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Francesca da Rimini
Francesca da Rimini
Francesca da Rimini
E-book150 pagine2 ore

Francesca da Rimini

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Info su questo ebook

Una reinterpretazione in chiave contemporanea delle vicende di Francesca da Rimini, mischiando le vicende dantesche e i drammi di sangue rimasti nella memoria dei canti popolari. Il testo scardina e reinterpreta i tradizionali rapporti tra Francesca, Paolo e Gianciotto, e arriva a un’imprevista conclusione per la presenza di un personaggio, il figlio di Francesca, che risulterà fondamentale non solo per comprendere le vicende, ma anche lo stile del racconto.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2018
ISBN9788863938470
Francesca da Rimini

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    Anteprima del libro

    Francesca da Rimini - Mariagrazia Pia

    SATURA

    frontespizio

    Mariagrazia  Pia

    Francesca da Rimini

    ISBN 978-88-6393-847-0

    © 2018 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale. 

    A Cinzia

    Il poeta è un fingitore.

    Finge così completamente

    che arriva a fingere che è dolore

    il dolore che davvero sente.

    F. Pessoa, Autopsicografia

    Asti, 25 luglio 2017

    Cara Anna,

    come mi diceva sempre mia madre, amare non è restare, raccontare non è capire, forse è il gesto lento di chi vuole nascondere le tracce di un passaggio, di una nostalgia. 

    Tu non riuscivi proprio ad accettare certe sue massime, lei me lo diceva spesso, sorridendo per la tua insofferenza che aveva imparato ad accettare come una carezza.

    È dolce e consolante ricordare pensieri altrui, rimettere al loro posto, come soprammobili, le emozioni che qualcuno ci ha confidato e a cui abbiamo creduto, perché sembravano segreti.

    Mi hanno chiesto la verità e io non sapevo cosa fosse. Non volevo mentire, solo che non capivo davvero cosa mi stessero domandando. Ho provato, certo, a ricordare, ma questo non ha mai significato pentimento.

    Sapevo che la greca Άλήθεια (Alétheia, la Verità) vien fuori dal nascondimento: io invece ho fatto di tutto per ricoprirne nudità innocenti, anche quando sembravano colpe. 

    Non si può guardare Noè senza abiti, non si può contemplare la Verità spoglia, ebbra, senza peccare.

    Il gesto pietoso è di chi distoglie lo sguardo o copre, con pensieri, altre emozioni e parole, il corpo nudo di Alétheia, della Verità addormentata, fragile, esposta al riso di chi la vede indifesa. Essa non si protegge mai.

    Ci misi tre anni per scrivere, correggere, rivedere questo romanzo, sì, perché, se fosse una cronaca, sarei un impreparato cronista. Me la sono inventata mia madre, i suoi amori li ho ricreati alla luce del dopo, di ciò che poi è successo, i suoi pensieri li ho immaginati, ma credo di averla conosciuta bene e di non aver sbagliato di molto. 

    O forse sì. Lei non avrebbe fatto meglio, avrebbe detto altre verità, altre bugie, portato coperte di lana, mentre io ne ho prese di piuma d’oca e ho protetto la Verità, credendo di tenerla al caldo.

    Ho citato i suoi pensieri a memoria e certo il ricordo inganna, corregge, aggiunge, deforma. 

    Non ho morale, non ho emozioni, forse sono stato davvero un cronista attendibile.

    Volevo provare a scrivere come un romanzo su di lei; prendere un personaggio e rigirarmelo nella mente in un caleidoscopio, descriverlo ogni volta diverso. Lei era così mutevole che la realtà attorno si disponeva per farle spazio, per essere la giusta cornice o per integrare quello che a lei mancava.

    Giudicai che fosse il titolo giusto: Come Francesca da Rimini, non perché si chiamasse Francesca, ma perché lei si pensava così, cercava di spiegarsi e mi leggeva i versi di Dante.

    Non aveva parole sue, se non per dire che diversamente da Francesca aveva agito, amato, sofferto. 

    Spero che in questo modo tu la possa ricordare meglio o forse riesca finalmente a dimenticarla, ritrovandola così diversa da come credevi che fosse, nella tua, nostra nostalgia.

    Con affetto,

    Luca

        PARTE PRIMA

    CATABASI

    o

    La discesa nel Giardino dei piaceri di Bosch

    Galeotto fu il libro

    La stanza è nella penombra, il color crema dei mobili sembra colato anche sulla pelle di Francesca, che non si protegge. I libri, alle pareti o abbandonati per terra, quasi la soffocano; le dà nausea il verde del pavimento dove non riconosce i suoi abiti sparsi.

    Le è addosso l’odore di sigaro, spento come la passione che non l’ha consumata, solo sfinita. 

    Tra i cuscini trova il suo orecchino, non ricorda se per un bacio lui glielo abbia delicatamente tolto o se, bruscamente, nello scostare i capelli lo abbia trascinato via, facendole male. Forse è stato così.

    Sente bruciare un poco la guancia, si riprende da un sogno d’amore o da un dolce incubo. Enrico deve averle percosso il volto, per rabbia di non possederla abbastanza, per desiderio di vederla soffrire, come se dovesse sempre avere bisogno di lui.

    La vuole bella e sottomessa, in estasi, ma senza richieste di altre estasi; assetata per quando lui ridiventi acqua, affamata nel momento in cui lui creda di essere il suo cibo. Lei deve essere sempre senza volontà.

    Francesca si muove lentamente, come se fosse ferita, per non svegliarlo; non osa neppure tirarsi addosso le coperte, che sono rimaste schiacciate da lui.

    Abbraccia le proprie gambe e appoggia la testa sulle ginocchia. Sente l’odore di un altro corpo, tra l’amaro del fumo.

    Alza lo sguardo verso la libreria dove è rimasto il vuoto di alcuni volumi presi e deposti accanto al letto, quelli che avrebbero dovuto leggere. Dentro, il vuoto delle parole non dette, dei sorrisi e delle risate, una promessa non mantenuta. 

    Alzando lo sguardo da terra, l’aveva vista seduta sul bordo del letto, per un attimo assente. Era bastato per immaginare che lei volesse quello: pensare solo alle labbra, così vicine, dell’uomo che stava per farla sentire così debole, così sua.

    Le mani di Enrico, però, non l’avevano accarezzata. Sembravano cercare qualcosa, come un ladro che vuole trovare denaro, oggetti preziosi, addosso alla vittima bruscamente immobilizzata.

    Lei si sente come derubata della sua stessa pelle, ora arrossata da tanto frugare. Non si muove ancora, deve riprendersi il proprio corpo; lui, accanto, sembra una statua che respira, un estraneo quasi immobile, così diverso da poco prima.

    Ricorda quasi tutto come un sogno che ha un riferimento, ma stravolto, all’ultima cosa detta o pensata prima di addormentarsi, all’ultimo spezzone di film o alle pagine chiuse di un romanzo sul comodino.

    Quell’ora di amore le sembra fuori dalle sue immagini coscienti. 

    Non vuole scusarsi, trovare giustificazioni; vorrebbe, però, riprendere quel momento, annodarlo ai precedenti e ai successivi attimi. Cartesio diceva che c’è un criterio per riconoscere i pensieri nella veglia dalle immagini del sonno: la coerenza, l’ordine. Francesca si sforza di imporne uno a quell’ora di passione unendola al prima, al dopo non vuole neppure pensare.

    Credeva di poter essere con Enrico, fuori e dentro il letto, la Francesca che si sentiva in quel momento, senza ricordi, senza attese, senza pudore, nel piacere come nel dolore. Avrebbe voluto essere la donna che il marito non vedeva e non baciava mai: ne ricordava un’altra, quella di anni prima, timida e impacciata o ne immaginava una diversa, quella che sarebbe diventata, forse, anche dopo essere stata tra le braccia di un amante.

    Enrico si muove di scatto e la sua gamba la tocca, la fa sussultare; cadono quei pensieri su Fabio, il suo stesso racconto le appare ridicolo.

    Anche se l’ha solo sfiorata, il contatto le fa sentire il peso di poco prima e non prova più piacere, ma fastidio. 

    Come se immaginasse la reazione, Enrico allunga la mano a cercarla; basta questo a far traboccare Francesca di tenerezza, quasi pentita di essersi così tanto allontanata da lui, in pochi centimetri di letto.

    «Ciao.» La guarda, rassicurato dalla sua presenza.

    «Mi sembra di essere tornato da una lunga nuotata in mare aperto. Ti ho mai detto che i miei genitori volevano facessi gare di nuoto? Lo odiavo, ma sono diventato bravo, mio malgrado. È stata davvero una bella nuotata!»

    Francesca gli sorride, insiste a chiedergli altri particolari.

    «Il mare com’era? Agitato o molto calmo? Le onde ti trascinavano o le cercavi per essere più veloce?»

    La incuriosisce quella metafora, è chiaro che lei si sente mare e vuole sapere cosa lui abbia provato.

    Enrico le sorride, ironico, non vuole dirle troppo, ma, come per offrire un dono, continua.

    «Ho iniziato per il piacere di tuffarmi, di muovermi, poi le onde hanno iniziato a crescere, a farmi da barriera, da ostacolo. Cercavo di tagliarle, altre volte mi lasciavo trasportare e mi mancava il fiato. A un certo punto ho avuto paura, sì, paura di essere sommerso, di annegare. Sarà in quel momento, scusa, che ti ho percossa, spero di non averti fatto troppo male.»

    Le tocca delicatamente la guancia, ancora un po’ arrossata, l’accarezza e la bacia, fermandosi sulla sua pelle.

    «Non me ne sono quasi accorta. Continua.» 

    Mentire a volte serve a sapere ciò che è essenziale in quel momento.

    «Era come se avessi bisogno di sentire che avevo ancora forza, mentre venivo sopraffatto dalle emozioni.»

    Enrico respira profondamente al ricordo di quel momento, gli occhi sgranati, come se fosse ancora spaventato, se temesse di annegare al solo ricordo.

    Fare l’amore con la paura di ciò che si prova, ecco cosa lo univa a Francesca e li rendeva così disperati in quel letto, come nella vita, dove confondevano dolore e piacere, terrore e passione, desiderio e orrore.

    Lei tace, vorrebbe ascoltare altro, sapere cosa è successo in lui. Non le importa se le è costato dolore, se l’ha resa felice.

    «Ora sono a riva, in salvo. La prossima volta nuoterò con più coraggio.»

    L’accarezza con dolcezza, non la sta frugando come prima, con il sospetto che gli nasconda qualcosa; ha la certezza che è diventata sua.

    Francesca glielo lascia credere, perché vorrebbe fosse così. Quasi gli striscia vicina, distende le gambe, lo copre con il suo corpo. Enrico non ha più la forza della lotta, ma il languore dei baci, delle carezze con cui ritorna a ricoprirla.

    Forse semplicemente non ha più paura.

    Sembrano in pace, entrambi di nuovo a riva.

    Lei non si è consegnata come schiava, lui non si impone come orgoglioso vincitore. Il piacere gli ha dato debolezza e tenerezza, quelle che diversamente non prova mai, tra il sarcasmo e la rabbia, per qualunque frase lo contraddica o sembri sminuirlo.

    Francesca solo così avrebbe avuto le sue ore di felicità. Ormai ne è sicura e delusa allo stesso tempo.

    I libri, galeotti, lasciati da parte, forse non saranno mai più ripresi; restano a guardare dalle librerie, sparsi sui tavoli, sui divani, tra i cuscini del letto, abbandonati distrattamente dalla sera prima, quando Enrico si era addormentato leggendo. Non sapeva ancora che sarebbe riuscito a portarsi a casa Francesca: gli era piaciuta subito, ma entrambi si sentivano sicuri

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