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Lo Sregno Bardo: La vera storia del mio viaggio con Ernesto
Lo Sregno Bardo: La vera storia del mio viaggio con Ernesto
Lo Sregno Bardo: La vera storia del mio viaggio con Ernesto
E-book151 pagine1 ora

Lo Sregno Bardo: La vera storia del mio viaggio con Ernesto

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Info su questo ebook

Inverno 1349. Lucia, una ragazzina di quattordici anni, scivola nel torrente Karnahta. Un cane nero, dalle sembianze mostruose, viene visto lì vicino, proprio in quel momento.
Primavera 2013. Elia sta per compiere quarant’anni e un’idea si fa strada tra i suoi pensieri: un viaggio da solo, a piedi, tra montagne disabitate o quasi.
Ad aiutarlo nell’impresa un asino recalcitrante di nome Ernesto, che diventerà l’amico con cui condividere la strada, la fatica e le avventure. Perché, su quelle montagne, Elia ed Ernesto non sono soli...
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2018
ISBN9788828318651
Lo Sregno Bardo: La vera storia del mio viaggio con Ernesto

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    Anteprima del libro

    Lo Sregno Bardo - Elia Ferandino

    Elia Ferandino

    Lo Sregno Bardo

    La vera storia del mio viaggio con Ernesto

    © 2018 by Elia Ferandino

    È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

    Editing: Fabiano Braida

    Co-editing e correzione bozze: Karen Zanier

    Illustrazioni: Fabio Comelli

    Impaginazione: Federico Barile / Teresa Vogrig

    UUID: 453df69e-fad0-11e8-8764-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Nota dell'autore

    MOLTO TEMPO PRIMA

    L’INIZIO

    LA PARTENZA

    ANNIBALE

    IL RUSCELLO

    SCAMBIO DI RUOLI

    ​LO SCHERZO DI ERNESTO

    ​LA GALAVERNA

    LA CAPANNA

    QUALCOSA È CAMBIATO

    MENELIK

    RIO BIANCO

    MALI VARH

    ORIENTE

    LO SREGNO BARDO

    EPILOGO

    Biografie

    Ringraziamenti

    Nota dell'autore

    Quando nel 2005 mi trasferii a Torlano di Sopra, un paesino friulano ai piedi delle Prealpi Giulie, lo feci per mettere su famiglia.

    Desideravo che i miei figli potessero crescere in una terra incantevole.

    Da bambino avrei voluto vivere circondato da boschi scoscesi, dove nascondermi, costruire capanne sugli alberi o giocare alla guerra con gli amici. E correre giù al torrente Cornappo (o Karnahta, se lo si pronuncia in lingua slava) per tuffarmi nelle sue verdi pozze.

    Insomma, un parco giochi a cielo aperto, proprio come la valle in cui vivo ora. Assieme ai miei tre figli, ho compiuto diverse scorribande, intenzionato a vivere con loro ciò che desideravo da bambino.

    Però anche gli adulti devono avere il coraggio di vivere le proprie esperienze e lasciare che i bambini, da soli, facciano le proprie.

    Così ha avuto inizio la mia avventura.

    Ho cominciato a fare qualche visita, in moto o in auto, ai paesini sparsi nelle vallate vicine, dove è un po’ difficile familiarizzare con gli abitanti se sei un estraneo.

    Bere qualche bicchiere di vino nelle poche osterie che trovavo, mi ha permesso di entrare in contatto con gli esigui abitanti rimasti. Tutto sommato è stato un modo piacevole per farsi raccontare aneddoti, storie e leggende.

    Avevo però voglia di vivere in quei luoghi più a lungo, con quella lentezza che ai tempi nostri è quasi un miraggio.

    Decisi di andarci a piedi, camminando senza fretta e senza meta, motivato solo dalla voglia di mettermi in gioco e farmi coinvolgere dagli eventi. Secondo me, qualsiasi vademecum del viaggiatore dovrebbe iniziare così.

    Mai e poi mai avrei pensato nella mia vita di compiere un viaggio con un asino e tantomeno di scrivere un libro! Tradotto: qualunque sia vostra età non è mai troppo tardi per rincorrere i vostri sogni.

    Un’ultima cosa. Alcuni personaggi di questo racconto sono frutto della mia fantasia, altri invece sono ispirati a persone realmente esistite o che tuttora vivono in questi luoghi.

    Scrivendo questa storia, mi sono trovato a riflettere sulle leggende che popolano le vallate che ho provato a descrivere e che si incontrano in tutto il mondo: quando la maggioranza delle persone crede che qualcuno o qualcosa esista, non c’è razionalità che tenga.

    FEDE ANIMALE

    I filosofi hanno sempre cercato

    di dimostrare che noi non siamo come gli altri animali, annusando in maniera esitante le loro piste in giro per il mondo.

    Tuttavia, nonostante tutto il lavoro profuso da Platone e Spinoza, Descartes e Bertrand Russell, non abbiamo una ragione in più rispetto agli animali per credere che il sole sorgerà domattina.

    J. Gray, Cani di paglia

    ed. Ponte alle Grazie 2017

    a Margherita, Pietro e Sara

    MOLTO TEMPO PRIMA

    Inverno 1349.

    Il paiolo in rame, pieno d’acqua ghiacciata raccolta al torrente, sfiorava l’argine al sicuro nelle mani ruvide di Lucia. Poco distante, nella casa in pietra, la sua famiglia la attendeva per la cena.

    Terzogenita di cinque fratelli maschi, Lucia aveva capelli neri e occhi azzurri come il ghiaccio. Essere donna in quella famiglia significava sgobbare dal mattino presto fino alla sera, tra faccende di casa, negli orti, o sorvegliando gli animali, che ogni tanto servivano a placare la fame degli uomini di casa.

    In quella famiglia c’era soltanto lei che portava la gonna, anche se consunta e rattoppata. La morte di sua madre pareva così lontana, che a stento Lucia ricordava i suoi lineamenti; le rimaneva solo il rancore per essere stata abbandonata ad affrontare da sola una vita così dura e di poche speranze.

    Le acque in cui Lucia aveva immerso il paiolo erano quelle del torrente Karnahta che, a quel tempo, dividevano il villaggio tra le genti di origine slava, venute da oriente, e quelle di origine ladina.

    Doveva portare l’acqua tra le spesse mura della umile casa, per fare uno stufato di verdure, con l’aggiunta di un pezzo di lardo rancido, accompagnato da pane secco. Una tipica cena contadina.

    Quando i suoi fratelli riuscivano a catturare di frodo un cinghiale, si poteva sperare di riuscire a mangiarne le carni per qualche mese, dopo averle affumicate. Ma non accadeva spesso. Soprattutto dopo il terremoto.

    Il sisma dell’anno prima, che sarebbe stato ricordato dalle generazioni future come quello terribile del ‘48, aveva abbattuto gran parte dei castelli, villaggi e città di quella terra povera e aspra, arrivando a farsi sentire fino all’Italia del centro e radendo al suolo Villach, città austriaca al di là del confine.

    Nelle narici, Lucia poteva sentire ancora l’odore fetido che fuoriusciva dal terreno in quel giorno nefasto, quasi a presagire l’arrivo della Peste Nera, che stava già infestando la popolazione europea.

    La chiamavano la morte nera. Non risparmiava nessuno: colpiva ricchi e poveri, monarchi, vescovi e pastori.

    Lucia aveva solo 14 anni, ma non le mancavano di certo coraggio e temperamento. Aveva dovuto assistere due dei suoi cinque fratelli fino alla morte, sopraggiunta in poco tempo, dopo non poche sofferenze.

    Era ignara del fatto che a salvarle la vita era stato proprio il continuo lavoro vicino al fuoco, su cui faceva bollire le vesti e le pezze, utilizzate per curare gli sfortunati fratelli. Le fiamme tenevano lontani i topi e di conseguenza anche le pulci, che erano causa della Peste.

    Il padre rozzo e autoritario non faceva che impartire ordini alla ragazza, mentre i fratelli, che avevano perso ormai ogni speranza nel futuro, vagavano tra i villaggi vicino, facendo festa a ogni occasione: in preda all’alcool dimenticavano la morte che li circondava.

    Molti si comportavano allo stesso modo, convinti che, di lì a poco, la cattiva sorte avrebbe toccato anche loro. Vivevano facendo continuamente baldoria e bevendo molto di quel vino aspro, che raschiava non soltanto la gola, ma anche la memoria e le paure.

    La maestosa pieve, voluta nel lontano VI secolo dal Patriarca di Aquileia, era parzialmente crollata, mentre la grossa torre campanaria si reggeva ancora in piedi.

    Lucia si concesse un po’ di riposo, appoggiando a terra il paiolo. Si sistemò lo scialle sulle spalle, avvolgendosi, e, dopo un profondo sospiro, si mise a rimirare la luna.

    Gialla, enorme, stava crescendo dalla bassa montagna che faceva da cornice al villaggio, proiettando sulla terra ghiaiosa l’ombra del tetto sacro, il più alto del villaggio. Sul terreno si distingueva a malapena la croce.

    Lucia guardava assorta, mentre il freddo, che i pochi vestiti non riuscivano a tenere lontano, le faceva tremare il corpo.

    La casa dove avrebbe dovuto far rientro, stava a metà strada tra il torrente e la Chiesa, in un lembo di terra largo quanto due campi di grano, dove si erano stabilite le popolazioni slave. A unire le due rive del fiume c’era un precario ponte di legno, che guardava diritto al portale della Pieve.

    Lucia notò con la coda dell’occhio una presenza sul ponte. Si girò di scatto e vide un grosso cane nero. Illuminato, il pelo aveva riflessi lucenti e gli occhi sembravano brillare di una luce gialla, come la luna, che in quel momento entrambi stavano guardando. Ripensò alle voci, sentite nella piazza all’uscita dalla messa domenicale, che descrivevano la presenza di un cane nero, che si aggirava di notte nei pressi del ponte. Alcuni sostenevano che avesse sembianze mostruose, che fosse addirittura il demonio e che fosse stato lui a portare la peste.

    Intimorita, Lucia si fece il segno della croce, lasciò cadere a terra il paiolo e corse verso la porta di casa.

    Tre giorni più tardi, al crepuscolo, Lucia stava raccogliendo di nuovo l’acqua al torrente, lanciando continui sguardi sul ponte di pietra. Era attanagliata dalla paura di rivedere quel cane. Prese il manico in ferro per sollevare il paiolo e, proprio davanti a sé, vide riflessa nell’acqua un’ombra nera. Un tonfo al cuore la colpì improvvisamente e credette di svenire, non fosse stato per l’acqua ghiacciata che le cingeva le caviglie. Era lì, sulla riva opposta e la guardava con occhi interessati. Stava seduto e sembrava quasi che avesse una specie di sorriso beffardo sul muso.

    «Vai via, cagnaccio!» urlò Lucia per darsi a vedere impavida. Era sicura che quel grosso cane nero non sarebbe riuscito ad attraversare la corrente impetuosa del torrente, che scendeva verso sinistra in direzione del ponte.

    Sollevò infine il paiolo per correre e trovare riparo in casa, mentre il suo stomaco faceva sentire i morsi della fame.

    D’un tratto, dall’acqua, qualcosa di grigio e affusolato saltò fuori, finendo proprio nel paiolo. Lucia si abbassò per guardare se quello che le era sembrato di vedere fosse un’allucinazione: nel paiolo stava guizzando frenetica una trota.

    «Non ci posso credere!» gridò felice. Il suo stupore cambiò in meraviglia, quando vide altre trote saltare dall’acqua alla grossa pentola.

    «È un miracolo!» disse ancora, rapita da quella visione.

    Ma una risata sinistra ruppe l’incanto. Lucia si guardò in giro senza scorgere anima viva, tranne quel grosso cane nero che continuava a fissarla.

    «Cara, bella e dolce Lucia. Io non faccio miracoli, cerco solo di alleviare la sofferenza degli uomini» disse il cane nero.

    «Come fai a conoscere il mio nome?» gli chiese lei con voce tremante.

    «Io ti conosco da quando sei nata, da quando hai fatto i primi passi nel cortile aggrappata al pelo della mia schiena. Ero sul ponte di pietra, quando tua madre ha esalato il suo ultimo respiro e ti sono stato vicino anche quando i tuoi fratelli hanno dovuto

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