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Il lavoro dei maiali
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Il lavoro dei maiali
E-book308 pagine3 ore

Il lavoro dei maiali

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Info su questo ebook

Cosa succede alla nostra coscienza mentre dormiamo? Nell'universo di Il lavoro dei maiali essa si materializza su un bizzarro pianeta chiamato Uovo, all'interno di un corpo argenteo. Tra città dalle finestre d'ambra, creature bizzarre e sconfinate distese di carne, il sognatore Kiwi si troverà suo malgrado a proteggere Cosima, una donna dai denti dipinti braccata da un misterioso individuo.
Se vogliono sopravvivere, i due dovranno superare la loro reciproca diffidenza e imparare a collaborare: per riportare Cosima a casa li aspetta infatti la traversata dell’immenso e sconosciuto Mare di Mani.
Nel volume sono inclusi la mappa dell’Uovo e due appendici che approfondiscono l’ambientazione del romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2018
ISBN9788831982054
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    Anteprima del libro

    Il lavoro dei maiali - Leo Munzlinger

    © Leo Munzlinger

    Progetto grafico di copertina a cura di Caterina Ferrante

    Logo realizzato da Veronica Carratello

    © 2018 Moscabianca Edizioni

    ISBN 978-88-319-8205-4

    www.progettomoscabianca.it

    info@progettomoscabianca.it

    Leo Munzlinger

    Il lavoro dei maiali

    Indice

    Copertina

    Colophon

    Frontespizio

    Mappa dell’Uovo

    Terra

    Uovo

    Terra

    Uovo

    Terra

    Uovo

    Ringraziamenti

    La livrea

    Le specie dell’Uovo

    Il ragno pescatore

    Terra

    Apro la finestra. L’aria fredda mi punge il naso e le guance.

    Una ragazza stretta in un cappotto bianco cammina lungo il marciapiede. Ha i capelli tinti di viola, un serpentello tatuato su un lato del viso – una seguace della dea Ü, senza dubbio. Lancia un’occhiata a Maglietta, fermo in mezzo alla strada come se dicembre fosse solo un’opinione. La giovane rallenta.

    Pessima, pessima mossa.

    Maglietta comincia a ballare. No, non esattamente, i suoi sono più che altro movimenti scoordinati, come se inseguisse col corpo un brano che cambia in continuazione. Un brano che sente solo lui.

    La ragazza gli appoggia una mano sulla spalla, inclina il capo. Le sue labbra si muovono: gli starà chiedendo se ha bisogno d’aiuto.

    Maglietta saltella, scuote la testa. Sulla T-shirt ha l’Occhio Samebitico. Si ferma.

    La ragazza dai capelli viola lo prende per le spalle, abbassa la testa cercando di guardarlo negli occhi. La sua bocca si muove, ma l’altezza e il vento gelido si portano via ogni parola.

    Lui le dà una testata.

    Il cuore inizia ad accelerare. Mi tremano le mani. Inspiro a fondo, il mio petto si riempie d’aria fredda. Apro la bocca per urlare a Maglietta di lasciarla stare, ma le parole mi restano in fondo alla gola.

    La ragazza perde sangue dalla bocca. Si tocca le labbra, sussulta alla vista del rosso sulle punte delle dita. Alza di scatto gli occhi su Maglietta, che ha ripreso a ballare. Non sembra intenzionato ad aggredirla: vuole solo essere lasciato in pace, ballare al freddo e al gelo.

    L’avessero detto anche a me…

    Mi sporgo dalla finestra, faccio segno alla ragazza di allontanarsi.

    Non mi ha notato. È sotto shock, credo.

    Agito una mano in sua direzione.

    Deve andarsene! Prima che Maglietta cambi idea e si convinca che è una sognatrice ostile o un mostro di qualche tipo.

    La ragazza indietreggia sulle gambe tremanti, preme la manica del cappotto sulla bocca. Il sangue si spande sul tessuto.

    Che aspetta ad andarsene? I capelli viola à la Ü non possono che peggiorare la situazione: non mi stupirei se Maglietta pensasse di essersi imbattuto nella Dea dal Collo Lungo stessa.

    Prendo un bel respiro. «Va’ via, stupida!»

    L’ho fatto. L’ho avvisata. Ora speriamo solo che Maglietta non se la prenda con me… di nuovo.

    La ragazza alza lo sguardo, la manica sempre premuta sulla bocca.

    Mi sporgo ancor di più dalla finestra. Rischio che Maglietta mi veda, ma ormai sono in ballo. «Mi hai sentita? Vattene!»

    La ragazza annuisce, indietreggia, fa di nuovo sì con la testa. Sbatte la schiena contro un palo della luce, sale sul marciapiede, corre nella direzione da cui è venuta.

    Brava, così. E la prossima volta continua per la tua strada, non fermarti ad aiutare nessuno.

    Maglietta è sempre lì, a ballare e a saltellare al gelo: da buon neurofritto non prova dolore né si rende conto che fa un freddo cane. Questo comunque non spiega come mai in tutti questi anni non gli sia venuto un malanno. È un miracolo che sia ancora vivo.

    Per terra, ai piedi di Maglietta, c’è qualcosa. Una borsetta bianca con la catenella dorata. Appartiene alla ragazza, le sarà caduta quando ha ricevuto la testata. L’uomo la sposta di lato con un piede, come se fosse d’intralcio alla sua danza a cavallo fra la Terra e l’Uovo. Ricomincia a ballare.

    Chiudo la finestra. Incrocio le braccia e mi appoggio al vetro, batto la nuca un paio di volte. Sospiro.

    Speriamo stia bene. Non ha fatto niente di male, voleva solo toglierlo da mezzo la strada. Come me. Non se la meritava la testata.

    Eppure non capisco: era la prima volta che vedeva un neurofritto? Non dico che se la sia cercata, però…

    Ormai è andata. Si sarà presa un bello spavento, avrà qualche dente rotto, ma starà bene. Di sicuro ha imparato la lezione: non metterà più piede da queste parti.

    Vado a sedermi sul letto. Dal lenzuolo si alza un leggero odore di pipì. Qualche goccia deve essere sfuggita dal pannolone.

    Dovrei portare le coperte in lavanderia. Anche le federe dei cuscini. Dopo cena. A quell’ora Maglietta se ne sarà tornato a casa, o dovunque se ne sta rintanato quando non è per strada impegnato a danzare e a far sanguinare le persone.

    Aurelia è sul letto. Le lunghe braccia simili a serpenti sono attraversate da piccoli fremiti. Le spie che punteggiano il disco centrale cambiano lentamente colore. Sta sognando.

    Comincio ad avere fame. Il lumacone non arriverà prima di un’ora o due, però. I suoi orari stanno diventando sempre più irregolari: perché non lo riparano?

    Prendo il portatile dal comodino, lo apro e mi siedo sul letto.

    «Dimitri…»

    Aurelia si è svegliata.

    «Buonasera, stella marina».

    «Buonasera». Distende le braccia.

    «Batterie ricaricate?»

    «Sì. Ho fatto un sogno».

    I sogni delle macchine morbide mi hanno sempre affascinato.

    «Davvero? Che cosa hai sognato?»

    «Ero una ragazza. Stavo facendo l’amore».

    Ridacchio. «Sporcacciona».

    «Con te, Dimitri».

    «Sai che novità».

    «Sì, ma questa volta era diverso, ero fatta di carne. Tu…»

    Le appoggio una mano sul braccio. «Ti va di vedere qualcosa mentre aspetto che il lumacone mi porti la cena?»

    Le spie di Aurelia lampeggiano.

    «Bene. Che ci guardiamo?»

    «House & Kravitz? Che ne pensi?»

    Ancora? Capisco che sia il suo telefilm preferito, però…

    Annuisco poco convinto. «House & Kravitz, d’accordo».

    «Scegli tu la puntata, Dimitri. Tanto io le ho viste tutte».

    Vado su un sito di streaming, clicco su un episodio a caso. La puntata è intitolata Il morbo di McMiracle. Nella descrizione c’è scritto:

    Nuova sfida per il dottor House e Lenny Kravitz. In questa puntata, i due amici e colleghi dovranno vedersela con un nuovo, terribile caso medico: il morbo di McMiracle, conosciuto anche come malattia della fenice.

    No, proprio non mi va. «Ascolta, Lia: e se ci guardassimo qualcos’altro?»

    «Va bene».

    Vado sul sito della Rai. Il Tg1 sta dando un servizio su una mostra ipercubista al Museo delle Arti Robotiche di Roma.

    Cambio canale. Una televendita, il presentatore canta le lodi della nuova linea Dignity. Mostra alla telecamera un pannolone bianco come il sorriso di un’attrice.

    Aurelia mi sfiora il braccio con un tentacolo. «Guarda che belli!»

    Sospiro. «Lo dici solo perché non ti sei mai svegliata con la merda fra le gambe. Guarda che l’Uovo non è il mondo dei sogni, è una questione seria». Fosse solo lei ad avere qualche difficoltà a capirlo…

    La luce delle spie si affievolisce. «Sembravano proprio comodi».

    «Fatti installare un buco del culo, poi ne riparliamo». Mi è venuta un’idea. «Ti andrebbe un documentario?»

    «Cercane uno sull’Occhio!»

    L’Occhio Samebitico e lo Spazio Rosso, un’altra delle sue fisse. Un argomento molto affascinante, per carità. Sull’Uovo è da tredicimila anni che provano a capirci qualcosa…

    «Vediamo un po’».

    Sul canale YouTube del Consorzio caricano sempre roba interessante. Inizio a scorrere i video.

    L’Uovo. Sogno o realtà?

    La vita segreta dei wylifti.

    Argento e arancione. I colori di Santa Sisilia.

    I pirati del Mar Minuscolo.

    Il Cerchio di Gesso.

    Questi li ho visti tutti la settimana scorsa. Quello sul Mar Minuscolo non era male, era ben fatto, e non conteneva nemmeno troppe inesattezze. Certo, è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che sono stato da quelle parti…

    Aurelia si appoggia su di me. Il suo corpo è tiepido, il profumo di vaniglia e borotalco è molto debole. Devo comprarle una ricarica per il diffusore.

    «La vita segreta dei wylifti! Guardiamoci quello, Dimitri!»

    Fingo di sbadigliare. «È già arrivato il momento di andare a dormire?»

    «Stupido. Mi piacciono i wylifti!» Aurelia mi dà un buffetto con la punta del tentacolo.

    «A te piace tutto, Lia».

    Un paio di spie si spengono. «È… è una cosa negativa?»

    Mi stringo nelle spalle. «No. Suppongo di no. Tranquilla, ti stavo solo prendendo in giro».

    «Non capisco mai quando scherzi».

    «Lo so. È per questo che mi diverto tanto».

    Squilla il cellulare.

    «Dimitri! Videochiamata in arrivo!»

    Aurelia scivola giù dal letto, striscia fino alla sedia. Avvolge il telefono in un paio di giri di tentacoli, torna da me e me lo porge.

    «Chi ti sta chiamando?»

    «Evelina. Di nuovo».

    Una spia lampeggia, altre si spengono e si riaccendono. «Che palle».

    Rido. «Esatto. Su, da’ qua».

    Prendo il cellulare, accetto la chiamata. Il volto rugoso di Evelina appare sullo schermo. La vecchiaccia mi sorride.

    «Buonasera, Dimitri!»

    «Buonasera, Evelina. Tutto a posto? Come sta?»

    «Che stavi facendo?»

    Odio quando fa così. Io lo so che prima o poi le risponderò male…

    «Niente di importante. Mi stavo rilassando in attesa della cena». Lancio uno sguardo all’ora sul portatile. «Ultimamente il lumacone ci mette sempre una vita ad arrivare».

    «Perché è un lumacone!» Evelina scoppia a ridere.

    Produco una risatina. «Già, ha proprio ragione!»

    «Che caro ragazzo che sei, Dimitri». Evelina si fa più seria. «Quindi non sarà un problema se questa vecchietta ti chiederà un favore?»

    Oh, no. Che le è saltato in mente, oggi?

    «Io…»

    «Riesci a fare un salto da Alberto? È tornato stamattina da Roma, mi ha preso quel nuovo libro su Visnù». Fa una pausa. «Te ne ho parlato qualche giorno fa, te lo ricordi?»

    «Naturalmente. Vita e sogni di Visnù Cristo». Un libro per dementi come lei.

    Sul volto di Evelina si allarga un sorriso. «Proprio quello! Me lo vai a prendere?»

    Perché invece di chiamare me non chiama suo figlio e lo fa venire qua coi suoi piedini? Non sono il suo schiavo!

    «Evelina, io…»

    «Ah! Già che ci sei fa’ anche un salto in farmacia. Ti ricordi le mie credenziali NautiloID?»

    Annuisco. «Sì, ma, Evelina…»

    La vecchia mi lancia uno sguardo rugoso. «Che c’è, Dimitri?»

    «Un… un secondo, mi scusi».

    Appoggio il cellulare sul letto, vado alla finestra. Maglietta è sempre lì che balla in mezzo alla strada. La borsetta della ragazza non c’è più. L’uomo si ferma all’improvviso, come se si sentisse osservato. Indietreggio prima che possa notarmi.

    Torno al letto.

    «Tutto a posto, Dimitri?» Evelina mi guarda preoccupata.

    Abbozzo un sorriso. «Sì, tutto a posto».

    «Mi faresti questo piacere, allora? Aiuteresti questa povera vecchietta?»

    Questa povera vecchiaccia. «Lei non è vecchia, Evelina…»

    «Oh, sì, lo sono». Accarezza la croce d’argento che porta al collo. «Lo sono, eccome. Grazie, Dimitri. Ci sentiamo dopo».

    L’immagine di Evelina scompare.

    Vecchia volpe, mi ha fregato di nuovo! Ma oggi andrà diversamente, oggi non farò il suo gioco. D’ora in poi la musica cambia: vuole quel libro per dementi? I suoi stupidi farmaci? Ci penserà Alberto.

    Raggiungo la finestra. La via è deserta, Maglietta è scomparso. È tornato a casa?

    Stringo la maniglia e spalanco il battente. Un soffio d’aria fredda entra in casa, rabbrividisco. Allungo il collo, quanto basta a vedere più in là lungo la via.

    Eccolo. Maglietta si è semplicemente spostato, sta saltellando all’angolo con via Trento. Una macchina morbida a strisce verdi e gialle gli passa accanto senza fermarsi. Dietro di lei, simili ad anatroccoli, quattro piccole mamo fatte di cartone e lamiera.

    Rabbrividisco di nuovo.

    Non posso scendere. Non finché Maglietta bighellona per strada. Non posso rischiare che mi fermi: non è che non voglio fare il favore a Evelina, glielo farei…

    No. Non se ne parla, è troppo pericoloso. Evelina dovrà aspettare.

    Richiudo la finestra, piano.

    La luce sta calando. Dalle strade si alza il ronzio dei colibrì, che col becco proiettano la pubblicità su pareti e finestre. Le nuove arche del sonno Nautilus. Galantamina per ricordare meglio i sogni. Godzilla vs. Gorgo.

    Torno a letto.

    «Stella marina».

    «Sì?»

    «Pensavo…»

    Aurelia mi accarezza con un braccio. «Sì».

    «Aspetta. Non così».

    «Ti ho fatto male?»

    «No. Tranquilla Lia, sei bravissima».

    Prendo il portatile.

    Se penso che lo sto facendo con una mamo mi blocco. C’è chi non ha problemi. A me fa un po’ impressione, ogni volta mi tocca mettere su un video.

    Aurelia ritrae il braccio.

    «Che succede? Hai cambiato idea?»

    «Sta suonando il campanello!»

    Ha ragione! La cena!

    Balzo giù dal letto, corro verso la porta. «Riprendiamo fra poco, Lia».

    Fermo le dita a un centimetro dal tastierino.

    E se fosse Evelina?

    Peggio: e se fosse Alberto?

    Dall’altra parte della porta, una voce metallica: «Signor Manganelli?»

    «Sì! Sì! Aspetta, ti apro».

    Le spalle si distendono, sospiro. Premo il pollice sul pulsante d’apertura. La serratura si sblocca, la porta inizia a scorrere dentro la parete. Il lumacone è anticipato da una zaffata che sa di limone e simil-elio.

    «Buonasera, signor Manganelli».

    Il volto del robot insegue le parole prodotte dall’altoparlante, ma è sempre in ritardo. Le labbra si muovono fuori sincrono, gli occhi sono anche peggio – a volte si fermano nella posizione sbagliata.

    «Buonasera a te».

    Mi sporgo dall’ingresso e mi guardo attorno. Sul pianerottolo non c’è nessuno tranne noi. La porta di Evelina è chiusa.

    Cosa le dico se all’improvviso esce di casa?

    Meglio darsi una mossa.

    Annuisco al lumacone, vado al suo fianco. La cassa di metallo sul dorso del robot è sporca di vomito. Per fortuna che il coperchio è pulito.

    «Apri la cassa, per favore».

    Le antenne del robot ondeggiano. Due scatti, la cassa si sblocca. Sollevo il coperchio. Un odore di fritto mi riempie le narici. L’interno della cassa contiene una dozzina di sacchetti di carta unti e cinque o sei vassoi avvolti alla bell’e meglio nella plastica. Rovisto finché non trovo il vassoio col mio nome stampato sull’etichetta.

    «Eccola qui. La mia cena».

    Richiudo la cassa, faccio un passo indietro. I blocchi scattano a pochi secondi di distanza uno dall’altro. È un modello vecchio, questo lumacone. Non ce la fa più. È già un miracolo se è riuscito a fare le scale.

    Batto due volte la mano sulla cassa. Il metallo rimbomba.

    «Grazie, caro».

    «Domani alla stessa ora?» Il lumacone torce il collo verso di me, le labbra articolano in silenzio quanto ha appena detto.

    Certo, se ce la fai… «Stesso menu, stessa ora. A domani».

    Il robot inizia a scendere le scale. La gomma che compone il suo corpo giallo è sporca e sformata, a ogni gradino le crepe si fanno sempre più profonde.

    Lancio un’ultima occhiata alla porta di Evelina e rientro in casa. Premo il pulsante per far richiudere la porta. Il meccanismo si mette in moto, la porta si muove di circa quindici centimetri, si ferma.

    Sbuffo. Appoggio il vassoio della cena sul tavolo, afferro la porta con entrambe le mani e tiro. Qualcosa dentro il muro stride, la porta ricomincia a scorrere. Si è richiusa. Il tastierino si illumina di verde.

    Il tecnico ha detto che sarebbe venuto nel giro di un paio di giorni. Ne sono passati quindici. Forse è il caso di richiamarlo…

    In piedi davanti al tavolo, strappo la plastica che avvolge il vassoio. In uno scomparto ci sono le formiche tostate, in un altro la carbonara con le pupe di bachi da seta. C’è anche un grumo verde scuro. Spinaci. E una bustina di galantamina da sciogliere nell’acqua.

    Prendo un bicchiere di plastica dalla credenza, apro il rubinetto e lo riempio d’acqua. Strappo la bustina e ci verso la galantamina in polvere. L’acqua fa le bollicine, diventa bianca. Mando giù tutto. È più amara del solito.

    Mi siedo al tavolo. Afferro il sacchetto dove tengo le posate di plastica e prendo forchetta e coltello.

    Arrotolo gli spaghetti con la forchetta e li porto alla bocca. Sono tiepidi e gommosi. Le pupe si sfaldano sotto i denti, non hanno alcun sapore. Il formaggio si sente appena. Raccolgo un po’ di spinaci aiutandomi col coltello: sono freddi e viscidi come alghe appena strappate dal fondo del porto. Sospiro, appoggio la forchetta e il coltello al lato del vassoio.

    Non posso andare avanti così. Il problema non è Evelina, è Maglietta. Mi sta condizionando l’esistenza.

    Posso farcela. Farmacia e casa di Alberto. Venti minuti, mezz’ora e sono di ritorno a casa. Evelina è felice, io sono felice, ce ne andiamo tutti a letto contenti.

    E poi dove sta scritto che Maglietta deve sempre prendersela con me? Sono passate due settimane. Si sarà dimenticato la mia faccia.

    Mi infilo in bocca una manciata di formiche tostate. Inspiro a fondo, sorrido: sì, posso farcela!

    Apro l’armadio e prendo il cappotto, lo scuoto. Una nuvoletta di polvere si spande attorno a me. Arriccio il naso, trattengo uno starnuto. Infilo le braccia nelle maniche e tiro su il collo.

    Premo il pulsante di apertura. I meccanismi si mettono in moto, la porta inizia a scivolare dentro la parete.

    E se si fermasse? Non potrei fare il favore a Evelina, ma almeno non correrei il rischio di incontrare Maglietta…

    La porta è scomparsa dentro la parete: immagino sia un segno. Uscirò di casa, è destino.

    Supero la soglia. La porta si richiude alle mie spalle. Stringo il corrimano e inizio a scendere le scale. Il cuore accelera i battiti. I muscoli delle braccia e delle gambe si tendono sempre più. Non ho percorso nemmeno metà rampa… Deglutisco, faccio un bel respiro.

    Il pianerottolo del primo piano è deserto. Le porte sono chiuse, ma dall’interno degli appartamenti filtrano i suoni di videoclip musicali, giochi a quiz, film porno.

    Qualcosa scricchiola sotto le scarpe. Appoggio una mano alla parete fredda, sollevo il piede. Frammenti di gomma sporca nelle scanalature delle suole. Batto il tallone un paio di volte, i pezzettini cadono sul pianerottolo.

    Mi sfugge un sospiro tremolante. Riprendo a scendere le scale, i muscoli delle gambe e delle spalle sempre più rigidi. Il cuore picchia contro lo sterno. Vorrei poterlo ignorare, come vorrei poter ignorare la pelle del volto che tira, la canottiera e le mutande che iniziano a bagnarsi di sudore.

    Ci sono quasi. Forza.

    Mi fermo, un piede ancora appoggiato all’ultimo gradino. Nell’androne ci sono due persone. Due senzaletto, un uomo e una donna. Se ne stanno rannicchiati in un angolo a tremare e ad asciugarsi il sangue che gocciola dai nasi. Qualcosa mi dice che il loro risveglio non è stato dei migliori.

    Chi li ha fatti entrare nel palazzo?

    L’aria puzza di succhi gastrici e di latte rancido. Ecco chi ha sporcato la cassa metallica del lumacone, sono stati loro!

    La donna si tende, viene scossa da un conato. Strabuzza gli occhi, si tappa la bocca con una mano. Le iridi scompaiono dietro le palpebre, piccoli fiotti di vomito le escono dagli spazi fra le dita. Si pulisce la mano sulla giacca, prende una rumorosa boccata di ossigeno.

    L’uomo abbraccia la sua compagna, piagnucola. «Elena…»

    Risalgo di un gradino. Il senzaletto alza lo sguardo su di me, deve essersi accorto della mia presenza solo ora. Dice qualcosa, biascica un nome. Lo ripete ancora e ancora, le labbra spaccate dai geloni e lucide di bava.

    «… dentata. Sono stati quelli di Manodentata. Aiutaci».

    Ho risalito altri due gradini senza rendermene conto. Stringo il corrimano con dita tremanti.

    «Aiutaci». Il senzaletto indica la compagna. «Manodentata…»

    Indietreggio. «Io…»

    Manodentata. Manodentata. Il nome mi dice qualcosa: dove l’ho già sentito?

    Comincio a risalire le scale.

    L’uomo allunga una mano verso di me. «Fermo, dove vai?»

    Scuoto il capo.

    Mi dispiace, davvero, ma non è colpa mia se si sono messi nei pasticci sull’Uovo. In primo luogo non avrebbero dovuto iniziare a farsi di G++. Non c’è niente che possa fare per loro: hanno fatto la loro scelta, la scelta sbagliata.

    La donna si libera dall’abbraccio dell’uomo. La pelle è tesa e imperlata di sudore. Si guarda attorno con occhi gonfi e arrossati: è convinta di trovarsi ancora sull’Uovo?

    «No… No… Per favore!»

    Appoggia le mani per terra, si mette a quattro zampe. Dalla gola le esce un gorgoglio. Vomita ancora.

    Forse dovrei chiamare

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