Ricordati di me
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Anteprima del libro
Ricordati di me - Mariagrazia Pia
Parte Prima
Il mondo come rappresentazione
«Salsi colui che ‘nnanellata prima,
disposando m’avea con la sua gemma.»
Capitolo I
L’interrogatorio in commissariato
«Non mi sono mai sentito così lucido, tranquillo, a mio agio. È una bellissima giornata di febbraio, quando sembra già primavera. Quest’anno non ci sarà Marta accanto a me, né i successivi. La mia vita è un orizzonte finalmente sgombro, un fiume che può scorrere senza macerie trascinate dalle sue stesse piene: proprio in una di queste si è liberato il mio alveo, la corrente non ha solo trasportato, ma allontanato ogni ostacolo al libero fluire verso il mare, quello che ora si mostra un orizzonte senza nubi, coperto da un cielo che pare il suo stesso riflesso. Respiro, nato dal pianto, privo di lacrime, con il sorriso, avvolto dai miei pensieri. Mi piacciono, per la prima volta, gli abiti che indosso, eppure sono i soliti; non ho la sensazione di freddo, quel freddo che viene da dentro, da cui non mi potevo proteggere. Neppure sudo, per ansia, affanno, timidezza, per troppi vestiti, forse dovrei… Lei, commissario, se lo aspetterebbe! Sento il mio stesso calore, come un respiro profondo, riportarmi in superficie, emerso da un’esistenza in apnea. Non so come abbia potuto resistere così a lungo. Anche i rumori, che giungevano prima attutiti, ovattati oppure troppo acuti, ora sembrano adatti al mio udito. Tutto è a posto, rassicurante, accogliente e non c’è più lei. Mi creda, non l’ho uccisa io per potermi sentire così.»
Una pausa per capire se mi prendeva sul serio, una pausa per credere alle mie stesse parole.
Non mi accorgevo neppure di essere in un ufficio della polizia. Eppure la scrivania riempiva tutta la stanza, a ripensarci ora; dietro allo schermo del portatile, seminascosto, c’era l’uomo che doveva e poteva decidere del mio fermo. Vedevo di tanto in tanto lo sguardo alzarsi e posarsi su di me, i capelli grigi piuttosto lunghi, arruffati, le braccia posate sulla scrivania, nelle pause della trascrizione. A lungo rimasero così abbandonate, le maniche della camicia malamente arrotolate, certo lui una moglie puntigliosa non doveva averla. In effetti si era fermato e dopo la trascrizione delle mie generalità non riportava ciò che gli dicevo.
Peccato!
Non capiva che era una storia nuova quella che gli raccontavo.
Mi ricordo ancora la riproduzione del quadro di Klimt Nuda Veritas. Pensai subito che doveva essere un commissario con una sensibilità artistica molto intensa, direi febbrile.
«Non provo nulla: dovrei sentire dolore, disperazione, nostalgia. Dovrei, ma non riesco. Sono vivo, non ho spazio per nessun pensiero, nessuna emozione. Esisto e mi hanno detto che lei non c’è più. Non posso farci nulla.»
Di fronte alla scrivania del commissario le mie parole sembravano polvere che si posa piano, intercettata dalla luce: filtrava dall’alto del finestrino, faceva sembrare la stanza rettangolare una rimessa, una cantina, invece eravamo al secondo piano. Fuori le torri di Alba, il Tanaro limaccioso tra la nebbia a fior d’acqua, doveva essere così, come tutti gli anni.
Il grigio sbiadito alle pareti diventava la luce, che non veniva schermata, perché avrebbe dovuto trasmettere agli interrogati quella pressione che poteva indurli a parlare.
Il commissario era annoiato, ma non mi interrompeva, pensava che prima o poi avrei detto qualcosa di significativo. Scriveva e cancellava nervosamente, forse neppure quello che gli stavo dicendo… Aveva ancora l’abitudine di usare la penna e fogli sparsi, mi sembrava il resto di fotocopie usate. Sentivo che non stava facendo qualcosa di ufficiale, di rigoroso, ma mi aspettava, con nervosismo. Eppure mi aspettava.
Capiva che mi piaceva ascoltarmi, pensare alla mia vita, anche se (o proprio perché) non sarebbe più continuata come prima.
Se ero l’assassino, non sembravo pentito, neppure facevo molto per difendermi. Se avevo subito una grave perdita, questo lo dicevano gli altri, io non avvertivo dolore, neppure sollievo. Stavo tornando a percepire me stesso, senza legami, senza affetti, rancori o passioni.
Cercavo di catturare l’attenzione del commissario su di me, gli toglievo da sotto gli occhi il cadavere della vittima, il pensiero dell’arma del delitto. Non volevo pensasse a me solo come a un assassino. Ero lì proprio perché c’erano degli indizi. Quei pochi portavano solo a me.
Ero stato un marito, ma da quel momento volevo essere una persona, attirare la mia e la sua attenzione. Non ero il marito, l’assassino di Marta, ero io, qualcuno senza fare riferimento a lei da cui non ero riuscito a prescindere per un’intera vita insieme.
«Dovrebbe dirmi qualcosa di più di su Marta.»
Come se fossi stato scosso da un sonno leggero, appoggiato al tavolo, mi ripresi, mi diedi un contegno e con sollievo trovai la forza di dire: «Certo, solo capendo Marta potrete scoprire perché è morta. Con il mio aiuto troverete chi l’ha uccisa».
«Se vuole confessare subito, le risparmio la descrizione di Marta, ma visto che le piace raccontare e poi non avrà molte occasioni, faccia pure.»
Non mi sembrava ironico, si sarebbe potuto dedurre che il processo, non solo l’istruttoria, fossero terminati; volevo fargli almeno intravedere che era fuori strada. L’assassino lo avrebbe trovato, ma con il mio aiuto doveva fare un giro più lungo, però non a vuoto. Non percepivo ancora che apprezzasse la mia disponibilità, sebbene anche lui si stesse spostando su un altro piano e cercasse di regredire a quel primo genere di conoscenza che è l’immaginazione.
«Marta trascinava il proprio corpo come una bambina curiosa porta la bambola con cui ha tanto giocato, la tiene per mano svestita o rivestita da abiti da lei stessa cuciti; sulla schiena ha scoperto l’ingranaggio per le pile con cui parla e sorride, i capelli prima a trecce, poi scompigliati e in parte colorati con i pennarelli, la faccia segnata con il blu e il rosso, per ridisegnare la bocca e gli occhi. A volte dimenticava di avere quel corpo e produceva strani sussulti gesticolando con l’anima. Capitava ridesse come la bambola che aveva da piccola, Valeria, un metallico ingranaggio la faceva sentire gioiosa. Valeria non divenne una bambina vera per nessun Geppetto e Marta non divenne una donna reale.»
«Cosa vuol dire che non divenne mai una donna reale? Forse chi l’ha uccisa non ha spezzato la vita a un essere umano, ma ha distrutto un giocattolo rotto? Vuole provare a impostare il processo contro di lei, come persona incapace di intendere e di volere per gravi disturbi mentali?»
Si stava infuriando, credeva in un inganno, un’idea del mio avvocato. Lo rassicurai subito.
«Certo che no, sono capace di intendere e di volere, soprattutto di volere, adesso più che mai. Cercavo solo di spiegarle chi fosse Marta per farle capire chi può averla uccisa non per gelosia, amore, vendetta o ricatto. A ben pensarci doveva sentirsi come me ora, senza emozioni, passioni, quasi senza ricordi. È stata uccisa Marta, non troverà precedenti in archivio, letteratura scientifica sulla tipologia di assassinio, ha capito che è morta Marta? Lei non sa chi fosse e non può vedere la differenza.»
Si tolse la giacca, non faceva caldo, ma lui certo si sentiva soffocare, lui sì, io no, potevo tenere la mia senza soffrire disagio. Mi fissò un attimo per vedere se fosse uno scherzo, una provocazione o veramente un segno di… follia.
Decise di non averlo ancora capito, appoggiato alla scrivania afferrandone i bordi con le mani dietro di sé, si mise proprio di fronte a me, nulla ci separava se non venti centimetri. Non ero ammanettato, avrei anche potuto aggredirlo, anche se non aveva alcun senso, come lui non ne vedeva nelle mie parole, ma proprio questo lo spinse a cercarne uno.
«Vada avanti. Mi presenti Marta, me la faccia comparire davanti agli occhi, Cristo santo, come se fosse qui, mi faccia sentire la sua voce!»
Sapevo che dietro un vetro, non visti, c’erano i poliziotti che mi avevano arrestato, e forse anche i periti psichiatri pensavano, interdetti, che stesse al mio gioco per farmi parlare. Loro, però, da lì non avrebbero potuto vedere Marta, come io stavo per mostrarla al commissario in quel momento.
Sul cadavere non si erano trovati indizi dell’assassino. Lo invitavo soprattutto a cercare nell’anima di Marta i segni del suo aggressore, colui che davvero aveva lasciato così tante tracce da non permettere che se ne trovasse una come prova.
Capitolo II
L’identikit
«Mi descriva Marta, per ora ho solo davanti a me due occhi malinconici, pieni di nostalgia, in momenti di pericolo freddi e quasi assenti. Le braccia raccolte accanto ai fianchi, le mani in tasca. Le sembra molto? Dal momento che lei vuole che passi attraverso la vittima per cercare l’assassino, mi permetta di fare l’identikit di Marta, mi descriva come se la ricorda, non importa che abbondiamo di foto da quando è nata a… quando è diventata un freddo cadavere. Immagini che non abbiamo nulla!»
«Forse non mi ha capito. Non serve che la descriva come la vedevo io, che era davvero come la vedevano tutti. La devo descrivere come si vedeva lei, da quel che mi diceva. Chi l’ha uccisa deve prima esserne stato affascinato, l’ha ammirata per come lei si guardava ed è stato il primo e ultimo!»
Il commissario sembrava turbato dalla sua stessa proposta apparentemente inutile dell’identikit e io rilanciavo con una follia dicendogli che era l’identikit che avrebbe fatto Marta di sé a diventare interessante per trovare l’assassino che l’aveva finalmente confortata vedendola allo stesso modo. Quando gli era sembrato di propormi già il massimo dell’assurdità per un’indagine di polizia e non per una seduta con l’analista, ecco che io lo spingevo oltre. Mi sembrava, però, affascinato. Non sapeva dove saremmo arrivati, forse sperava all’assassino oppure a una verità più profonda. Comunque non rinunciò.
«Va bene, proviamo. Io so disegnare abbastanza bene, al liceo mai avrei immaginato di finire in un commissariato. Avevo anche pensato di frequentare l’Accademia d’arte, ma, alla fine, tutto serve (che brutta espressione)! Non sono bravo come i nostri esperti, perché aggiungo del mio, non riesco a fermarmi ai dettagli che mi forniscono, voglio dare una personalità al volto del ricercato. Forse ora sarà essenziale interpretare, dare una luce agli occhi spenti della vittima. Ci sono tecnologie per ricostruire i volti da teschi manchevoli, ritrovati dopo anni, ma nessuna di esse può rielaborare i pensieri di qualcuno su di sé. Se ho ben capito, qui dobbiamo evidenziare quei tratti che può aver visto un assassino dalla percezione distorta come quella della vittima. Forse questa volta ci vuole un tocco artistico.»
Sembrava aver accettato la sfida. Ero contento che fosse dalla mia parte, non mi importava che avesse poi scoperto la verità.
Ero rinfrancato, iniziai a fornirgli dei particolari.
«Era piuttosto piccola, grassottella, le guance paffute… Si guardava di profilo per vedere quanto fossero arrotondate. Una bocca larga nel ridere, non le