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Falconera
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E-book214 pagine2 ore

Falconera

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Info su questo ebook

Sicilia, 1860. A Falconera, una contrada di campagna immersa tra i pini, sul colle che sovrasta Castellammare del Golfo, la gente ha saputo dell’arrivo di Garibaldi, un evento che dovrebbe determinare il cambiamento epocale che i “galantuomini” della comunità attendono per capire da che parte schierarsi. Qui si intrecciano le vicende di vari personaggi, tra cui il ricco possidente don Faro, un uomo tormentato dai ricordi, gli arrivisti Francesco e Bartolomeo, l’umile famiglia Romano, la levatrice Francesca Galante, don Benedetto, il parroco impegnato a sfamare i poveri e l’avvocato Oliveri, di idee rivoluzionarie. Nella piccola comunità il passaggio dai Borbone ai Savoia e le nuove leggi alimenteranno dei contrasti, determinando un crescente malessere che coinvolgerà tutti quanti, senza distinzione di ceto sociale, trasformandolo presto in una polveriera pronta a esplodere.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2023
ISBN9791281032309
Falconera

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    Anteprima del libro

    Falconera - Fabio Ceraulo

    Indice

    Prefazione

    Nascita

    Don Faro

    Fame

    Annuncio

    Rosso

    Incertezza

    Bandiere

    Limoni

    Cambiamento

    1861

    Elenco

    Caccia

    Giustizia

    Malcontento

    Destino

    Capodanno

    Briganti

    Innocenza

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Fabio Ceraulo

    Falconera

    ROMANZO

    La storia è piena di atti di giustizia,

    eseguiti commettendo gravi ingiustizie.

    All’attrice Sara Serraiocco,

    il cui talento è fonte

    di continua ispirazione.

    Prefazione

    Nei meandri dell’animo umano è difficile trovare la verità e ancora più capire il senso di ciò che accade nella vita. Lo stesso è per le nazioni e soprattutto per quelle comunità che non hanno vissuto di luce propria, sottomesse ad altri popoli e talvolta a sé stesse, costrette a vivere secondo regole non riconosciute, subite abbassando la testa, forzate a un’esistenza misera e schiava. La speranza dei popoli, in qualcuno capace di cambiare gli eventi a dispetto di quale nome abbia, diventa l’unica piccola luce in quel buio pesto che rende ciechi. La storia ha sempre avvisato: niente può cambiare. È solo un altro modo di piegarsi, di compiacere qualcun altro, un circolo vizioso che sempre ritorna e che niente e nessuno sembra poter interrompere.

    A metà dell’Ottocento, una piccola comunità siciliana di provincia, regolata dalla prepotenza del potere asfissiante e opprimente, subisce suo malgrado un ennesimo sconvolgimento. Questa terra contraddittoria, che ha fatto del paradosso l’immagine e l’essenza stessa del proprio vivere, viene travolta da un collasso generale che ne minaccerà la stessa sua sopravvivenza, senza che possa comprenderne il perché. Le vicende raccontate nel romanzo di Fabio Ceraulo si inseriscono nel momento di passaggio dalla dominazione borbonica al Regno d’Italia (sullo sfondo della spedizione dei Mille), che promette terre, prosperità e l’unione tra i diversi stati della penisola italiana sotto quella monarchia sabauda di cui in Sicilia poco si sa. Proprio i fratelli saranno i carnefici che si ciberanno delle carni di altri fratelli e il nuovo regno s’imporrà alla piccola cittadina di Castellammare mostrando il suo volto più duro.

    La nuova legislazione produrrà obblighi che rischiano di rovinare le fondamenta della Sicilia. Questa nuova e risoluta forma di dominazione, che punisce con il sangue dei miseri la disobbedienza alle nuove leggi cui bisogna chinare nuovamente il capo, cambierà per sempre i destini del piccolo paese. In questo romanzo corale, lo scenario principale è Falconera, una striscia di collina che domina il paese dall’alto, fra trazzere e alberi di pino. Gli attori principali sono una serie di personaggi diversi tra loro: il benestante proprietario terriero vissuto fino a quel momento all’ombra dei suoi privilegi, famiglie di pastori e contadini analfabeti, l’immancabile parroco, la temuta levatrice, i galantuomini. L’intera comunità di Castellammare sarà spettatrice e protagonista dell’atteso cambiamento e di iniqui eventi che precipiteranno col passare dei mesi, a dimostrazione che la storia, ancora una volta, si è ripetuta.

    Prof. Piero Monteleone

    Liceo Umberto I di Palermo

    Cittadini,

    Un uffiziale del Regio Esercito

    venuto da Castellammare, reca le seguenti notizie:

    Le truppe comandate dal Maggior Generale Quintini,

    sbarcarono a Castellammare. Si scontrarono con gl’insorti,

    che misero in fuga. Altre forze furono spedite stanotte

    per accerchiare e distruggere intieramente ogni

    reliquia di ribellione.

    In Castellammare già si fece rigorosa giustizia.

    Continui la consueta calma e viva sicuro il popolo

    sulla sollecitudine ed energia del Governo.

    Palermo, 4 gennaro 1862, ore 8 a.m.

    Il Questore: Achille Basile

    Giornale di Sicilia Officiale, 5 gennaio 1862

    Nascita

    5 Novembre 1853, dintorni

    di Castellammare del Golfo

    Le urla di Giovanna, rauche e strazianti, frantumano il silenzio della campagna. Donne vestite di nero come dovessero vegliare un defunto, sperperano la voce riempiendo l’aria di cantilene antiche indirizzate ai santi e alla Madonna. Nella casupola fatiscente, tra quattro pareti di legno consumate dal tempo, il rito antico del parto sta per avere inizio.

    Nel terreno adiacente, sorvegliato da alberi d’ulivo e coperto di foglie sparpagliate sull’erba, due uomini osservano il viavai di persone.

    Don Faro Giurintano, il signorotto dei dintorni che ha ereditato le fortune del nonno Cristofaro, ha un bel portamento. Sempre pettinato e impeccabile sia con l’abito più elegante, sia con la giubba sporca di terra che indossa quando va a controllare la vendemmia, potrebbe sfamare l’intero golfo con i prodotti della sua masseria. Al suo fianco c’è l’inseparabile Turi, la guardia del corpo e il servo più fedele che egli porta sempre con sé.

    Immobile, le mani guantate dietro la schiena e la camicia bianca che si intravede dall’abbottonatura della mantella, il possidente lascia penzolare un mozzicone di sigaro spento da un lato della bocca, mentre i suoi occhi castani e profondi seguono la scena. Li conosce tutti, quei poveracci.

    Appoggiato a un albero c’è il pastore Pietro Romano. Sdentato, piccolo di statura e vestito con pelli di pecora, segue con ansia il movimento delle donne dentro al casolare. Tortura il copricapo per il nervosismo, lo stringe come se fosse la minna di una vacca da mungere, poi avvicina le mani in segno di preghiera, mentre osserva il cielo grigiastro di quella giornata autunnale, in cui le nubi danzano veloci prima di abbracciarsi per minacciare pioggia. Mastica due, tre frasi confuse che di religioso hanno poco. Gesticola, parla da solo, sbuffa: sua moglie Giovanna sta per avere il terzo bambino.

    «Portali via, non è spettacolo per picciriddi», dice a una ragazza, indicando un gruppetto di bimbi sudici e vocianti accorsi da qualche casa dei dintorni.

    La giovinetta, poco più di una bimba magra come un ramo d’albero secco, con minuscoli seni della dimensione di ciliegie e la faccia sporca di terra, riunisce quei quattro bambini, semina scappellotti e spintoni e li allontana.

    All’interno della capanna solo una tavola di legno adattata a letto, coperta di paglia, fasciata di lana e vecchie lenzuola scolorite, alcune sedie sgangherate e l’odore intenso di bestiame. Come la mangiatoia dove nacque nostro Signore.

    Francesca Galante è la levatrice, ma tutti la chiamano mammana, un termine appiccicato addosso da anni per indicare il mestiere. Il suo aspetto è inquietante: robusta e di statura abbastanza alta, gli occhi piccoli che scattano veloci a destra e sinistra, per dare ordini e far filare dritto chi non le obbedisce. Ha la forza di cinque uomini messi assieme. Nel momento fatale del parto, più di una volta, non ha esitato a dare il benvenuto al neonato con uno strappo violento, introducendo le mani nude all’interno della partoriente.

    Qualche fanciulla teme la mammana a tal punto da rifiutare il suo aiuto: nella sfida contro la morte, che aleggia puntuale su quelle improvvisate lettighe, Francesca a volte ha perso. D’altra parte il medico del paese, il dottor Rosario Anzalone, non viene nemmeno interpellato. Pochi si fidano di lui, gli attribuiscono più morti che guarigioni.

    «Ormai è vecchio, fa solo danni», dicono.

    Lui se ne sta comodo al Caffè della strada grande di Castellammare, a bere un bicchierino e a gustare paste alla mandorla, poi si alza e va a godere della vista del golfo con le labbra ancora sporche di briciole che il rosolio ha incollato ai folti baffi. Da solo, perché i suoi maleodoranti sigari scacciano pure le mosche.

    Un ragazzino impertinente, sapendo della passione per il liquorino, lo schernisce.

    «Dottor Rosolio Anzalone!»

    «Figghiu di…», è la risposta più comune.

    Bende, fasce, panni apparentemente puliti, sfilano assieme a una tinozza di acqua bollente. Il recipiente di legno è stato trasportato da Sasà e Nele, due giovanotti del posto, e appoggiato all’uscio del casolare.

    «Siete maschi, voi non potete entrare!» li aveva redarguiti donna Francesca.

    Sasà sbircia dalla finestra, spalancando gli occhi per osservare ciò che accade nella stanza, dove Giovanna è in preda a spasmi dolorosi. La mammana, accortasi delle occhiate clandestine del ragazzo, corre fuori e lo sorprende con l’occhio bramoso incollato al vetro, lo afferra per i capelli e con la mano umida d’acqua calda, molla una poderosa sberla che quasi gli stacca il collo. Come se niente fosse, la donna apre e chiude la mano, poi rientra in casa e sbatte la porta. Da terra, il malcapitato, con mezza faccia tinta di porpora, inizia a imprecare, dondolando sulle ginocchia indecise e reggendosi il capo come se gli stesse per cascare. Un fremito di paura invade il suo corpo. L’amico lo aiuta a sollevarsi.

    Rosario Schirò, da sempre chiamato Sasà, è cresciuto da solo tra i poderi della zona, in mezzo a cani e pecore. Sua madre era morta dopo averlo dato alla luce. Il padre, nei pascoli dall’alba al tramonto, un giorno non ha più fatto ritorno a casa. Morto, in fondo a un precipizio. Qualcuno dubitava che lo avessero spinto, altri affermavano che fosse stato un fatale incidente. Una sorella più grande era mancata un paio d’anni addietro per una febbre strana e inesorabile. Il ragazzo badava agli animali di un tale, ma alla sua morte i figli lo avevano cacciato via. Appena si avvicinava ai frutteti, gli arrivavano sputi e pietre in testa dai nuovi badanti. Sasà è analfabeta, dice di avere circa quindici anni, ma non è certo. Ha gli occhi un po’ storti, i capelli ispidi e pieni di pidocchi, il corpo esile e difettoso, la schiena deforme, le spalle curve.

    Emanuele Fresta, detto Nele, è anche lui senza genitori, morti giovanissimi. È magro come un fil di ferro, al punto che sembra doversi spezzare da un momento all’altro, e vivacchia con l’amico per la campagna. Sulla quindicina, è cresciuto con i nonni, tutti analfabeti e dediti solo al lavoro nei campi. Una volta morti loro, il giovanotto si era sbandato. In paese, i due sono considerati come bestie, animali selvatici che si aggirano per i prati a recare danni. Sul sentiero che scende verso Castellammare, il pendio è dolce e soffice d’erba umida, ricco di frutteti e alberi di pino. I ragazzi si fermano a riempire i tascapane di mele, rosse e lucide come pomodori.

    Quella donna così bieca, la mammana, ogni tanto regala loro del cibo. Quando li vede gironzolare nei pressi di casa sua come lupi, dapprima li bacchetta, poi elargisce impietosita pezzi di pane, formaggio, qualche uovo, frutta e lattuga.

    Sasà, col viso dolorante, impreca verso la levatrice.

    «Se chidda ti sente, esce e ti piglia a calci», lo ammonisce Nele. «Ricordati che ci dà da mangiare».

    «Lo so, ma sempre maàra¹ è!»

    Donna Francesca ha udito. Riapre di scatto.

    «Ancora qua siete? Andatevene!»

    Quelli, codardi, corrono via. Lei, con una mano sul fianco e l’altra intenta a roteare un candido panno, si assicura che si allontanino, poi rientra.

    La povera Giovanna, poco più che ventenne, attende ansimando la fine di quelle sofferenze. I suoi strepiti rivolti al Padreterno sono durati per quasi un’ora.

    La mammana sposta sedie e suppellettili con una robusta manata, mentre le giovani aiutanti stanno immobili ai lati del letto come statue di sale. Una di loro trema, pensa a quando toccherà a lei, i denti tintinnano nel silenzio.

    L’attimo finale è giunto. Francesca la esorta.

    «Adesso, con tutta la tua forza!»

    Giovanna è già madre di due figli, sa che deve dare un colpo in avanti con schiena e bacino, come un cannone che esplode l’ultimo proiettile.

    L’ultimo grido, più rauco e disperato degli altri, si placa, sostituito dal gemito della creatura appena venuta al mondo.

    La levatrice, dopo aver tagliato il cordone ombelicale con delle grosse forbici sciacquate nell’acqua bollente, fa accendere una candela e brucia il pezzo attaccato al bimbo per suturare la ferita, quindi porta il fagottino nudo e sporco all’esterno della baracca, lo solleva al petto e mormora un’antica filastrocca a fil di labbra.

    «Signuruzzu miu adoratu,

    benedici ‘stu neonatu.

    Da mattina a quannu scura,

    benedici ‘sta criatura».

    E aggiunge:

    «Benvenuta in questo mondo schifoso!»

    Pietro è seduto per terra, apre e chiude le labbra come se parlasse a qualcuno, strofina la mano sulla testa.

    «Fimmina è!» gli urla la levatrice, facendolo sobbalzare.

    Giovanna, sfinita, appoggia la testa e guarda il soffitto di legno bucherellato dai tarli. Le assistenti la ripuliscono, prendono in consegna la bimba e la avvolgono in una coperta tiepida. Donna Francesca indica la neonata e storce il labbro.

    «Tra qualche anno questa tortura toccherà anche a lei!»

    «Posso entrare?» chiede il padre, sporgendo la testa all’interno della baracca.

    «Aspetta che puliamo madre e figlia, poi trasi²».

    L’uomo abbassa lo sguardo, scalcia nervoso il terreno come un toro in procinto di entrare nell’arena.

    Date le ultime disposizioni, la levatrice asciuga la fronte, pulisce con un panno gomiti e braccia schizzati di rosso. Si avvicina alla ragazza, la scruta per bene, controlla tutto il suo corpo, copre le parti intime.

    «Sopravvivrai, ma fra un paio di mesi tuo marito pretenderà che fai di nuovo il tuo dovere di fimmina. Pensaci. Stavolta è andata bene, la prossima, non si sa».

    La ragazza ha l’espressione di una martire appena sacrificata. Non osa guardare verso il basso. Sente l’odore forte del proprio sangue.

    «Ricordati che a iddi va il piacere, a nuatri fimmini il dispiacere. Guardati attorno».

    La stanza sembra una macelleria, le assistenti ammucchiano in un angolo le strisce di stoffa imbrattate.

    «Fate entrare quella specie di maschio che è là fuori», ordina la mammana.

    Pietro corre, facendo ballonzolare la pelle di pecora che riveste il suo corpo. Va a salutare la nascitura e si accosta al letto. Con espressione da scimunito, l’uomo balbetta qualcosa, alza lo sguardo.

    «Grazie, Signuruzzo, grazie».

    «E a me,

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