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Un lingotto rosso sangue
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E-book137 pagine2 ore

Un lingotto rosso sangue

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Info su questo ebook

Il corpo di una ragazza barbaramente assassinata viene ritrovato nascosto in una siepe ai bordi di una pista ciclabile. Sull’omicidio indaga il maresciallo dei carabinieri Salvatore Milano che ben presto scoprirà gli inconfessabili segreti che si nascondono dietro la sonnacchiosa quiete del paese e che coinvolgono le persone più insospettabili. Aiutato nella sua complessa indagine dalla bellissima indovina Paola, nemmeno i devastanti terremoti del maggio 2012 riusciranno a fermare la determinazione del militare, che per smascherare l’assassino dovrà ripercorrere la scia di sangue lasciata da un antico tesoro gravato da un’oscura maledizione.
LinguaItaliano
EditoreBookRoad
Data di uscita10 ott 2019
ISBN9788833220673
Un lingotto rosso sangue

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    Anteprima del libro

    Un lingotto rosso sangue - Luca Marchesi

    1

    La vecchia carrucola protestò con voce stridula. L’anziano agricoltore sbuffò e tirò con più forza la catena arrugginita. Il secchio colmo d’acqua si bloccò per un attimo, ondeggiando e sfiorando le pareti del pozzo ricoperte di muschio. Minuscole gocce d’acqua scivolarono fuori e precipitarono sul fondo, già nascosto dall’oscurità del crepuscolo. Paolo Affardelli brontolò, prima o poi avrebbe dovuto ungere quella dannata catena. Sua moglie intanto lo stava chiamando, un fastidioso rumore di sottofondo che lo tormentava da una vita. Come al solito la ignorò. A fatica trascinò il secchio sul bordo del pozzo. Per un attimo rimase bloccato, con la schiena piegata, imprecando contro l’ernia, l’età, la moglie… Poi si raddrizzò con prudenza. Solo allora guardò l’acqua nel secchio e rimase a bocca spalancata. Stava bollendo, come se l’avesse pescata dagli abissi dell’inferno! L’uomo si allontanò spaventato dal pozzo, segnandosi freneticamente per scacciare il malocchio. Sua moglie gridava che la cena era pronta. 

    Antonietta Ferraresi imboccò la pista ciclabile senza rallentare. Faticava a respirare, mentre grosse gocce di sudore le rigavano il viso, ma non aveva nessuna intenzione di rallentare. Era determinata a battere il proprio record personale: dieci chilometri percorsi in cinquantacinque minuti di corsa, andata e ritorno, sempre sul medesimo circuito. Quel record resisteva da troppo a lungo e lei era competitiva anche con se stessa.

    Si allenava tre volte alla settimana in qualsiasi stagione, indifferente al freddo o al caldo, con la stessa maniacale determinazione con cui affrontava la vita. E poi correre la scaricava, le faceva scivolare via, assieme al sudore, le scorie accumulate nelle lunghe ore trascorse nella filiale della banca dove lavorava come cassiera.

    Il sole stava calando, ma faceva ancora caldo. Un’afa anomala si era distesa da giorni sulla pianura, nonostante fosse soltanto maggio. La pista era quasi deserta. Qualche ciclista, in lontananza, pedalava veloce. La ciclabile si inoltrava nella campagna, seguendo il percorso della vecchia linea ferroviaria che un tempo aveva collegato la Bassa a Modena. Fiancheggiava campi di barbabietole, mais ed erba medica, incrociava fossi e canali, si interrompeva in prossimità di qualche tortuosa stradina poco trafficata per riprendere poco dopo.

    Antonietta guardò il suo nuovissimo cardiofrequenzimetro. Era troppo lenta. Rischiava di non riuscire a migliorare il suo tempo. Lanciò una distratta occhiata ai campi e si stupì notando che erano attraversati da lunghe e profonde crepe. Le ricordarono dei serpenti. Pensò fosse dovuto alla siccità e tornò a concentrarsi sulla corsa, accelerando l’andatura. Per lunghi tratti la ciclabile era nascosta da un’alta e fitta siepe selvatica, che la cingeva ai lati in un abbraccio soffocante. Lì in mezzo l’aria era più fresca e la penombra sfumava i contorni delle cose. Antonietta sentì un rumore di passi alle sue spalle. Accostò di lato per far passare il jogger più veloce. Attese qualche istante, ma nessuno la superò. Eppure era certa ci fosse qualcuno dietro di lei. Aumentò ulteriormente il passo, assalita da una crescente inquietudine. La pista era deserta…

    I fondi della tazzina del caffè si mossero. Cominciarono una lenta rotazione, come bambini che fanno il girotondo tenendosi per mano. Paola si sforzò di non guardare. Eppure la tazzina vibrava nelle sue dita, invitandola impaziente a osservarla. Ne aveva abbastanza dei suoi poteri. Era stanca di essere additata dai suoi compaesani come la strega della Bassa. Voleva solo una vita normale, magari lontano da lì, dove nessuno l’aveva mai amata, nemmeno da piccola. Del resto non si era mai vista in paese una bambina di tale bellezza. Poteva solo essere frutto di qualche oscuro patto con il diavolo, dicevano. E poi sua nonna era Noemia, la più grande indovina mai vissuta tra Secchia e Panaro, sparita nel nulla tanti anni prima. Per di più Paola non era fidanzata o sposata e circolavano molte malignità su di lei, messe in giro dai numerosi spasimanti respinti.

    La ragazza si arrotolò nervosamente una ciocca dei lunghi capelli biondi. La vecchia casa di campagna in cui viveva non le era mai sembrata così vuota. Da mesi non aveva più incrociato Noemia, che si nascondeva da qualche parte ai piani superiori. Paola aveva sentito la nonna aggirarsi per le stanze del secondo piano, mentre giocava a nascondino con la Morte, una sua amica, una signora molto educata che salutava sempre. In quella casa Paola riceveva i suoi clienti, segnava storte, reumatismi, fuoco di Sant’Antonio e leggeva il futuro nei fondi del caffè. Commesse, operai, casalinghe bussavano alla sua porta alla disperata ricerca della felicità, dell’anima gemella, di un lavoro migliore, di un’improbabile guarigione. Qualche volta aveva inventato, giusto per rassicurarli, dicendo loro quello che volevano sentirsi dire. Altre volte aveva visto. Ma il futuro è bizzarro e mutevole, difficile da afferrare e interpretare, un’anguilla guizzante che scivola via da tutte le parti. 

    La tazzina del caffè si agitò con violenza, quasi volesse liberarsi dalla sua presa. Esasperata, Paola guardò. Sentì la familiare sensazione di formicolio al collo. Una violenta scarica di adrenalina le attraversò tutto il corpo. Il fondo della tazzina si dilatò, divenne enorme. Paola vi scorse il succedersi delle stagioni che segnavano la vita dei campi, i fiumi che attraversavano da secoli la Bassa, decine di volti, vite e destini che si incrociavano come i fossi e i corsi d’acqua nella vasta pianura, si avvicinavano, per poi allontanarsi e magari incontrarsi di nuovo più in là. Ma stavolta c’era qualcosa di diverso. Scese più in profondità. E vide. La giovane indovina urlò terrorizzata. La tazzina le scivolò dalle mani, precipitò e si ruppe in decine di schegge, che si sparsero sul pavimento della cucina macchiandolo di caffè. 

    Birillo, un lagotto romagnolo, ispezionò con attenzione la siepe. Era un cane giovane e curioso e aveva avvertito un odore insolito. Carlo Ascari, il suo proprietario, dopo avergli tolto il guinzaglio, osservava distratto il cane che gironzolava sulla pista ciclabile scorrazzando qua e là, annusando e marcando il passaggio con numerosi spruzzi di pipì. Carlo era un piccolo imprenditore meccanico e i suoi pensieri in quel momento erano affollati da leasing, nuovi modelli di torni, dipendenti riluttanti, pezzi da consegnare, clienti esigenti, tasse, commercialisti. Si pulì meccanicamente la mano passandola sulla tuta sporca di morchia che non si era neanche tolto, visto che era solo in pausa pranzo. Quel cane era il suo unico passatempo. Tutte le domeniche mattine lo portava sull’Appennino a cercare i tartufi, una provvidenziale boccata d’ossigeno anche per Carlo, una fuga dalla monotonia di una vita solitaria e sempre uguale, scandita dai ritmi dell’officina. 

    All’improvviso Birillo cominciò ad abbaiare tutto eccitato, come se avesse trovato un tesoro nascosto nella siepe. Un tartufo?, si chiese speranzoso Carlo. Difficile, però, lì in mezzo. C’era qualcosa di strano nel groviglio di arbusti selvatici. 

    Il cane, in mezzo alla siepe, era sempre più agitato. Stava stringendo in bocca un oggetto bianco, ringhiava e tirava per liberarlo, senza molta fortuna in verità. Carlo si avvicinò, chinandosi con circospezione, ben attento a proteggersi gli occhi dai rovi che spuntavano minacciosi tra i rami. «Spostati» disse spazientito a Birillo che non voleva mollare la presa. Lo afferrò per la coda e lo trascinò fuori dalla siepe. Il lagotto emise un guaito di dolore e di sorpresa, fissò risentito il padrone e si allontanò a malincuore di qualche metro. 

    «Ma che diavolo è?» brontolò Carlo. Allungò il braccio e toccò qualcosa di gelido. Ritrasse istintivamente la mano. C’erano decine di mosche che svolazzavano intorno. Avvicinò il viso ancora di più e capì. Birillo aveva azzannato un braccio. Era di un pallore che Carlo non aveva mai visto. Apparteneva al cadavere di una donna, adagiato nel punto più fitto della siepe, coperto parzialmente con erba e terriccio. Carlo Ascari riuscì a guardarlo soltanto per pochi istanti: gli sembrò che il viso non avesse gli occhi. Poi sentì la puzza, un insopportabile tanfo di morte e decomposizione. Tutto cominciò a girare vorticosamente. L’uomo arretrò, alzandosi a fatica sulle gambe molli. Avvertì l’acre sapore della bile che gli saliva in bocca e vomitò il panino ai funghi mangiato poco prima. Birillo allora tornò nella siepe, afferrò il braccio della donna e ricominciò a tirare, ringhiando sempre più rabbioso. 

    Non gli piaceva essere lì. Si sentiva un intruso, costretto a frugare con voyeuristica meticolosità nell’esistenza di una persona che non c’era più. Il maresciallo dei carabinieri Salvatore Milano si guardò intorno. Avrebbe preferito di gran lunga trovarsi al Bar Centrale a giocare a tresette, oppure di pattuglia in giro per il paese, con l’auto che misteriosamente lo portava sempre nel cuore della campagna, dove il centro del mondo e la casa di Paola sembravano coincidere… Scacciò infastidito l’immagine della bellissima indovina, sempre annidata nella penombra dei suoi pensieri e pronta a balzare fuori non appena il carabiniere abbassava le difese che aveva faticosamente costruito. 

    L’appartamento di Antonietta Ferraresi era un monolocale in un vecchio palazzo di via Astori. Nell’abitazione regnava un ordine quasi maniacale. Tutto era pulito, lucido, quadri dritti e nessun libro fuori posto. Dalle finestre scivolava all’interno la calda luce del tardo pomeriggio di maggio, che colpiva una vetrinetta liberty del soggiorno rifrangendosi in tanti spicchi di arcobaleno proiettati sulle pareti. Milano ripensò al corpo straziato della proprietaria dell’appartamento. Non avrebbe potuto esserci contrasto più stridente tra la luminosa serenità di quel piccolo salotto e lo scempio del cadavere di Antonietta, su cui qualcuno si era accanito con selvaggia ferocia, tanto da arrivare a strappargli gli occhi, abbandonandolo poi in una siepe di rovi e sparendo nel nulla. 

    Nessuno aveva visto o sentito niente. Di tutta la variegata fauna di jogger, ciclisti, camminatori con e senza cani, in perenne transito sulla ciclabile, non uno si era fatto avanti portando qualche informazione utile all’indagine. Solo i curiosi che non mancavano mai nel circo della morte, assieme agli esperti dei Ris di Parma, al magistrato, al medico legale e ai giornalisti accorsi in massa, richiamati come squali dall’odore del sangue.

    «Maresciallo, maresciallo, venga a vedere» lo chiamò dalla camera da letto l’appuntato Valerio Bergamaschi, con il suo inconfondibile accento veneto. Milano entrò nella stanza con circospezione, quasi temendo che ci fosse qualcuno in agguato. Aveva un pessimo presentimento. Bergamaschi lo stava aspettando. Aveva spostato uno specchio che ricopriva buona parte della parete di fianco al letto. L’appuntato era un tipo in gamba e non ci

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