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Lo stivale d'oro di Istanbul
Lo stivale d'oro di Istanbul
Lo stivale d'oro di Istanbul
E-book330 pagine7 ore

Lo stivale d'oro di Istanbul

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LO STIVALE D’ORO DI ISTANBUL (Potere, amore e morte fra Italia e Turchia)

Parla la protagonista. Mi chiamo Lisa, sono un’insegnante, ho 28 anni e non conosco mia madre. Non so se fosse bella o brutta, bionda o bruna, perché non l'ho mai vista nemmeno in fotografia. Sono nata a Istanbul da un italiano e una levantina regolarmente sposati, ma ho sempre vissuto a Treviso con mio padre. Non posso parlare di lei né fare domande; non so nemmeno come sia morta o dove sia sepolta. Adesso basta. Andrò a Istanbul dove lavorerò al Liceo Italiano e, spero, troverò delle risposte.
Sullo sfondo di una città esotica e accattivante, Lo stivale d’oro di Istanbul mette in scena un intreccio di colpi di scena, amore e avventura, ma soprattutto il percorso di crescita di una donna che deve imparare a fare i conti con il passato, tragico, della sua famiglia. Il genere tende al giallo, anche se non risponde tanto alla domanda:”Chi è il colpevole?”, quanto piuttosto: ”Qual è veramente l’entità della sua colpa ?”.
È il retaggio familiare a spingere Lisa ad accettare un posto come insegnante di lettere nel prestigioso liceo italiano di Istanbul, sfidando l’opposizione del padre che ha sempre cercato di tenerla lontana da quella città. Il suo scopo è raccogliere informazioni sulla madre che lì è vissuta e morta, ma di cui lei non sa nulla.
Da quanto riesce a sapere, Lisa scopre una donna molto più fragile di quella che ha immaginato per tanti anni, così fragile da aver bisogno di un supporto psicologico. Su questa pista Lisa si avvia per approfondire le indagini su di lei, con l’aiuto di qualcuno e la fredda ostilità di altri. Alla storia della ragazza si intreccia quella dei suoi genitori con una quotidianità di violenza psicologica.
Nella nuova città dove lavora, e di cui presto si innamorerà, la protagonista frequenterà italiani, turchi e levantini, a cominciare dai suoi alunni, con cui intreccerà rapporti che finiranno per cambiare le sue prospettive e il suo destino. Nello stesso tempo sarà costantemente occupata a risolvere i misteri che incombono sulla sua famiglia, che non presentano certo facili soluzioni.
Il bandolo della matassa sembra essere un prezioso manufatto chiamato Lo stivale del sultano, nel cui nome sono riassunti simboli italiani (stivale) e turchi di potere maschile (sultano). Istanbul è coprotagonista.



 
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2014
ISBN9786050312744
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    Anteprima del libro

    Lo stivale d'oro di Istanbul - Elsa Zambonini Durul

    introduzione

    Lo stivale, che conosceremo come lo stivale del sultano , incarna almeno tre concetti: Italia, Turchia e potere maschile. Il romanzo tratta infatti vicende che mettono in contatto italiani, turchi e levantini. L’idea del potere, che lambisce presidenti e sultani, è principalmente trattata nel suo significato più domestico: il rapporto fra un marito-padrone e una donna che è tanto maggiormente esposta alla sua repressione, quanto più è colta e capace.

    Sullo sfondo di una Istanbul esotica e avvolgente, attraverso un intreccio di colpi di scena, amore e avventura, si snoda il percorso di crescita di una donna che deve imparare a fare i conti con il passato, tragico, della sua famiglia.

    È il retaggio famigliare a spingere Lisa ad accettare un posto come insegnante di lettere nel liceo italiano dell’antica capitale ottomana, sfidando l’opposizione del padre. Il vero scopo del suo viaggio in Turchia è di scoprire perché lui l’abbia tenuta nella più totale ignoranza a proposito della moglie, deceduta a Istanbul quando lei era poco più che neonata.

    A Istanbul, in modo inaspettato, riesce a raccogliere dettagliate informazioni sulla sua famiglia di origine e così si delineano davanti ai suoi occhi delle immagini sulla vita famigliare dei genitori che la sconvolgono. Lei tenta di chiedere spiegazioni al padre ma questi, lungi dal chiarirle le idee, si rende più indisponibile che mai.

    Lisa con dolore è costretta a rivedere il suo affettuoso rapporto col genitore superstite e il suo disagio aumenta man mano che gli indizi si accumulano, fino a che, privata delle sue radici, si trova ad affrontare una vera e propria crisi d'identità.

    Dopo molti colpi di scena, fatti i conti col passato, Lisa resterà a Istanbul, città che si è indelebilmente insinuata nel suo destino e nel suo cuore.

    ELSA ZAMBONINI DURUL

    Nasce a Belluno dove lavora per qualche anno in un istituto previdenziale e poi, laureatasi, insegna lingua inglese nella scuola statale. Dopo il matrimonio con cittadino turco si trasferisce a Istanbul e qui prosegue la sua attività didattica per qualche anno al Liceo Italiano, esperienza che ha riversato nel romanzo. Esperta di astrologia (scuola Morpurgo) e amante dei viaggi culturali ed esotici, è profonda conoscitrice della cultura turco-levantina e della realtà di Istanbul, dove risiede tuttora. Appassionata da sempre di scrittura, esprime la sua vena creativa, oltre che con romanzi, anche collaborando con racconti di viaggi a LaGazzetta di Istanbul: mensile del Circolo Roma, associazione culturale-ricreativa della comunità italiana in Turchia.

    La storia di Lisa prosegue nel romanzo Istanbul - il viaggio sospeso.

    Capitolo 1

    La città indicata nella nota della Farnesina è la stessa citata in tutti i miei documenti d’identità: Istanbul. Per la verità è solo una della rosa di due o tre proposte che per altre persone sarebbero forse più allettanti; ma per me cancella tutte le altre, e il dubbio sulla scelta non mi sfiora nemmeno. È un luogo per me ignoto, anche se sono una discreta viaggiatrice e benché vi abbia mangiato, dormito, respirato per quasi un anno che, essendo il primo della mia vita, non ha lasciato in me alcuna traccia.

    In seguito ho chiesto tante volte a mio padre di portarmi con lui quando vi si recava per lavoro, ma le risposte evasive e un po’ seccate che ne ottenevo avevano col tempo affievolito le mie insistenze, fino a farle cessare del tutto. Quando poi ho cominciato a viaggiare da sola, una sorta di abitudine, l’amore del quieto vivere, nonché una vaga inquietudine, avevano posto quella meta oltre le mie personali colonne d’Ercole, in barba alla mia voglia di verità.

    Avevo poi spedito la mia domanda di servizio all’estero per insoddisfazione e voglia di cambiamento, e allora la prima sede che avevo indicato era stata quella. Il fatto di lavorarci mi avrebbe spogliato della provvisorietà del turista, offrendomi anche del tempo per le mie ricerche. Inoltre vantavo sulla città una specie di diritto di asilo, visto che, in un certo senso, tornavo a casa mia, e questo mi sembrava che mi offrisse delle priorità sugli altri concorrenti.

    Pur non volendo, provo una certa dose di soddisfazione nell’eseguire la comunicazione. È una specie di rivalsa contro mio padre che, anche se lo considero il pilastro della mia esistenza, ha sempre preteso di essere il mio solo punto di riferimento, ignorando ogni mia richiesta di alternative a questa esclusività. In casa sono sempre state ammesse solo poche e scelte persone e in generale anche le frequentazioni di amici non sono mai state incoraggiate. Non mi sembra, d’altronde, che si sia mai reso conto delle mutilazioni provocate in me da questi limiti.

    Risponde subito al telefono e sembra di buonumore. Cerco di non far mai passare più di due giorni senza cercarlo, ma spesso mi chiama lui, sempre per un motivo utile:

    Hai pagato la rata dell’assicurazione? Hai fatto revisionare l’impianto del metano?

    Ascoltando la sua voce al telefono sorrido perché comprendo che queste sollecitazioni hanno tutt’altri significati come: Bambina mia, perché ti fai vedere così poco? Perché sei cresciuta e non hai più bisogno di me come quando eri piccola? Spesso avverto un’inquietudine sotterranea nella voce, quasi temesse che lo stia dimenticando.

    Ci sono delle novità dico prendendola alla larga.

    Hai finalmente un moroso? chiede lui allegro.

    Da quando ho superato la ventina ha cominciato spesso a pormi domande sull’argomento. Dovendo coprire i ruoli di entrambi i genitori, si sente a volte in dovere di vestire i panni della madre chioccia e sollecita.

    No papà, vado a Istanbul.

    Il silenzio dall’altra parte del filo si prolunga per un poco e la voce che ritrovo è cambiata e fredda.

    Non s’era deciso di andarci insieme? Che fretta c’è?

    Papà tu a Istanbul ci vai molto spesso, ma non mi hai mai voluto con te. Te l’ho chiesto tante volte, e sono 25 anni che rimandiamo questo viaggio... e poi non è neanche un viaggio, io lì ci vado ad abitare, a lavorare. Forse ho scordato di dirti che ho fatto domanda al Ministero degli Affari Esteri per il servizio in scuole straniere, è stata accolta e...

    Il clic di chiusura della comunicazione è secco e definitivo, ma tutto sommato mi risparmia spiegazioni e scuse che non ho più voglia di dare. Se ne farà una ragione, come me la sono fatta io in tutti questi anni del fatto che Istanbul era tabù. So che è molto arrabbiato. È molto bravo nel farmi sentire in colpa coi suoi silenzi, col parlar d’altro, col non esserci, ma sono stanca di misteri e il quieto vivere non mi basta più.

    Devo presentarmi al Consolato entro la fine di agosto, e prima di partire devo risolvere un sacco di problemi pratici che riguardano sia la mia vita che il mio lavoro in una città straniera e lontana. Da quando ho ricevuto la lettera sono sotto pressione per programmare tutto, compreso se portare o meno l’auto, seguendo i contrastanti consigli di amici e conoscenti.

    È passata una settimana, ma non ho ancora notizie di papà. Visto che non abita lontano, decido di passare da lui invece di telefonargli. La casa che ospita i primi ricordi di cui ho memoria era già vasta quando vi stavamo insieme e ora, quando vado a trovarlo, ho l’impressione che ci si perda. Le stanze mi sembrano troppe e troppo grandi e lui non le riempie più con la sua sola presenza come riusciva a fare quand’ero bambina.

    Ginetta, la donna che se ne occupa, mi dice spesso:

    Perché non torni qui? La tua camera è come l’hai lasciata; puoi andare e venire quando vuoi, nessuno ti dirà niente, puoi anche portarci chi ti pare, saresti libera...

    Il fatto di avermi cresciuta le permette dei discorsi impensabili per le sue omologhe, ma tutt’e due sappiamo bene che l’affetto alla base delle sue parole e le mie migliori intenzioni non bastano a operare questo rimpatrio.

    Il primo motivo per cui avevo lasciato quel tetto era stata l’università, che avevo frequentato a Padova, dove avevo vissuto in un appartamentino con altre ragazze. Al ritorno a Treviso non avevo voluto rinunciare alla libertà a cui mi ero abituata, e avevo affittato un trilocale nonostante sapessi che papà non avrebbe mai digerito quella decisione. La sua opposizione non era stata d’altronde urlata, ma sorda, sotterranea, fatta più di silenzi che di strepiti. E quando alla fine aveva dovuto arrendersi al fallimento, non si era fatto trovare per molto tempo.

    Parcheggio davanti alla casa, e dalla finestra aperta della cucina emerge prima il benvenuto della mano e poi del viso sorridente di Ginetta.

    Vieni dice, che ho appena fatto il caffè!

    La stanza è grande, un po’ severa, con una bella cucina economica che non è solamente decorativa, ma che entra in funzione alla fine di settembre e va avanti per tutto l’inverno a cucinare e a scaldare fino ad aprile inoltrato. Era questo il motivo per cui facevo i compiti di scuola in quella stanza: mi dava un senso di calore, di focolare domestico, sensazione accresciuta dal sorriso incoraggiante di Ginetta. Fino a che frequentavo le elementari quella brava donna aveva potuto fornirmi anche un’assistenza pratica, ma in seguito non aveva potuto offrirmi molto, se non confortarmi in caso di scoraggiamento.

    Quando ero di fronte a compiti che mi sembravano al di là delle mie possibilità, lei mi consolava dicendo che ero una bambina intelligente e capace, e che certamente sarei riuscita in quello che mi prefiggevo. Accompagnava poi le parole con un bacio sulla fronte o sulla guancia. Questo, anche se non squarciava il velo su versioni di latino incomprensibili, né risolveva oscure equazioni matematiche, mi dava un po’ di coraggio. Non mi impediva comunque di pensare che la mia mamma, lei sì, avrebbe avuto la chiave per spiegarmi tutto. Il papà mi aiutava quando poteva, ma per lo più mi arrangiavo da sola perché spesso veniva a casa così tardi, ed era così stanco, che non osavo disturbarlo.

    Mentre beviamo il caffè Ginetta mi pone mille domande sulla mia ormai prossima partenza, e fa anche un ultimo tentativo per dissuadermi da una decisione così insensata. La rassicuro dicendole che, tutto sommato, Istanbul dista meno di tre ore d’aereo e che ci sentiremo spesso al telefono. Questo non le impedisce di commuoversi, ed è pertanto costretta a ricorrere al fazzoletto che tiene sempre nella tasca del grembiule, dato che soffre di rinite. Abbraccio quella brava donna che mi ha allevato con dedizione da quando sono in età di ricordare. Non ho avuto la mamma a crescermi, ma se lei è stata un surrogato, lo è stato di ottima qualità. Siccome le sue lacrime incominciano a intaccare il tappo di indifferenza sotto il quale ho cacciato tutto il caos dei miei problemi, mi congedo velocemente da lei, schiarendomi la voce un paio di volte.

    Raggiungo il retro della casa. Nel seminterrato papà ha allestito un discreto laboratorio, dove ama fare lavoretti di bricolage nel tempo libero. Ci arrivo camminando piano, in punta di piedi, impacciata dai fantasmi dei miei sensi di colpa indesiderati e importuni, e mi chiedo ancora come mi accoglierà dopo il silenzio seguito al mio annuncio.

    Lo vedo di spalle, un po’ curvo su un pezzo di legno che sta segando. È un’immagine che mi dà una misura così violenta del tempo che passa, che per un attimo il legno nelle sue mani diventa una falce e la scena una replica della orrenda tavola numero tredici di un vecchio mazzo di tarocchi nel cassetto del salotto. All’improvviso realizzo che me ne sto andando a quasi duemila chilometri dall’unico riferimento stabile della mia vita, in una terra dove si parla una lingua sconosciuta e non conosco nessuno.

    Già sapevo che, facendolo, gli avrei dato un grosso dispiacere, ma mi ero sforzata di risciacquarmi il cuore dagli scrupoli conoscendo la forza che mio padre ha sempre dimostrato nell’ affrontare le difficoltà. I lavoretti manuali del fine settimana gli avevano procurato delle callosità alle mani che, invece di dispiacermi, mi sembravano la trasposizione fisica di questa sua qualità morale.

    Questa immagine di debolezza mi sembra quasi un tradimento che lui ha ordito nei miei confronti, come se avesse organizzato la scena per ricattarmi. Vorrei rivederlo forte e infallibile come quando ero piccola e lui era il mio eroe. I miei pensieri sembrano esserglisi rovesciati addosso come il contenuto di un vaso da notte svuotato da una finestra; lascia legno e sega, si gira, e cerca di tirarsi su quasi volesse allungarsi di qualche centimetro oltre i 185 segnati sui suoi documenti, e di recuperare una dignità in bilico. È sorridente come al solito, e sembra che non ci sia più traccia dell’ultima telefonata.

    Ciao Lisa, hai mangiato?

    Sì, vengo da casa, ho preso qualcosa prima di uscire.

    Le divagazioni gastronomiche coprono il disagio dell’incontro; però non mi ha baciato come fa di solito. Mi parla poi della sedia che sta riparando come se fosse un argomento fondamentale della nostra esistenza. Amareggiata da questi tentativi di fuga, cerco di riportarlo al qui e ora:

    Papà, partirò fra due giorni. Non hai niente da dirmi prima che vada a Istanbul?

    Fa con la mano un gesto nell’aria, quasi a cancellare qualcosa di fastidioso e inopportuno che vi fluttua:

    Nulla che tu già non sappia: che ti voglio bene e che non vorrei che tu andassi così lontano!

    In pochı attimi l’espressione del viso è cambiata, improvvisamente, violentemente, come se non gli importasse più di nascondere le sue fragilità e accettasse invece di usarle come ultima resistenza. Il tempo delle proibizioni e dei misteri è finito, questo lo capisce bene, e l’unico tentativo che può fare per trattenermi è questo suo mostrarsi senza difese.

    La mamma... azzardo.

    "La mamma è morta nell’incidente, lo sai mi interrompe lui osservando con la massima attenzione i denti della sega che ha ripreso in mano, devo insaponarla un po’, che non taglia bene!" divaga poi mescolando imperdonabilmente nella sua risposta mamma e sega.

    Mentre mi mordo le labbra per controllare la reazione che mi verrebbe spontanea per la mancanza di riguardo, è passato il momento che mi aveva consegnato delle speranze. Tutto sommato il tono che ha nuovamente assunto mi solleva, almeno in parte, dagli scrupoli in agguato sulla nostra separazione. Peccato, avevo sperato che, in vista della mia partenza ormai inevitabile, finalmente spianasse la strada alle mie curiosità angosciose.

    Speravo che mi fornisse dei nomi, degli indirizzi, dei ricordi che potessero rendere meno straniera quella città in cui eravamo vissuti quando la nostra si poteva chiamare, a pieno titolo, una famiglia. Avevo sperato soprattutto, citando la mamma, che dicesse qualcosa sull’ argomento che mi aveva sempre procurato un gran dolore, essendo coperto da una specie di segreto di stato, e che era il motivo principale che mi spingeva a Istanbul.

    Tutto quel che ne ricavo è il nome dell’albergo dove attualmente scende quando ci va per lavoro, ma, se pur succede, si ferma una notte sola andando o tornando da Bursa dove è il centro dei suoi affari nella fabbrica di stoffa di cui è socio.

    Non è niente di che, dice, ma le stanze guardano direttamente sul mar di Marmara. Ci vado da tanti anni che non ho voglia di cambiare, ma non ti servirà, è nel quartiere di Sultanahmet un po’ lontano dalla scuola. È meglio che ti cerchi qualcosa a Beyoğlu o a Cihangir dove è il liceo italiano. Sembra aver concluso, ma poi, ripensandoci, aggiunge:

    Vuoi che prenoti? L’offerta è fatta così casualmente e con così poco entusiasmo, che la declino immediatamente:

    Non preoccuparti, papà, ho preso contatti con il consolato e ci penseranno loro. lo rassicuro mentre lui ricomincia ad affaccendarsi intorno alla sedia da riparare. Mi ritrovo ad essere gelosa di quella seggiola che sembra assorbire tutta la sua attenzione, e ne farei volentieri legna da ardere.

    Non c’ è in effetti molto da aggiungere a questo colloquio che, a parte un bacio un po’ frettoloso due sere dopo, costituisce il suo congedo prima dell’inizio della mia nuova vita.

    Ginetta mi inonda di lacrime.

    Capitolo 2

    La scuola è un edificio imponente, ma un po’ mortificato dall’ essere collocato molto al di sotto del piano stradale, tanto che la rampa di scale esterna che va dalla strada all’entrata, scende lungo la lunghezza di gran parte del cortile. L’alto muro che la circonda mi dà un leggero senso di costrizione, e, nonostante la sua buona volontà difensiva, poco può di fronte alla bruttezza degli edifici dirimpettai.

    Anche se agosto, l’estate, e le vacanze stanno arrivando al capolinea, il caldo è ancora torrido e abbiamo un po’ tutti l’aria di turisti abbronzati che passano da queste parti casualmente, di ritorno dalla spiaggia. Due insegnanti sono appena arrivati oltre a me, altri sono qui da due, tre, fino a sette anni. Dopo le presentazioni di rito nella mia lingua, passo a salutare il corpo docente locale e molti mi stringono cordialmente la mano accompagnando il gesto con un sorridente:

    " Hoşgeldiniz" (Benvenuta)

    Mi propongo di ripassare i saluti in turco nelle varie guide e vocabolari italiano-turco che mi sono portata dietro, e che ho visto girare per casa fin dall’infanzia. A differenza di altri dati riguardanti questa terra, la lingua non mi ha mai intrigato; forse perché, priva com’ero di interlocutori, l’apprendimento sarebbe stato un esercizio mnemonico sterile e solitario. E mentre maledico la mia passata pigrizia al riguardo, decido immediatamente di iscrivermi a un corso intensivo a cui dedicarmi con impegno.

    Lo specchio del bagno, dove sosto brevemente prima della riunione, incornicia degli occhi spauriti in cui nuotano domande e incertezze. Il primo nodo da sciogliere sarà quello di trovare una casa, ma dietro fa capolino l’altra domanda, quella fondamentale: cosa diavolo mi aspetto di trovare a Istanbul? Sono poi così sicura di voler scavare nella terra che ricopre le mie radici conficcate qui? E quanto dovrò pagare questo recupero a cui mio padre si è sempre così decisamente opposto?

    Il collegio docenti presenta delle sostanziali differenze da quelli cui sono abituata in Italia, soprattutto perché tutto è ripetuto nelle due lingue. Inoltre la scuola deve barcamenarsi fra legislazioni e mentalità italiane e turche.

    Mi sento un po’ persa anche osservando gli altri insegnanti. I vecchi, anche quelli che vivono soli, hanno l’aria di sentirsi assolutamente a casa loro, come se avessero frequentato l’asilo nella Boğazkesen e le elementari nell’Istiklar. L’ integrazione degli sposati ha più ragione di essere, avendo essi in genere la famiglia, o parte di essa, al seguito.

    Oltre a me, gli altri due nuovi sono Giacomo, insegnante di matematica trentaduenne di Genova, e Carlo, quarantenne insegnante di inglese di Cagliari. Al contrario di me, non sembrano molto preoccupati dalla nuova piega che ha preso la loro vita, di cui prendono in considerazione solo la novità e un po’ d’avventura.

    La preside, con occhiali, capelli rialzati in uno chignon, e aria risoluta, ha l’aspetto di una donna in carriera e dà l’impressione di grande efficienza. Accanto a lei siede quella che conoscerò come l’insostituibile in quanto sembra ben decisa a far valere la sua presenza. Sempre. Imparerò infatti in seguito che tutti i contatti con il capo istituto passano attraverso di lei e, come tutti, mi ci adatterò. Noto subito l’accentuata curvatura della schiena che mi viene da associare alla sua piaggeria nei confronti della preside, e, pur non volendo, impiego parecchio del tempo del collegio a osservarla.

    Dopo la riunione, superato Palazzo Venezia con Giacomo e Carlo che soggiornano nel mio stesso albergo, rifacciamo al contrario la stradina ripidissima e solo pedonale che ci aveva portato tre ore prima a Tom-Tom Sokak, la strada della scuola. Sono le sei e, nonostante il caldo sia ancora intenso, le ombre cominciano a diventare più dolci.

    Un gatto bianco e grigio acciambellato ci guarda da sopra un muro ricoperto da qualche foglia di vite rinsecchita, che fa indovinare la presenza di un giardinetto nascosto. La viuzza è contornata da entrambi i lati dai muri di alti edifici con qualche antica pretesa architettonica, ma che da decenni hanno perso ogni speranza di una rinfrescatina. Le poche porte che vi si affacciano, sono sprangate.

    Mentre mi propongo di evitare questa stradina poco ospitale di notte, devo però ammettere che l’ora dorata la riscatta e che, se mai avessi un moroso come dice mio padre, potrei anche aver voglia di effusioni fra questi muri polverosi e sotto lo sguardo vigile del gatto. La povera bestia non ama evidentemente le lingue straniere, o gli stranieri, perché, quando gli passiamo vicino chiacchierando tranquillamente, si butta in picchiata giù dalla sua postazione passandomi molto vicino al viso e, una volta atterrato, sparisce con grande strepito oltre la curva a elle del vicolo.

    Mi prende un brivido di inquietudine, forse ancora sotto l’influenza di Ginetta, che ha sempre nutrito una grande avversione per tutti i felini. Mentre il gatto si avventava giù dal muro avevo incontrato i suoi occhi che sembravano cattivi, quasi fossi un bersaglio studiato. Anche se cerco di sorridere, un brivido mi corre lungo la schiena, mentre Carlo e Giacomo, che si erano fermati dapprima perplessi, stanno ora ridendo dell’episodio.

    Dopo la doppia curva la stradina solitaria comincia ad animarsi, anche se non perde nulla della sua pendenza. C’è un negozietto di pietre semipreziose e gioielli etnici, un fotografo che espone fotografie di sposi imbalsamati, e un localino con due tavolinetti sulla strada. Il diminutivo è di rigore come constaterò nella maggioranza dei locali di qui, dove le ridotte dimensioni di tavoli e sedie permettono la sistemazione all’ interno o all’esterno di un numero di clienti impensabile altrove.

    Alla fine della salita siamo intanto sbucati sulla Istiklal Caddesi. È molto più larga della strada da cui proveniamo e vi si passeggia comodamente in piano. Ci troviamo mescolati a un flusso imponente di gente che cammina nelle due direzioni, e che calpesta delle rotaie in mezzo alla strada. Si spostano solamente al suono della campanella di un trenino pittoresco con due soli vagoni, che unisce piazza Taksim al quartiere di Pera, e che sembra essere l’unico mezzo circolante in questa zona pedonale.

    Parecchi parlano lingue diverse perché siamo in piena zona di consolati, ambasciate e scuole straniere; numerosi però sono anche i turchi e, in genere, piuttosto giovani. Dall’aspetto è però abbastanza difficile distinguere gli uni dagli altri, benché mi aspettassi delle plateali differenze nell’abbigliamento e nei lineamenti. Non solo non vedo traccia di çarşaf, il chador turco, ma parecchie donne, turche senza dubbio, sono sbracciate e scollate quanto lo sono d’ estate le donne in qualsiasi paese occidentale. In quanto agli uomini, ci sono meno baffi di quanti prevedessi e molti giovani hanno stature dignitose, e possono essere definiti a ragione dei bei ragazzi.

    Giacomo, che di noi tre è il più informato, ci dice che tanta gioventù è richiamata dai locali, bar e luoghi di divertimento di cui è piena la zona. Lui è stato qui come turista l’anno scorso e può farci un po’ da guida.

    Gli edifici, molti dei quali in stile liberty, sono stati per lo più rinnovati. Fra gli innumerevoli negozi e locali che si affacciano sulla via, per la maggior parte di abbigliamento, ristoranti, e bar, molti hanno l’impronta di una recente, firmata ristrutturazione. Nel complesso la strada presenta dei decorosi ricordi di quel che è stato il suo periodo d’oro. Qua e là dei capannelli di gente si raggruppano intorno a delle orchestrine improvvisate.

    Di fronte al liceo di Galatasaray Giacomo ci fa svoltare nel balık pasajı, il passaggio dei pesci. Questa stradina e quelle vicine sono piene di ristoranti e localini che, rimosse le vetrate invernali, fanno un tutto unico con il piano stradale dove hanno collocato tanti tavolini quanti ce ne possono stare. E anche di più. La loro quantità soffoca i superstiti banchi di frutta e verdura nonché quelli di pesce, che un tempo erano i padroni incontrastati di questa via.

    Verso la fine della stradina saliamo un piano di scale del ristorante Cumhuriyet, che ha una clientela locale e una storia consolidate. A renderlo famoso ha anche provveduto la frequentazione di quell’Atatürk di cui so qualcosa dai libri di storia, ma non tanto quanto vorrei. Nella mia brevissima esperienza qui, ho comunque già avuto modo di incontrare la sua immagine più volte a due o a tre dimensioni.

    L’ho infatti visto in manifesti copri-fabbricato, statue, quadri, francobolli e moneta in carta e metallo. Tutto ciò mi ha suggerito che, anche a molti anni dalla morte, la sua figura è ancora fondamentale nella Turchia contemporanea, e mi dispiace della mia insufficiente preparazione in materia. Aggiungo pertanto il nome dello statista alla lista di materie da approfondire, iniziata con la lingua turca, e che temo si allungherà parecchio nei prossimi giorni.

    L’aria condizionata ci viene piacevolmente incontro assieme al cameriere, e ci sediamo vicino a una delle grandi finestre ad arco che dà sulla stradina. Il panorama è costituito da un banco di frutta grossa e matura: l’uva confina con un ristorante a destra, mentre le pesche tengono a bada un bar straripante di gente a sinistra.

    Il soffitto, mosso da leggere volte ad arco, è totalmente ricoperto da mattoncini in colore naturale; le scale e alcune nicchie portabottiglie nel muro sono ornate in ferro battuto, con decorazioni di tralci e foglie di vite. Nel complesso l’ambiente è rilassante e possiamo conversare piacevolmente in questo giorno che ha cambiato il corso di tutte e tre le nostre esistenze, anche se ognuno lo vive in modo diverso.

    Giacomo è il più spensierato di noi, è alto, con capelli mossi semi-lunghi e una sapiente barba di due giorni. Abita ancora in famiglia. Vive questa nostra condizione come un passo verso quell’indipendenza che molto dice di volere, ma per cui non deve essersi finora battuto a sangue sopraffatto forse dalle abilità casalinghe della madre e dalle sue trenette al pesto. Carlo ha una statura modesta, gli occhiali e un incarnato piuttosto chiaro nonostante l’origine sarda. È sposato.

    Arrivano i meze, quegli antipastini freddi con cui ti abbuffi con la scusa degli assaggi e di cui ci facciamo riempire il tavolo: cozze ripiene di riso, fagioli e melanzane condite al pomodoro, foglie di şemizötü con yogurt che trovano in noi accoglienza diversa a seconda di gusti, abitudini e tolleranza all’aglio. Quando poi arriva il momento dell’ordinazione di cibo caldo, nessuno di noi ha molta fame e ci dividiamo in tre il contenuto di un piatto di calamari fritti, ordinati più per compiacere il cameriere che per voglia reale.

    Alle cozze Carlo ci riferisce di essere sposato da dodici anni con Marisa, ai fagioli ci racconta quanto la ama profondamente, ai calamari fa cenno a qualche problema di fecondità, e al

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