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Il mare del settimo giorno
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E-book320 pagine4 ore

Il mare del settimo giorno

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Info su questo ebook

Duncan ha quindici anni e vive nella tranquilla cittadina di Westleigh. Soffre di depressione, ma non riesce a confessarlo ai suoi amici; teme che questo finirà per allontanarli più di quanto l’avvicinarsi dell’età adulta non stia già facendo. Tutto cambia quando conosce Owen. Anche lui nasconde un doloroso segreto: da quando suo padre è morto, strani uccelli scheletrici lo seguono e lo osservano. Duncan e Owen capiscono subito di aver trovato l’uno nell’altro qualcuno di cui fidarsi, ma non tutto va per il verso giusto. Duncan deve affrontare le rivalità tra i suoi vecchi amici, mentre Owen si ritrova catapultato in un mondo ultraterreno dove gli viene affidata una pericolosa missione.
Come se non bastasse, il talent show organizzato dalla scuola si avvicina, e la sorella di Duncan si ritrova d’un tratto sprovvista di compagni con cui esibirsi. Che sia nella nuova amicizia tra Duncan e Owen la soluzione per salvare lo spettacolo?
Il mare del settimo giorno è una storia sul potere della perdita e sulla forza dei legami, in cui due giovani uomini imparano a condividere le proprie storie per scoprire chi sono e chi potrebbero diventare un giorno.
LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2023
ISBN9788831982818
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    Anteprima del libro

    Il mare del settimo giorno - David Owen

    Il sogno persistente

    Il sogno si frantuma allo scricchiolio del gelo che gli riempie la gola. La pelle d’oca gli increspa l’incarnato livido mentre lui solleva la testa per tossire schegge di ghiaccio sul palmo. Il ragazzo si appoggia sui gomiti e si rende conto, ancora una volta, di essere finito molto lontano dalla sua camera. Ad accogliere il suo corpo c’è un enorme oblò che pare un catino vuoto, e il poco calore che gli resta in corpo discioglie il suo profilo nel sottile strato di brina che ricopre il vetro.

    «Sto ancora dormendo», si dice, un gelido sbuffo di fiato a ogni parola. «Non è reale».

    Il panorama è una vertigine senza fine, e un capogiro lo assale. Una legione di stelle occhieggianti è smorzata dalla curva della Terra. Il pianeta – il suo pianeta – brilla come acceso dall’interno. Si aspetta di risvegliarsi tra i brividi, rompendo la superficie onirica, e di alzarsi a sedere sul letto ansimante e con la fronte sudata.

    Ma il sogno continua.

    «Non qui», dice il ragazzo. Cerca di trascinarsi via dall’oblò, ma il ghiaccio liscio scivola sotto i palmi e lo lascia senza appigli. «Non di nuovo».

    È la terza notte che viene portato laggiù, così si prepara a ciò che sta per succedere: un dolore feroce e familiare, un’entità fisica che si espande e si contrae nello stomaco, un compagno clandestino forte abbastanza da costringerlo a raggomitolarsi su sé stesso. Il ragazzo stringe i denti e chiude gli occhi. Prega che passi. Fa sempre così, alla fine si ritira in un angolo nascosto a recuperare le forze.

    La finestra è fissata tra pareti di metallo compatto, ricoperte di funi e cavi intricati, luci rosse e verdi che si accendono e spengono. Il freddo gli si aggrappa addosso come una seconda pelle.

    «Non ce la faccio più a restare qui», sussurra.

    «Volevi la solitudine». La voce risponde strisciante e canzonatoria dall’oscurità. «Non esiste un luogo più solitario di questo, a centinaia di chilometri di distanza da qualsiasi altro essere vivente».

    Il satellite – che altro poteva essere? – ruota appena. Il pianeta là sotto, con i continenti che ricordano tatuaggi disegnati da un dilettante, sfugge dal campo visivo. Tra pochi momenti non ci sarebbe stato più nulla da vedere, se non le stelle e il vuoto.

    «Ho cambiato idea», dice il ragazzo. «Credevo fosse ciò di cui avevo bisogno, ma…»

    «Io sono dalla tua parte». La voce appartiene a un ragazzino. È incredibilmente simile alla sua, ma ha qualcosa di… primordiale. È una voce capace di sussurrarti all’orecchio peccati arcani mentre dormi. «Ti condurrò ovunque desideri».

    «Devo trovare il modo di uscire da qui», dice il ragazzo, sforzandosi di distinguere qualcosa attraverso l’oscurità. «Non mi serve altro».

    Dopo un momento carico di promesse, la voce parla di nuovo. «Perché, credi forse ci sia un modo?»

    La vastità dello spazio fuori dall’oblò lo strattona, esercitando un’attrazione ipnotica a cui lui fatica a resistere. Il vuoto finirà per reclamarlo, ne è consapevole, e lui lascerà che accada.

    «Deve esserci», dice.

    Il satellite ruota ancora e ancora.

    «Forse conosco un luogo, molto lontano da qui. Ci rivedremo laggiù».

    Le luci crepitano e si fulminano. Sotto di lui, lo schiocco di una crepa nel vetro è seguito dal sibilo di una fuga d’aria. Una frattura si allarga come una ragnatela sulla superficie dell’oblò, e venature di ghiaccio la corrodono e la dividono in lastre seghettate.

    Non c’è via di scampo. Il ragazzo cerca di raggiungere qualcosa, qualsiasi cosa, a cui aggrapparsi. Il vuoto, silenzioso, inspira.

    Il vetro è risucchiato all’esterno.

    Il ragazzo viene espulso dal satellite, una crisalide strappata dal bozzolo troppo presto perché potessero crescerle le ali. L’immensità incalcolabile lo cattura, lo ribalta e trascina ancora più lontano da casa. Una distanza impossibile.

    E poi il buio, soffice come una piuma, gli sfiora il volto. Gli avvolge il corpo in uno stretto abbraccio. Lo porta—

    Il ragazzo si sveglia di soprassalto. Il sogno si ritrae, e lui si ritrova in piedi, tremante, in salotto – l’ambiente ancora estraneo –, con una mano poggiata sulla pietra grigia e fredda della mensola del caminetto. La fotografia e la scatola sono a qualche centimetro dalle sue dita.

    Era un sogno, soltanto un sogno.

    Sente qualcosa solleticargli l’alluce nudo. Il ragazzo si china con mano esitante, come teso verso un miraggio, per sfiorare la piuma nera che giace ai suoi piedi.

    Capitolo uno

    Duncan

    Il telefono vibra nella mia tasca nello stesso istante in cui il pallone mi colpisce l’alluce e rimbalza in alto, colpendomi in piena faccia. Lo ignoro per massaggiarmi il naso ed evitare che gli occhi inizino a lacrimare. È di vitale importanza che i miei amici non pensino che io stia piangendo.

    «Bel passaggio, Duncazzone», dice Lorenzo, e calcia in alto il pallone vagante per poi stopparlo con la nuca, prima di ributtarlo in aria e, con un colpo di testa, farlo volare oltre il nostro accerchiamento disordinato.

    La genesi del mio poco gradevole soprannome non è abbastanza creativa per meritarsi un resoconto dettagliato. Duncan era naturalmente considerato troppo banale per essere usato così com’era. I miei amici, allora, hanno pensato bene di arricchirlo con un elegante insulto che richiamasse l’organo diventato, con l’arrivo della pubertà, il fulcro dei nostri corpi in pieno tumulto ormonale.

    Ma mi piaceva considerare il fatto che quel soprannome avesse subito preso piede come un segno d’affetto nei miei confronti.

    Narratore: Non lo era.

    Il mio cervello è sempre pronto a correggere qualsiasi illusione un minimo lusinghiera.

    La palla torna nella mia direzione. Alzo di scatto un ginocchio, giusto in tempo per evitare che tocchi il suolo. Rimbalza verso Saeed, che ne prende il controllo con un colpo di petto.

    «Stai diventando bravo», dice Matt in una nuvoletta di fiato.

    «È quello che ha detto anche tua mamma», risponde Saeed, calciando il pallone in aria.

    Matt ci pensa su per un momento. «Un buon cinque su dieci». Non ho idea di quando abbiano iniziato ad assegnare un punteggio alle battute su tua mamma, ma da quel momento ne hanno rispettato i criteri con grande rigore.

    Lorenzo dà un calcio al pallone e se lo lascia scivolare lungo le ampie spalle prima di farlo rimbalzare con il gomito sulla testa. Qualsiasi complimento non sia rivolto a lui viene considerato una sfida nei suoi confronti. Prova a bilanciare la palla sulla punta del naso, ma la fa cadere a terra, e quella rotola via in direzione del dipartimento di Matematica.

    «Mica male», commenta Matt, che ne approfitta per ficcarsi mezzo panino nella bocca enorme.

    Lorenzo fa spallucce. «Almeno ho provato a metterci un po’ di eleganza».

    «Ventitré rimbalzi», dice Saeed, annuendo con approvazione. «Non manca molto a battere il record».

    Il record – ventinove rimbalzi senza che il pallone toccasse terra – è stato stabilito un giorno in cui ero a casa malato, dettaglio che da quel momento mi viene ricordato ogni volta che non riusciamo a batterlo. Prendo il telefono per segnarmi il risultato del giorno, ma noto un messaggio appena ricevuto, e lo apro. Si tratta di un’immagine, la rotella gira per un istante mentre si carica.

    «Ehi, tizio nuovo! Palla!» urla Lorenzo. Il pallone è rotolato sotto il camminamento coperto del dipartimento di Matematica, e il tizio nuovo è là da solo, appoggiato contro la ringhiera. La palla è praticamente ai suoi piedi, ma lui non sembra averla notata. Sporge la testa oltre la tettoia per guardare il cielo, gli occhi sgranati dietro gli occhiali, come un topo a cui un gufo stia dando la caccia.

    «Lasciamo perdere», dice Lorenzo, ficcandosi le mani in tasca.

    «Secondo te è un po’… indietro?» chiede Saeed.

    Lorenzo sbuffa. «Se anche fosse, non starebbe qui».

    «Hanno ammesso te, o no?»

    Lorenzo sferra un calcio verso lo stinco di Saeed, ma lui riesce a schivarlo. «Cosa ne pensi, Duncazzone?»

    Girano un sacco di voci sul tizio nuovo. È arrivato da appena un paio di settimane e ho già sentito dire che è qui perché è stato beccato a fare sesso con un insegnante della vecchia scuola, o che ha usato la sua coda di cavallo per molestare uno studente di prima, o addirittura che ha assassinato il padre.

    Ovviamente niente di tutto questo è vero, però è strano che qualcuno cambi scuola a febbraio, a ridosso degli esami di fine anno, dopo i quali almeno metà istituto se ne andrà verso altri lidi.

    Non abbiamo mai parlato davvero di cosa succederà quando sarà finita la scuola. Matt si iscriverà nella stessa università della sua ragazza, Becky. Saeed a malincuore si candiderà per fare apprendistato («Gli ingegneri guadagnano un botto di soldi!»), mentre in segreto aspetterà di vedere cosa farà Lorenzo, che ancora non ha deciso.

    Sarà il più grande cambiamento delle nostre noiose e monotone vite. Tuttavia…

    Il cambiamento è già iniziato. Nell’ultimo anno, Lorenzo si è ossessionato con la palestra: ormai sembra in grado di demolire a mani nude un autobus a due piani. Nonostante la sua incrollabile devozione, è l’unico hobby che Saeed non è riuscito a emulare, preferendo invece trasformarsi in un tale maniaco della pornografia che mi stupisco riesca ancora a camminare. Matt passa la maggior parte del tempo libero dalla scuola e dal lavoro part-time al supermercato Asda dandosi da fare con Becky, cosa che lo ha reso il principale rivale di Lorenzo in termini di mascolinità performativa.

    Gli unici interessi che sembrano coltivare sono le ragazze, i vestiti, riuscire a farsi servire da bere nei pub e mangiare sano con l’obiettivo di ottenere erezioni migliori. O cose del genere.

    E poi ci sono io. A me non importa granché di tutto questo. O almeno, non lo trovo così impellente quanto loro. A me manca stare tutti assieme e giocare a Mario Kart, quando la preoccupazione più grossa era chi otteneva il miglior tempo alle Montagne di dk. Non sono cambiato per niente; significa che c’è qualcosa che non va in me? Mi stanno lasciando indietro, ed è solo questione di tempo prima che se ne rendano conto.

    A meno che non riesca a nasconderlo e ad atteggiarmi come uno di loro, sforzandomi con ogni fibra del mio essere, come se fossi un infiltrato, o una telecamera camuffata da pinguino per girare un documentario naturalistico.

    Fissiamo il tizio nuovo. Dopo un minuto, quello distoglie lo sguardo dal cielo come se avesse notato qualcosa nello spazio vuoto accanto a lui, e inizia a parlare, anche se è evidente che non c’è nessuno.

    Ce la sta mettendo proprio tutta per rendersi la vita difficile.

    «Forse dovremmo lasciarlo stare», dico.

    Lorenzo mi pesta un piede sporcandomi la scarpa di fango. «No, guarda, ci tenevo proprio a chiedergli di uscire».

    «A proposito», dice Matt con la bocca piena, «come va con quella tipa della palestra?»

    Lorenzo lo osserva per un istante, come se gli avesse posto una domanda a trabocchetto, poi gli rivolge il sorriso di chi nasconde un segreto scabroso. I ragazzi con cui passa il tempo in palestra sono tutti più grandi di lui, anche se loro non lo sanno. Quando iniziano a discutere su quale potrebbe essere la sua prossima mossa, smetto di ascoltarli. Non è perché sono geloso dei suoi nuovi amici, assolutamente.

    Questo è l’aspetto più strano di com’è cambiata la nostra amicizia: sembra che io sia diventato irrilevante. Un esubero, uno spettatore, anziché parte del gruppo. Se sparissi dalla faccia della Terra – puf! – è probabile che non sentirebbero la mia mancanza. Potrebbero addirittura essere contenti di non avermi più tra i piedi.

    Quando controllo il telefono, finalmente l’immagine si è caricata. Per mezzo secondo non sono sicuro di quello che sto guardando: è la foto di una ragazza, nuda, eccetto per un nastro rosso avvolto ad arte intorno al corpo a coprire le parti intime.

    «Perché mi avete mandato—» dico, pensando sia stato uno di loro a farmi uno scherzo, prima di notare il nome in cima allo schermo.

    «Ma salve, e questa chi è?» dice Saeed, il suo senso-di-pornomane che formicola mentre mi strappa di mano il cellulare. Provo a recuperarlo, ma lui è troppo veloce. Ha il naso unticcio praticamente spiaccicato contro lo schermo. «Porco cane».

    Gli altri gli si ammassano attorno. Valuto l’idea di abbandonare il telefono e mettermi a correre, ma è già troppo tardi.

    «Ma che cazzo?» esclama Matt mentre impugna il telefono e incenerisce la foto con lo sguardo.

    Il messaggio è di Becky.

    Matt e Becky escono insieme da circa sei mesi e, onestamente, la cosa ci aveva presi un po’ in contropiede: la pancia abbondante di Matt e la sua testa dall’evidente forma a patata lo avevano sempre relegato agli ultimi posti nella nostra tacita classifica di figaggine. Il suo inaspettato trionfo sessuale aveva turbato l’ordine naturale delle cose più di quanto ci saremmo aspettati.

    Prima di tutto, avevamo sempre pensato che il primo tra noi ad avere una ragazza (con tutto ciò che comportava) sarebbe stato venerato come un dio dal resto del gruppo. Invece aveva solo reso tutto strano. Non potevamo più parlare di sesso per ore e ore – di come funzionava, le cose che avremmo voluto fare, quello che combinavamo da soli nel frattempo – perché uno di noi lo faceva sul serio. In confronto, noi altri eravamo patetici.

    Come se non bastasse, la notizia aveva quasi provocato un aneurisma a Lorenzo. Lui era sempre stato il leader di fatto, nonché futuro re di quella virilità che stavamo tutti cercando di raggiungere come disperati. A scuola avrebbe potuto avere qualsiasi ragazza (e probabilmente molti dei ragazzi), ma per qualche motivo aveva sempre ignorato le loro attenzioni. A conti fatti, il comportamento di Matt era paragonabile a un ammutinamento.

    Alzo le mani per dichiararmi innocente, ma questo non impedisce a Matt di caricarmi: mi afferra la gola con entrambe le mani e mi spinge con violenza fino a sbattermi contro un muro. L’aria mi abbandona i polmoni in una nuvola di vapore.

    «Ti giuro che non—»

    «Taci!» Mi alita fiato caldo in volto.

    Gli leggo negli occhi che vorrebbe mollarmi un pugno, ma non so se prima d’ora Matt abbia mai effettivamente colpito qualcuno per rabbia. È un gigante gentile, davvero: le sue mani gargantuesche di solito si limitano a impugnare un kebab.

    Se mi dà un cazzotto – se me ne pianta uno in faccia sul serio – la nostra amicizia si dissolverà una volta per tutte. Non solo tra me e Matt, ma tra tutti noi. Solleva il pugno tremante, chissà se per la furia o per riluttanza. Irrigidisco tutta la faccia in attesa del colpo.

    «Aspetta», dice Saeed.

    Ha recuperato il telefono dal punto in cui lo ha gettato Matt. Sicuramente si sarà assaporato l’immagine (e l’avrà immagazzinata mentalmente per dopo), ma ha anche scrollato i vecchi messaggi tra me e Becky. Per la precisione, ce ne sono due.

    «Guarda», dice, piazzando il cellulare davanti agli occhi di Matt, che è abbastanza forte da aprire il pugno e prendere il telefono mentre con l’altro braccio mi tiene inchiodato alla parete.

    «"A Matt piace L’attacco dei giganti?"» legge.

    «Era il tuo compleanno», dico. «Non sapeva cosa regalarti».

    «Mi fa schifo L’attacco dei giganti».

    Faccio un cenno di assenso guardando il telefono. «È quello che le ho detto».

    Il secondo messaggio conferma la mia versione. Matt ci pensa su per un momento e poi mi lascia andare. Riprendo fiato cercando di ignorare il dolore in gola.

    «E allora perché ti ha mandato quella roba?» mi chiede Matt.

    «Evidentemente si è sbagliata», dice Lorenzo, che è rimasto zitto fino a ora. «Doveva essere per te».

    Matt fa una smorfia. «Non mi ha mai mandato una sua foto nuda, prima».

    «Allora questo è il tuo giorno fortunato, bro».

    Sento suonare una notifica dal telefono di Lorenzo, che lui ignora. Osserva invidioso Matt mentre cancella la foto dal mio cellulare prima di riconsegnarmelo.

    «Mi spiace per…» mi dice, senza guardarmi negli occhi.

    «Non preoccuparti». Ficco il telefono nella tasca della divisa, prima che provochi altri incidenti.

    Matt prende il cellulare e fa una chiamata mentre si allontana a passi pesanti in cortile. A quanto pare la nostra amicizia è sopravvissuta ancora per un po’. Speriamo solo che i giorni che le restano non siano contati.

    Narratore: E invece lo erano.

    Grazie, Cervello.

    La voce pessimista appartiene alla mia depressione. In effetti, ecco qui il segnale principale che la nostra amicizia è cambiata: non ho ancora parlato a nessuno di loro della mia diagnosi. È ormai passato un anno, ma tutte le volte che ci provo mi rendo conto che non so come reagirebbero. Non posso rischiare.

    «Cristo», dice Saeed, con un sorriso così largo da mostrare i denti da vampiro. «Non riuscirò più a guardare Becky con gli stessi occhi».

    «Piantala», dice Lorenzo, poi controlla il telefono e risponde velocemente a un messaggio.

    Senza di loro non avrei amici. Fanno parte della mia vita da tantissimo tempo. Non importa cos’è cambiato, devo tenermeli stretti finché ci riesco. Non so cosa farei – chi sarei – senza di loro.

    La campanella risuona all’interno della scuola per segnalare la fine della pausa pranzo. Tutti in cortile iniziano subito a rientrare.

    «Il tizio nuovo stasera viene a casa mia», dico.

    Lorenzo si rimette il telefono in tasca. «Cosa?»

    «Owen Marlow, si chiama così. Sua mamma è entrata a far parte della stessa parrocchia dei miei, e vorrebbero darle il benvenuto nella comunità».

    «Una nuova recluta nell’esercito di Dio», dice Saeed. «Chissà se è bona?»

    Mentre il cortile si svuota, mi guardo alle spalle verso il dipartimento di Matematica. Il tizio nuovo – Owen – è l’unico a non essersi mosso. La campanella smette di suonare, e i suoi occhi sembrano seguire qualcosa di invisibile nel cielo.

    «Forza, caposcuola. Ci vediamo a Inglese», dice Lorenzo, mollandomi una pacca fortissima sulla schiena. «Prendi il pallone, già che ci sei».

    I miei genitori avevano insistito su quanto diventare caposcuola avrebbe fatto buona impressione al momento di presentare la domanda di ammissione alla scuola post diploma e poi all’università. Per mia sfortuna non avevo avuto nemmeno un rivale per quella posizione. Una delle mie cosiddette responsabilità consiste nell’assicurarmi che tutti rientrino velocemente in classe dopo le pause.

    Quindi mi butto la borsa in spalla e mi incammino verso Owen.

    Owen

    Nel cortile non c’è praticamente nessun riparo, e la mensa è troppo calda, troppo piena di gente, con la condensa che appanna le finestre. Almeno l’ingresso al dipartimento di Matematica è un posto tranquillo, ci sono solo un paio di tizi che prendono a calci un pallone. Mi basta per non sentirmi troppo esposto.

    Mi sporgo per quanto possibile a guardare il cielo. Gli uccelli volano in circolo più in basso di prima. Sono abbastanza vicini da permettermi di vedere la plumbea luce invernale negli spazi tra le penne. Sono simili ad aironi, ma grossi il triplo, con zampe, ali e colli allungati a dismisura, e sembrano coperti di petrolio. Se chiudo gli occhi e mi metto in ascolto, sono certo di sentire il vento soffiare tra le loro piume, come una tempesta di passaggio in una grotta.

    Un urlo dall’altra parte del cortile mi riscuote dalla mia trance e mi ritiro sotto la tettoia. Sono passati quattro mesi da quando gli uccelli sono comparsi per la prima volta, qualche giorno dopo la morte di papà. All’inizio ho provato a indicarli ad altre persone, ma quelle ridevano pensando scherzassi. Quando ho insistito, mi hanno guardato come se avessi più problemi di quanti credessero. Nessun altro poteva vederli.

    Da allora non ne ho più parlato.

    Ho cercato su Google se fosse normale che il lutto si manifestasse sotto forma di allucinazioni. Com’era prevedibile, non lo è. Questo non mi ha impedito di iniziare a pensare agli uccelli come a degli Angeli – non custodi, ma messaggeri. Di cosa, avrei voluto saperlo.

    Sbadiglio e mi strofino gli occhi. In testa ho ancora il sogno della notte scorsa: l’oscurità, la solitudine, la pace dentro il vuoto. Dopo essermi svegliato, sono rimasto di sotto fino all’alba, a osservare la foto sulla mensola del camino, provando a collegarla ai miei ricordi.

    Una nuova casa, un nuovo inizio. Di colpo tutto quello che conoscevo se n’è andato.

    Passo le dita sulla piuma che ho in tasca. Quando mi sporgo oltre la tettoia, sono sicuro che gli Angeli stiano volando più in basso di poco fa. Ce ne sono cinque o sei: è difficile contarli mentre intrecciano tra loro le traiettorie di volo e cambiano direzione con movimenti pigri, come cellule che si uniscono e si dividono.

    «Non sono angeli, sai».

    Mi ritiro al coperto, e il ragazzo è accanto a me. Non l’ho sentito arrivare. Sembra avere più o meno la mia età, i capelli scuri tagliati con una frangia troppo squadrata. Ha qualcosa di familiare, come se l’avessi conosciuto in una vita precedente. Mi sorride senza calore, due fossette storte gli bucano le guance. Si sistema il risvolto della giacca della divisa, e sulla punta delle dita pallide gli restano delle macchie polverose.

    «Riesci a vederli?» gli chiedo.

    «Ti fa perdere il senno, vero?» dice, scrutando in alto. Ora riconosco la voce – la scorsa notte esisteva solo nell’oscurità di un sogno. Quando lo guardo negli occhi, mi accorgo che sono neri quanto lo spazio.

    Mi ritraggo così in fretta da rischiare di cadere, ma la parete del dipartimento di Matematica mi sostiene. «Di che parli?»

    Il labbro del ragazzo si contrae. «Del dolore, naturalmente».

    Una palla rotola verso di lui e gli sbatte contro le caviglie. Lui non sembra farci caso. La fitta allo stomaco si risveglia, minacciando di piegarmi in due.

    «Lasciami

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