Il tuo nome: 1220 Anno Domini
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Anteprima del libro
Il tuo nome - Natalino Faletti
PROLOGO
1220
Orso sedeva accanto alla finestra e guardava verso la valle. Le mani stringevano i braccioli, quasi per sorreggere il corpo appesantito. Il respiro era affaticato e il pensiero di Francesco, il suo segretario, lo tormentava.
Mi sei stato caro più di mio figlio, eri suo amico, e l’hai ucciso. Assassino! Perché? Ti ho mandato a morte. Lapo, figlio mio. Non ti ho amato abbastanza e ora sono qui, vecchio, senza di te e senza Francesco.
Intorno al patibolo, sotto, la folla taceva. Il grande silenzio che filtrava dalla finestra fu lacerato all’improvviso da un colpo sordo. Orso sobbalzò. Francesco non era più. Il marchese chinò il capo, congiungendo le mani. Le lacrime gli si affacciarono agli occhi. Un servo cercò di avvicinarsi e il marchese l’allontanò con un gesto.
Antida, in ginocchio nella cappella, tentava di mettere insieme una preghiera. Stavano per giustiziare Francesco, l’assassino di suo marito Lapo. Il pensiero le andò ai momenti in cui confidava a Francesco le pene del suo matrimonio, e con la mano gli sfiorava il braccio. Francesco aveva ucciso Lapo e consolava i familiari che aspettavano il suo ritorno. Ma le sue parole di conforto erano sincere, ne era convinta.
Il colpo sordo trapassò le mura della cappella. Antida fu presa dal rimorso di non avere provato, per la morte di Lapo, il dolore che ora sentiva per la morte di Francesco.
Azzo fissò gli occhi in quelli profondi di Lucrezia, per cercare la quiete che la ragione gli negava. Che cos’aveva mosso la mano di Francesco a uccidere suo padre? Gli insegnamenti di Francesco erano vivi, lui abitava ancora nel castello in mezzo a loro.
«Lucrezia, perché quell’uomo è diventato un assassino?»
Il colpo sordo impedì una risposta che Lucrezia non avrebbe saputo dare. I due giovani si abbracciarono. Francesco era stato testimone al loro matrimonio, il marchese Orso l’aveva incaricato delle indagini per il fidanzamento, aveva parlato bene di Lucrezia. Francesco aveva educato Azzo. Adesso Francesco non c’era più.
L’uomo con il saio recitava una preghiera, le mani magre serrate, cercando invano di scorgere nel condannato un segno di pentimento.
Il colpo sordo non interruppe la litania e gli occhi del religioso rimasero chiusi. Solo il corpo ebbe un sussulto e le palpebre non riuscirono a trattenere le lacrime.
Francesco aveva chiesto che fosse lì quel giorno. Era l’ultimo desiderio del condannato: l’uomo con il saio, Gaddo, era suo amico. Era di Rutignano; era partito per la Città della gioia, quella dei miserandi, e si era fatto frate. Gaddo sarebbe tornato alla Città della gioia con il peso di quella morte, dalla quale il giustiziato, che pure l’aveva voluto lì, l’aveva escluso; nemmeno avrebbe potuto raccontare ad Azzo di avere dato consolazione al condannato.
L’esecutore di giustizia coprì con un telo il corpo. Orso, marchese di Rutignano, aveva dato ordine di toglierlo subito alla vista. Che il cadavere di Francesco non rimanesse sotto gli occhi curiosi della folla, perché non c’era niente da vedere né da imparare da quell’esecuzione.
Sara tolse gli occhi dal patibolo; udì il colpo sordo e svenne.
Quando riprese i sensi, le lacrime le scivolavano sulla pelle e cadevano a terra. Lei non voleva sollevarsi, perché Francesco, il suo compagno, era morto. Da quando l’avevano arrestato, lei non aveva più fatto sogni. La notte le portava via la testa e al mattino avrebbe voluto non alzarsi, proprio come adesso. Svenire era stata una benedizione.
Sara non sentiva affanno, perché non c’era più niente per cui affannarsi; era tutto finito. I calzari della gente che se ne andava sollevavano la polvere e il rumore dei passi risuonava nelle sue orecchie. L’esecutore di giustizia si fermò vicino a lei e, constatato che aveva gli occhi aperti, se ne andò.
Si erano allontanati quasi tutti, ma Sara non si levava, anche se aveva finito le lacrime. Quelle già versate le si erano asciugate sulla pelle secca. Il carro portava via il corpo del suo uomo; alla curva il cavallo girò e le ruote sobbalzarono, ma quegli scossoni non facevano male a Francesco.
Sara sentiva il bambino di Francesco nella pancia ed era sicura che sarebbe stato maschio. Aveva la nausea, però non era dovuta a suo figlio; era sfinita. Tremando, si sforzò di sollevarsi sulle ginocchia.
I manovali smontavano il palco dell’esecuzione e i soldati se ne andavano. Uno di loro le si fermò accanto, ma lei non gli badò, persa nei suoi pensieri.
Mi piacevano le tue mani, Francesco. Erano morbide quando mi accarezzavi. Non avevano rughe. Mi piaceva che non fossi cotto dal sole e che avessi un buon profumo, pulito. I tuoi vestiti erano in ordine quando venivi da me, e questo mi faceva sentire importante. Io ti guardavo negli occhi, ma non mi aspettavo di fare l’amore. Non me l’avevi mai chiesto, anche se mi dicevi sempre tante cose e, quando stavi in silenzio, mi sembrava strano.
La notte in cui era stata insieme a Francesco l’aveva un po’ delusa per la troppa fretta. Tutto avrebbe dovuto essere diverso, più lento. Invece era come se un’ansia avesse spinto il suo uomo a fare subito, come se quella fosse non la prima, ma l’ultima occasione. Lo era, difatti, perché dopo qualche giorno Francesco era stato arrestato.
Sara non si pentiva di essersi data a lui e non le importavano le maldicenze, né la solitudine, né i sacrifici che l’aspettavano. Quando il loro figlio sarebbe nato, avrebbe lavorato, tenendoselo vicino.
Lui avrebbe imparato a leggere e scrivere, come suo padre. Avrebbe avuto una bella testa e le mani lunghe, come suo padre. Lei gli avrebbe lavato i vestiti con cura, così le ragazze avrebbero capito che era un signore, come suo padre. Francesco faceva un lavoro importante al castello. Era il segretario del marchese Orso e aveva la sua fiducia. Gliel’aveva detto lui.
Sara non credeva che il suo uomo fosse un assassino, come dicevano, e il marchese non doveva condannarlo a morte. Quando il bambino sarebbe nato, nessun uomo avrebbe voluto starle accanto; ma non importava, perché nessuno poteva sostituire Francesco, né lei lo voleva.
Il soldato si chinò mentre lei guardava la strada e la curva dietro la quale il carro era scomparso.
«Dove lo portate?»
Il soldato non si aspettava la domanda. Gli occhi della giovane erano troppo distanti. Tardò a rispondere.
«Dove lo portate?»
«Al cimitero dei condannati a morte, oltre le mura.»
«Come lo riconoscerò fra tutti?»
Il soldato non replicò e si avviò sulla scia del carro che aveva portato via Francesco. Quando fu avanti di venti passi, Sara si alzò e, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, incerta, lo seguì.
I pensieri straziavano Maria, non lontano dal patibolo. Oh, Dio, non ti è bastato tutto il mio dolore per Arnulfo? Tu me ne hai chiesto ancora. Perché non hai lasciato vivere mio figlio?
Il corpo consumato della vecchia tremava e gli occhi, feriti dalla luce, si volgevano in alto, ridotti a due fessure.
Qualche mese prima suo marito, Arnulfo, era stato trovato morto in una pozza del suo sangue; e ora Maria assisteva alla morte di Francesco, suo figlio, sul patibolo. L’uno e l’altro erano uomini pacifici ed entrambi le erano stati strappati con violenza.
Maria era rimasta sola: il suo unico figlio non le aveva dato nipoti; le sorelle e i fratelli erano lontani, e poi a loro non aveva detto che Francesco era stato condannato a morte.
Aveva guardato il figlio mentre saliva sul patibolo e non aveva gridato, perché non voleva che Francesco si accorgesse di lei. Pregava che, non vedendola, lui l’immaginasse a casa che lavorava, e s’illudesse che lei non sapesse. Era convinta di avere aiutato suo figlio, così.
Il carro con Francesco si era ormai allontanato. Maria si avviò lungo la stessa strada. Davanti a lei camminava una giovane con i capelli mossi dall’aria e la tunica imbiancata di polvere sulle spalle magre.
I suoi passi, le sembrava, erano carichi di pena e di fatica. Perché era venuta a vedere Francesco?
L’uomo con il saio non aveva smesso di pregare, nemmeno quando la gente se n’era andata. Si allontanò quando rimasero lui e le due donne, una giovane e una vecchia, che camminavano lungo la strada polverosa, a qualche passo di distanza l’una dall’altra.
Il tramonto allungò dappertutto le sue ombre, finché nella valle non si accesero i fuochi e nelle case i valligiani si prepararono alla cena.
I
1219
Il convento di Sant’Emerenziana sorgeva sul colle sopra il bosco. Il suo profilo severo richiamava gli sguardi degli abitanti di Rutignano e sottolineava l’isolamento delle monache. Il suono delle sue campane si perdeva al di