteprima del libro

    L'obiettivo vien viaggiando - S. P.

    Copertina-LQ.jpg

    S.P.

    L’obiettivo

    vien viaggiando

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6907-9

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    L’obiettivo vien viaggiando

    Prefazione

    volere è potere

    Sono un ragazzo 35enne, nato a Trani, una bella città della Puglia, piacere di conoscerti!

    Non sono uno scrittore, ma ho voglia di raccontare, in maniera semplice e schietta quale sono io, la mia storia.

    Dopo aver conseguito il diploma all’istituto alberghiero

    i.p.s.s.a.r.

    di Molfetta, all’età di 20 anni, ho deciso che era arrivato il momento di imparare l’inglese.

    Detto. Fatto. Da luglio 2007 a febbraio 2010 ho visitato, in maniera consecutiva, moltissimi Paesi: Irlanda, Inghilterra, Spagna, Australia, Nuova Zelanda, Tasmania, Cina, America, Canada, Brasile, Norvegia, Germania, Giappone, Vietnam, Thailandia, Nepal, India.

    Dopo questo giro del globo, sono tornato in Italia, e ho cominciato a scrivere le mie avventure, senza però terminarne il racconto. Seppure i ricordi di quegli anni rimarranno per sempre nella mia testa, giorno dopo giorno, ho iniziato a rendermi conto che alcuni dettagli si stavano affievolendo, con il rischio di perderli per sempre, così ho deciso di riprendere quello che avevo cominciato nel 2010 e, a distanza di dodici anni, nel 2022, di terminare ciò che avevo iniziato molti anni fa. L’intento di questo libro non è quello di fare un resoconto di quanto ho vissuto, ma di lasciare una testimonianza concreta, un messaggio importante: tutti – e ripeto tutti – siamo in grado di realizzare i nostri obiettivi, con tenacia, volontà e un pizzico di coraggio, utili a superare prima le nostre paure e resistenze per compiere il primo passo, e poi le difficoltà che inevitabilmente si presentano.

    Nel mio caso, il primo obiettivo è stato quello di imparare una lingua nuova. Viaggiando ne ho realizzati molti altri, in maniera non sempre semplice.

    La cosa peggiore per me?

    Lasciare ciò che mi era più caro: la mia famiglia, il mio amore – ma credetemi, se è vero amore, lo sarà per sempre – i miei amici, il mio lavoro, la mia città e la mia cara amata Italia.

    Ma ne è valsa sicuramente la pena!

    Capitolo 1

    e dopo le superiori?

    Tutto comincia così. Durante il mio 4° anno all’istituto alberghiero, mi viene data l’opportunità di fare uno stage formativo a scelta, o nella mia città o fuori. Ovviamente, spinto dalla curiosità e dalla voglia di scoprire che mi contraddistingue fin da piccolo, tra le varie possibilità decido di andare fuori e scelgo la Toscana, precisamente all’

    adler Thermae

    , un albergo a 5 stelle a Bagno Vignoni, un piccolo paese che conta una cinquantina di abitanti.

    Lo stage dura poco, due settimane, ma è un’esperienza bellissima.

    Durante l’anno scolastico successivo, la scuola ripropone un altro stage formativo per il mese di dicembre, ed io che mi ero trovato benissimo con quelle persone con cui avevo lavorato l’anno prima, decido di ritornare nello stesso posto. Un’ottima idea, perché nuovamente mi trovo benissimo e anche loro altrettanto, al punto che, in primavera, vengo contattato da Marco, il primo barman dell’hotel, che mi chiede che intenzioni avessi terminata la scuola. Mancavano tre mesi alla maturità e io non avevo ancora pensato a niente di tutto ciò, ma senza rifletterci troppo accetto la sua offerta: tornare in un resort 5 stelle, con un buono stipendio e una buona atmosfera lavorativa mi sembrava già un’ottima occasione per me, poi avrei avuto sempre tutto il tempo per riflettere sul futuro.

    Ed eccomi lì di nuovo – tre giorni dopo aver dato gli esami della maturità – in un bellissimo albergo con piscina termale, con una sala da 200 persone al giorno, con un pianista per l’aperitivo e il dopo cena, saune e aree relax, un vero e proprio paradiso, dove io lavoro come barista e mi diverto, rido e scherzo con le stesse persone conosciute l’anno prima. Dopo qualche mese però, comincio ad avere una sensazione di disagio dovuta dalla difficoltà linguistica che incontro ogni volta che mi approccio ad un cliente straniero, in poche parole un problema dovuto al fatto che non conosco l’inglese. Riesco a comprendere cosa chiedono i clienti, ma non vado oltre. Vedo i miei colleghi interagire, scherzare, fare battute con loro, mentre io non ne sono in grado. Sul mio lavoro sono bravo e apprezzato, ma non mi basta. So anche che non parlando l’inglese non potrò fare avanzamenti di carriera. Decido così di rimediare subito, perché non riesco a sopportare quella sensazione di disagio, e la mia voglia di migliorare comincia a venir fuori. Mi informo sui corsi di lingua inglese in Italia, sento parlare di progetti di vacanza-studio, lavoro-studio o addirittura mi dicono esista la possibilità di essere ospitati da una famiglia a patto di fare qualche lavoretto domestico o baby-sitting, tutto tramite agenzia e con un investimento economico iniziale che non ho.

    Tutto questo faceva terminare i miei pensieri in un’unica soluzione: andare all’estero all’avventura, il modo migliore, con meno sforzi e investimenti iniziali per imparare la lingua.

    Non era una decisione facile da prendere, considerando che avrei dovuto lasciare un lavoro sicuro, la mia famiglia – che pur non essendo accanto a me, era a una distanza accettabile – , ma soprattutto, avrei dovuto lasciare lei, Eleonora, la ragazza appena arrivata al ricevimento. L’avevo notata subito: capelli lunghi castani, occhiali neri, occhi verdi e un sorriso luminoso, mi piaceva molto, e grazie a Sheila, collega in comune, riusciamo a presentarci, e in quel momento, nonostante fossi dietro al bancone, c’eravamo solo io e lei, lei ed io. Dopo il solito Piacere, io che timido non sono, aggiungo subito che la trovo bellissima e che vorrei uscire con lei. Ricevo in risposta un secco No, e deluso continuo a lavorare, servendo gli ospiti. Non smetto però di guardarla, so sempre dov’è, cosa fa, e ogni giorno, quando sale in cucina, casualmente mi trova nel retro bar, ma non ci diciamo nulla, solo uno scambio di sguardi.

    Io vivevo in albergo e una sera, durante un mio giorno di riposo, dopo cena riesco a bere un caffè con lei. Ho sempre più forte la sensazione che quel no detto qualche settimana prima non sia definitivo. Pian piano le settimane scorrono, scambiavamo poche battute di tanto in tanto e ognuno rimaneva al suo posto. La stagione lavorativa però stava giungendo al termine, così, curiosi l’uno dell’altra, ci facciamo sempre più domande, compreso cosa avrei fatto alla fine della stagione. Incerto nella risposta, dico che non ero sicuro di rimanere a lavorare in quell’hotel.

    Anche se ancora con qualche dubbio, e con il pensiero di non poter vedere tutti i giorni Eleonora, decido di partire, senza sapere che la parte più difficile doveva ancora arrivare. La decisione più importante infatti era stata presa nella mia mente, ma mancava tutto il resto: il lavoro, dove andare, cosa fare, da dove partire, come organizzarsi. Si apre il vuoto davanti a me. Senza scoraggiarmi, rifletto sul fatto che posso chiedere aiuto a chi prima di me aveva già fatto qualcosa di simile, e chi meglio dei miei colleghi, a partire da Marco? I loro consigli sono più o meno gli stessi: prendere contatto con qualcuno – parente o amico – che si trova già nel Paese in cui ci si vuole recare, ma io purtroppo non avevo nessuna conoscenza al di fuori dell’Italia, e avere – cosa importante – un buon curriculum! Feci del mio meglio per stilarlo nel miglior inglese possibile. Intanto in quel retro bar facevo di tutto per scambiare due parole con Eleonora. Le avevo detto della mia intenzione di andare all’estero, tutto era un buon motivo per parlarle con lei. E ormai tutti avevano capito. Guarda caso, ogni volta che lei era nel retro, io volevo fumare o fare cinque minuti di pausa. Guarda caso, al bar non c’erano mai penne – anche se ne avevamo tantissime – e bisognava andare a prenderle al ricevimento. Guarda caso, anche se non mi piacevano, avevo sempre voglia di una caramella messa lì sul banco del ricevimento per i clienti. Guarda caso, nel suo caffè c’era sempre un cuoricino con il latte. L’unica cosa poco chiara era perché, nonostante avesse piacere di parlare con me, ogni volta che le chiedevo di uscire a cena aveva sempre una scusa buona per rifiutare. Ma mi piaceva tanto, ed io non mollavo.

    Nel frattempo rimaneva il grande dubbio sul Paese da scegliere. America? Troppo difficile avere un visto lavorativo. Canada? Troppo fredda. Australia? Troppo lontana come prima esperienza all’estero. Rimanevano l’Inghilterra, ma non mi convinceva per qualche motivo, e l’Irlanda, dove era stata la mia collega Claudia che me ne aveva parlato bene. Comincia a diventare un mantra che ritorna nella mia mente: …Irlanda… Irlanda… Irlanda… Così, prenoto con Ryanair senza altri indugi un volo per Dublino con data 8 gennaio 2008. E poi comincia la ricerca di un letto per i primi giorni, o settimane o mesi, chissà. Non conoscendo la città decido di individuare una delle strade principali e cercare un ostello nei dintorni: prenoto all’Avalon Hostel. Da quel giorno, non penso più a nulla, ma cresce in me l’ansia per l’incertezza totale verso cui sto andando: senza un lavoro, senza un amico, ma soprattutto – cosa che mi spaventa di più – senza sapere una parola di inglese!

    Qualche giorno dopo la mia prenotazione, o meglio, il mio gesto di incoscienza, chiedo per l’ennesima volta ad Eleonora di uscire. Anche stavolta c’è una scusa, ma anche un’occasione: mi dice che un paio di giorni dopo avrebbe avuto il pomeriggio libero e sarebbe andata a portare il gatto a lavare.

    Il gatto a lavare??? Ma che razza di primo appuntamento è questo? penso tra me e me, ma è l’unica possibilità finora presentatasi e ovviamente accetto subito di accompagnarla. Dopo aver chiesto un cambio turno di salvataggio, riesco a uscire con lei, giornata strana considerando che dietro avevamo Tino, il suo gatto bellissimo che ogni tanto dal portabagagli della macchina lanciava un bel miagolio. Gatto pulito e lavato, è ora di riportarlo a casa e rimanere un po’ da soli. Non abbiamo finito da nessuna parte in particolare la serata – niente cinema, pizza, ristorante, niente di che – ma siamo stati un sacco a chiacchierare, e tra una chiacchiera e l’altra, Eleonora confessa di aver sì avuto un sacco di cose da fare, ma che non era uscita con me perché non era interessata a dare priorità ad un ragazzo che da lì a poco sarebbe partito per l’Irlanda con un biglietto di sola andata, anche se condivideva pienamente la mia scelta di andare all’estero. Nonostante tutto, la serata va benissimo e nei giorni successivi continuiamo a scambiarci sms. Usciamo però solo un’altra volta, perché era il mese di dicembre ed era un periodo lavorativo intenso per entrambi. E poi arriva il 7 gennaio, giorno della festa organizzata per i dipendenti dell’albergo alla fine della stagione lavorativa, l’ultima occasione per stare con lei prima della mia partenza. Lei è bellissima come sempre, uno sguardo da farmi perdere il fiato, con quel sorriso che sembra stampato da non so chi in un modo perfetto. Non siamo seduti allo stesso tavolo, ma i nostri sguardi si incrociano continuamente, il vino è in circolo e, dopo esserci incontrati in pista per qualche ballo, la serata giunge al termine. Avevo salutato tutte le persone a me care, ma mancava lei. È tarda notte e mi accompagna con la sua auto in hotel, eravamo nel garage e provavo emozioni contrastanti, un mix assurdo di passione, paura, gioia, tristezza, non facile da dimenticare, tanto quanto la scena del nostro saluto finale. Indimenticabile e straziante, tanto che, dopo essere sceso dall’auto in lacrime, non le ho più rivolto lo sguardo per non vedere lei che si allontanava da me. Arrivo in camera e subito ci scambiamo dei bei messaggi di auguri e di buon auspicio, tutti ricchi di speranza. Vado a letto, le valigie erano già pronte in macchina, mi restavano solo due ore per riposare, ed ero spaventato per la partenza. All’aeroporto di Roma trovo il mio papà, che nonostante non fosse favorevole alla mia scelta di partire, aveva accettato di incontrarmi a Roma per prendere la mia macchina e riportarla a Trani. Dopo un abbraccio, qualche lacrima e le classiche raccomandazioni, gli chiedo di rassicurare la mamma, che non capiva perché il figlio ventenne andasse all’estero, ma che riponeva sempre anche tanta fiducia in me. Un ultimo abbraccio, una pacca sulla spalla e via, sono pronto ad oltrepassare le porte dell’aeroporto, pronto a fare il check-in, destinazione Dublino.

    Ero arrivato lì con due ore di anticipo, tempo minimo richiesto dalla compagnia aerea: minuti tremendi, tutto il tempo necessario per farti passare per la testa pensieri che mai avresti fatto, con uno sbalzo di sensazioni, dai più tristi ai più dolci. Principalmente avevo un pensiero fisso in testa, ovvero chi me lo ha fatto fare?. Stavo così bene lì, stavo così bene con Eleonora!

    Salgo sull’aereo, il viaggio sarà durato 3 ore e mezza, che ho trascorso tutte piangendo, sempre con gli occhiali da sole a coprire i miei occhi pieni di lacrime. Ma quando sento annunciare dallo speaker che il nostro atterraggio sarebbe avvenuto tra meno di 10 minuti, ecco che un’altra sensazione prevale in me. Come se nulla fosse, tutta la malinconia era passata, tutta la tristezza, tutti quei pensieri cupi. Ecco che sale la paura, una paura tremenda dovuta dall’incertezza. Non sapevo nemmeno come arrivare all’ostello, non sapevo nemmeno come chiedere informazioni, non sapevo niente di niente, avevo solo preparato qualche frase in aereo con il mio caro vocabolario di inglese e basta. Dopo un profondo respiro però, ero pronto, pronto ad affrontare questa mia nuova esperienza.

    Capitolo 2

    dublino: che la sfida abbia inizio

    Ero arrivato di mattina presto, le strade erano pulite e in giro c’era un sacco di gente, fortunatamente! In quel momento avevo bisogno di essere circondato da persone per non sentirmi troppo solo. Passata la dogana, esco dall’aeroporto carico delle mie valigie che pesavano più di 30 chili, e la prima cosa che noto sono i famosi bus a due piani rossi che avevo visto solo nei film. La seconda sono i cartelli stradali, ahimè, solo in inglese e irlandese, per me incomprensibili.

    Anche lo speaker dell’aeroporto parla inglese, e comincio a sentirmi frastornato, senza sapere bene cosa fare. Con prenotazione alla mano chiedo – chiedere è una parola grossa! – sarebbe meglio dire faccio vedere ad un uomo il foglio del posto che stavo cercando e lui mi risponde indicandomi la fermata e dicendomi dei numeri, quelli del pullman che dovevo prendere. In quel momento preciso, mentre lui dava i numeri, io non capivo nulla e mi scorrevano davanti tutti gli anni scolastici, tutte le ore di inglese buttate via, insieme al rimpianto di non essere stato attento alle lezioni. A scuola sembra tutto chiaro, ogni numero è ben scandito, ma una volta lì tutto cambia, i numeri sembrano diversi, pronunciati in un altro modo, e capisci che la scuola è una cosa, la realtà è un’altra. Di buon cuore l’uomo prende una penna e mi scrive su un foglio il numero che stava cercando di farmi capire. Dopo qualche minuto arriva il bus, salgo, e insieme a me anche tantissime persone. Mi posiziono al centro e noto che l’autista urla qualcosa. Anche se non sale più nessuno, il pullman non parte, e l’autista continua a gridare verso noi passeggeri. Naturalmente non capisco il perché, non capisco nulla di quanto dice, a chi si riferisca, e a un certo punto mi dico a bassa voce: «Chissà a chi si rivolge?!». Accanto a me una ragazza risponde in italiano: «A te! Sì, proprio a te!». Per farla breve, per l’autista i miei bagagli erano troppo ingombranti e quindi dovevo scendere.

    Provavo un grande senso di vergogna. Non avevo capito che l’autista si riferisse a me. E appena sceso, chiude le porte e parte, lasciandomi nel vuoto assoluto, nella disperazione della solitudine. La baraonda degli arrivi era finita, ed io ero rimasto lì da solo. Mantengo la calma e decido di rimanere fermo lì, pensando che sicuramente ne sarebbe passato un altro. Fortunatamente dopo appena 15 minuti arriva un altro pullman con lo stesso numero, salgo facendo finta di nulla, indico il posto in cui dovevo andare, questa volta non c’era tanta gente, quindi i miei bagagli non davano noia a nessuno e l’autista gentilissimo mi fa intendere che mi avrebbe aiutato lui. Finalmente mi tranquillizzo. Arrivato alla fermata, l’autista mi fa cenno di scendere e cerca di darmi indicazioni sulla direzione da prendere. Le valigie erano pesanti, e credo di aver fatto cinque o sei volte la O’Connell Street, la via principale di Dublino, con nessun risultato. Dopo un’ora e mezza senza riuscire a trovare l’ostello, esausto, decido di cambiare strategia e fermo un taxi per farmi portare a destinazione. In realtà mi trovavo poco distante dalla mia meta.

    In ostello trovo al ricevimento una ragazza gentile per il mio primo check-in, e una volta preso il passaporto per la registrazione, mi chiede il motivo del soggiorno, ma in italiano. Non potevo crederci, e io che volevo fare il figo gli rispondo con un inglese improvvisato una cosa del genere: «To make my English». E lei, ridendo, mi risponde: «Vorrai dire to learn English», ecco appunto! Dopo la figuraccia, le faccio qualche domanda mirata sulla città, su come cercare casa e lavoro, e lei mi spiega che senza conoscere nemmeno una parola di inglese sarebbe stato quasi impossibile cercare casa e ancora più difficile trovare lavoro, soprattutto senza essere in possesso di un numero seriale indispensabile per i datori di lavoro che veniva rilasciato in un ufficio preposto. Mi consiglia quindi di allungare la mia prenotazione – avevo prenotato solo per altre quattro notti –, di fare ricerche su internet e andare di persona a lasciare i curriculum.

    Prendo le mie chiavi, ringrazio per i preziosi consigli e vado in camera. Avevo scelto una camera con 4 posti letto, ma non avrei mai pensato che le dimensioni della camera fossero veramente solo per 4 posti letto, 2 al piano inferiore e 2 sul soppalco. Entro e trovo un ragazzo, lo saluto e lui fa gli onori di casa, mi indica il letto libero e appoggio la mia roba sul letto, visto che sarà anche il mio armadio. Esclamo qualcosa in italiano, e anche lui mi risponde in italiano! Cominciamo subito a chiacchierare, lo riempio di domande perché chiedere informazioni a quante più persone possibili mi sembrava la cosa migliore da fare. Scopro però che lui era in ostello da due mesi e ancora non era riuscito a trovare né una casa né un lavoro. Non era forse la persona giusta a cui chiedere consigli. Prendo comunque nota dei siti per trovare la casa di cui mi parla. Nel frattempo sento al telefono un’amica che mi aveva chiamato per sapere come stessi e a cui racconto le mie prime sensazioni, e poi chiamo la mamma, con cui sono scappate anche due lacrime. Erano già le sei di sera e tutte quelle emozioni mi avevano stremato, non riuscivo più a provare niente. Tristezza, angoscia, paura erano svanite. Esco per andare a mangiare qualcosa nel primo posto che trovo, prima di crollare a letto, sapendo che il giorno dopo, già di buon mattino, mi sarei messo alla ricerca di una scheda telefonica irlandese. Mi avevano detto che i datori di lavoro non chiamano mai un numero straniero, e allo stesso tempo con una scheda del posto avrei risparmiato sulle chiamate per cercare casa.

    Il giorno dopo, sveglia alle otto e colazione. Anzi, colazione-pranzo: panini, toast, succhi di frutta, marmellate e tutto quello che era incluso – compreso quel formaggio arancione che non avevo mai visto –, perché dovevo risparmiare il più possibile. In sala sentivo un sacco di voci straniere, ma riconoscevo benissimo chi parlava italiano. Una strana sensazione, come di essere settato sulla ricezione di un’unica frequenza. Avrei potuto sedermi al tavolo con loro e avere un po’ di compagnia, ma ero lì per imparare la lingua, e quando l’intento è quello, meglio non frequentare i proprio connazionali. Questo è un altro di quei consigli di cui feci tesoro e che confermo essere prezioso. In sei mesi a Dublino, infatti, non ho mai avuto un italiano per amico.

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