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Wahie Loa -Il lungo ramo-
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E-book312 pagine4 ore

Wahie Loa -Il lungo ramo-

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Info su questo ebook

E se, nella vastità del Pacifico, sopra un’isola remota, esi­stesse ancora un gruppo di indigeni divisi in una manciata di tribù, convinte di essere le sole ad abitare il mondo e che oltre il mare non vi sia altro che mare?

Come si sarebbero evoluti, come vivrebbero, quali sarebbero i loro usi e costumi e in chi, o in cosa, crederebbero?

E se su questo territorio sorgesse una colonia composta da un’esigua cerchia di ricercatori?

E se lo pseudodetective John Barnard ed il timido soldato Josef Pafish si trovassero ad entrare in contatto con questa mi­croscopica realtà?

E se, per evitare una guerra fratricida, questo singolare in­vestigatore do­vesse indagare su di un omicidio avvenuto in cir­costanze a dir poco insolite?

Aggirandosi tra le capanne del villaggio in compagnia di un’etologa e di un ottuso energumeno, battendo sentieri sco­nosciuti, facendosi largo nelle intricate foreste dalla fauna e flora simili a quelle della Polinesia francese, fino ad inoltrarsi su misterio­se mon­tagne, l’inventato detective riuscirebbe a ri­solvere il caso?

E se quest’isola nascondesse qualcosa di inimmaginabile?

La sapiente ironia di Gennaro Loffredo racconta di un incontro che si traduce in uno scontro tra culture agli antipodi.

Gennaro Loffredo, nato a Pozzuoli il 4 luglio 1971, ha studiato lingue e letterature straniere.

Scrittore, compositore e cantante, coltiva l’interesse per la mu­sica, gli scacchi, l’astronomia, il cinema e la letteratura, in spe­cial modo straniera; legge soprattutto testi classici, d’avventura, thriller, horror, nonché saggi antropologici e di cosmolo­gia.

Dopo aver pubblicato per la casa editrice Montecovello Open Arms -I segreti dell’isola- e Crab -Note dal sottosuolo- ha dato vita, attraverso il web, ad un personaggio bizzarro: il Crante Maco Mannaro, ovvero un mago ingenuo e truffaldino, da cui ha tratto un libretto contenente le sue improbabili proposte, le sue battute all’acqua di rose ed i suoi peggiori aforismi: Tra l’aldilà e l’aldiquaqquaraquà. Wahie Loa -Il lungo ramo- è il terzo romanzo nel quale lo scrittore ci presenta le avventure del de­tective Barnard e della sua estemporanea squadra investigativa.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2016
ISBN9786050447668
Wahie Loa -Il lungo ramo-

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    Anteprima del libro

    Wahie Loa -Il lungo ramo- - Gennaro Loffredo

    Questa è un’opera di fantasia. Personaggi, luoghi e vicende citate sono invenzioni dell’autore.

    Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse è casuale o narrata in chiave ironica.

    L’autore, seguendo il proprio stile di scrittura, ha curato la correzione e l’editing del testo in collaborazione con Patrizia Magretti e Carlo Stromboli.

    Maeva!

    Se hai tra le mani questo libro, preparati a vivere un’avventura. Un viaggio che ti porterà su un’isola, tra scienza e fantasia, tra strani personaggi e panorami mai visti prima. Viaggerai leggero, accompagnato da un pizzico di mistero e da una spolverata di humor. Uno scenario creato da una brillante fantasia.

    Ed è proprio la fantasia ad avvicinarmi a Gennaro Loffredo. Abbiamo, per così dire, la stessa malattia, lo stesso amore per le storie, per il piacere di raccontarle e sentirle raccontare. Una malattia da cui non ci piace guarire.

    In verità io non conosco Gennaro. Conosco la sua immagine, neanche tridimensionale. Nel senso che, per me, potrebbe essere persino un personaggio inventato da qualche burlone del web o completamente diverso da come lo vedo sullo schermo del PC.

    Se non fosse che le sue parole, i suoi pensieri, i suoi sentimenti mi arrivano sostanziosamente concreti. Quindi, da una amicizia virtualmente sociale è derivata una simpatia reale, un sodalizio ed una collaborazione di cui mi onoro.

    Ho avuto la fortuna di essere tra i primi a leggere queste pagine, a cercare di immaginare davanti agli occhi un mondo per me sconosciuto, nel quale ti invito ad addentrarti, ma di cui non ti svelerò una virgola. E sono proprio le virgole il trait d’union tra Gennaro e me. Lui le metteva, io le toglievo. Lui le toglieva, io le mettevo. Pare un gioco perverso ma, quando si legge, le parole devono scorrere come i pensieri, dagli occhi alla carta, al ritmo del respiro e le virgole, perbacco, servono proprio a questo. Per cui se tu, lettore, troverai qualche incongruenza nelle pause del testo, probabilmente è colpa mia.

    Il libro di Gennaro Loffredo ha viaggiato, a pezzi, con me nella borsa, nella cartella, persino in qualche sacchetto. In auto, in treno in trasferta da Milano al lago o in montagna. È persino rimasto ai piedi del letto per qualche notte, insieme all’inseparabile matita, in paziente attesa. E quei capitoli trasmessi via internet, pidieffati, stampati, ripidieffati e ritrasmessi hanno generato questo. Non è cosa da nulla!

    Buon viaggio, allora. Ave atque vale. O, se preferisci, a haere mai!

    Pat Magretti

    1

    Whenua

    Per quanto precaria fosse la sua casupola di legno costruita lassù, in cima ad un albero del pane, e per quanto beccheggiasse come una piroga al minimo alito di vento proveniente da sud, questa rappresentava la sua indipendenza. A pochi passi dalla capanna di suo padre, Moe si sentiva un semidio: diverso, più sveglio nell’apprendere, superiore come solo i sedicenni sanno percepirsi.

    Alla grande festa tra le tribù che si era tenuta quella notte, lui non aveva preso parte; a che pro stordirsi di kava fino a sentirsi tutte le membra paralizzate? Non aveva bisogno di quell’intruglio di saliva dal sapore di pepe per contemplare le stelle, o meglio, gli Dèi. Inoltre, come da ormai diverse notti, doveva vegliare sulla donna cui aspirava. Hani prima o poi lo avrebbe invitato con un cenno ad entrare, permettendogli di dichiararsi ufficialmente al cospetto di suo padre e di suo fratello. In fondo lui era un buon partito: il figlio del capo oratore, secondo per prestigio solo al capo tribù. E, particolare da non sottovalutare, era piacevole di aspetto. Con il capo circondato da una corona di foglie che ornava il suo ovale bronzo dorato del tutto privo d’acne giovanile; con il suo nasino appena schiacciato sovrastato da un paio di occhi scuri, a mandorla; con i suoi denti minuscoli, bianchi e regolari; con il suo corpo, esile sì, ma agile e scattante.

    La Luna era alta e il suo chiarore si diffondeva in tutto il villaggio: bisognava darsi una mossa. Moe afferrò un paio di banane contendendole ad un uccello del paradiso, che incuriosito gli svolazzava attorno, e discese dal suo albero. Seguì il fiumiciattolo che percorreva la capanna di suo padre, poi s’incurvava nei pressi della grande dimora del capo tribù per proseguire in un rettilineo che lambiva la capanna della servitù e quelle sparse dei pescatori, tra le quali vi era anche quella di Hani. Moe si accovacciò sul retro della capanna della ragazza, dove il letto di foglie secche che aveva improvvisato dodici lune prima lo aspettava. Il silenzio era quasi assoluto: la festa era terminata e i membri della sua tribù, gli Uekera, si erano ritirati nelle proprie rudimentali costruzioni. Qualcuno già russava e, tranne il fruscio che facevano i piccoli mammiferi notturni ed il gradevole sciabordio dell’acqua del fiume, non c’erano altri suoni degni di nota. Quello, per Moe, era il momento di maggiore imbarazzo. Con fare rassegnato, raccolse un paio di sassi delle dimensioni di un grosso pugno e cominciò a batterli lentamente, intonando il suo canto d’amore e di sofferenza; un canto gutturale proveniente direttamente dallo stomaco ma che era parte fondamentale del corteggiamento.

    «Basta!» gridò qualcuno dalle vicinanze.

    E pensare che aveva appena cominciato. Evidentemente c’era ancora chi non aveva subito gli effetti della sacra bevanda.

    Hani si affacciò quasi immediatamente e, con fare irritato, gli fece segno di tacere.

    Moe, visibilmente arrossito, avrebbe dovuto continuare la veglia in silenzio. Anche per quella notte non sarebbe stato invitato. I maschi della capanna dovevano essere completamente anestetizzati dal kava per poter ricevere lui e la sua offerta cantata.

    Ancora disgustato per quell’estenuante rituale, Moe sbucciò la prima banana e si distese sullo scomodo letto di foglie, socchiuse gli occhi e prese a contare le stelle.

    Più tardi, vinto dalla noia della gran quiete, si risollevò e diede un’occhiata all’interno della capanna: dormivano tutti profondamente mentre lui era lì, costretto a star sveglio. E così alla fine raccolse la seconda banana e si risolse ad andarsene. Al diavolo quello stupido corteggiamento, pensò. Si sta meglio e si vive più a lungo sul mio albero.

    Mentre Moe ripercorreva il tragitto che lo aveva condotto da Hani, una figura distesa bocconi sull’altra sponda del fiume inarcò il busto compiendo un movimento che ricordava quello di un alligatore in procinto di attaccare e, con uno scatto, venne fuori dalla vegetazione che l’aveva tenuta al riparo da altri occhi. Si guardò intorno allertando i sensi per poi spiccare un balzo che la fece atterrare sull’altra sponda, proprio di fronte all’ingresso della capanna. Diede un’occhiata all'interno: i due uomini versavano in uno stato comatoso, mentre lei… Estrasse l’acuminato spuntone d’osso e penetrò nella capanna, fino a raggiungere Hani.

    La ragazza dormiva adagiata su un fianco dando le spalle alla figura. La punta della lama le vellicò la gola, destandola. Una mano le si posò sulle labbra per poi esercitare una lieve pressione; ora l’arma oscillava dinanzi al naso della figura: un invito al silenzio come alternativa alla morte.

    Doveva aver perduto i sensi, poiché quando si risvegliò si era già fatta l’alba. Il dolore lancinante al basso ventre vinse il suo intorpidimento e la ricondusse al presente. Incredula, Hani si sollevò dal suo giaciglio e vide le gocce di sangue tra il fogliame. Finalmente cominciava a ricostruire l’accaduto e fu inghiottita in una spirale di paura, rabbia e odio. Claudicante, uscì dalla capanna fino a raggiungere il fiume; Ranitea e Amura dormivano ancora… e Moe, che fine aveva fatto?

    Svuotando i pensieri si affacciò nello specchio d’acqua e prese ad osservarsi. Nell’arco di una manciata di ore il suo aspetto era così cambiato che faticava a riconoscersi. I suoi splendidi capelli neri ora sudici e scarmigliati, lo sguardo perso nel vuoto, le guance pallide, un livido sul mento che sembrava l’impronta di un pollice e profondi solchi irregolari sul collo che bruciavano; dov’era finita la nativa più desiderata di Whenua?

    Ora al dolore del corpo subentrò quello ben più profondo dell’anima. Lei che, a differenza degli altri ragazzi del villaggio nemmeno giocava ad esplorarsi, aveva perduto ciò che aveva sempre difeso a causa di uno sconosciuto. Nel buio quasi totale della capanna, Hani era riuscita a scorgere soltanto una serie di striature scure contornate da minuscoli segmenti sull’avambraccio dell’aggressore nonché una maschera da festa, minacciosa e brutta come la morte, a celarne il volto.

    Si tolse il gonnellino e si immerse nelle gelide acque del fiume prendendo a strofinarsi sulle parti intime come un’ossessa. Via, via questa lordura dal mio corpo! E così agendo arrivarono le lacrime liberatorie.

    Più tardi, mentre Ranitea ed Amura cominciavano ad agitarsi e a sbadigliare, Hani era rientrata nella capanna; stava sbarazzandosi di alcune foglie dal suo letto di pandano macchiate di sangue e dell’altro liquido, denso e vischioso. I primi deboli raggi di sole l’aiutarono nello squallore dell’incombenza. Non avrebbe rivelato nulla, ora che era avvenuto l’irreparabile; tuttavia, mai avrebbe accettato una proposta da parte di chi poi si sarebbe sentito in diritto di ripudiarla dinanzi a tutta la tribù.

    I postumi del kava erano sbalorditivi; chi ne faceva uso, anche smodato, il mattino successivo si sentiva fresco come un fiore di campo appena bocciato e forte come un cinghiale. Amura era pronto per aggregarsi ai pescatori, si sentiva allegro e ottimista; disse ad Hani che le avrebbe portato il più grosso esemplare di tutta Whenua e c’era da credergli, abile com’era con la sua lenza portafortuna. Il vecchio Ranitea, invece, avrebbe come al solito curato l’orticello e badato ai maialini da latte, avrebbe anche terminato di intrecciare una cesta da barattare con un attrezzo oppure con qualche uccello che il gruppo di cacciatori-raccoglitori avrebbe catturato.

    Dal canto suo, Hani taceva fingendosi indaffarata con i letti di foglie di suo padre e di suo fratello; molte di queste erano ormai secche e andavano sostituite. Rispondeva assentendo col capo, che teneva costantemente abbassato nel timore che questi la leggessero in volto. Di andare a scuola proprio non se la sentiva; nella capanna ci sarebbero comunque state tante cose delle quali occuparsi. Nessuno avrebbe sospettato quali fossero i motivi della sua assenza, né capito il reale stato d’animo in cui versava. Semplicemente doveva far finta di nulla. Accompagnò come al solito suo fratello al raduno dei pescatori, lo baciò nel modo dei polinesiani e gli augurò una proficua giornata, dopodichè, insieme ad altre giovani ragazze, si accovacciò sulla sabbia bianca e stette ad intonare un canto per il buon esito della pesca.

    Rientrata nella capanna, Hani trovò suo padre impegnato a fissare una piccola scritta incisa sopra uno dei tronchi che reggevano il tettuccio di canne. Il povero vecchio non sapeva leggere, ma ciò che vi era scritto era sottolineato con qualcosa di simile a del sangue secco, il che gli dava da pensare.

    Senza distogliere gli occhi da quella cosa, Ranitea domandò: «Cosa dice?»

    La ragazza gli si avvicinò tentennando e prese ad osservare quei caratteri. T, A, H… c’era dell’altro ma non era comprensibile. «Amore», disse. «Nell’ultima luna scrivo io.»

    «Anche questo?» chiese il vecchio indicandole la strisciolina di sangue.

    «Anche questo.»

    Ranitea sembrava sollevato: fatture e maledizioni lo spaventavano oltremodo. Adesso andava compiacendosi. «È sacrificio per Moe?»

    In quale pasticcio stava andando a ficcarsi? Annuì fingendosi distratta.

    Il vecchio non domandò altro; si lisciò i lunghi capelli ancora corvini e uscì diretto al fiume per le abluzioni.

    Hani ne approfittò per cancellare quell’orrore.

    2

    Whenua… tre soli dopo

    "Mio nonno Marotea è un grande eroe. Combatte la tribù degli Awha durante la guerra del Fiume che lava. Si comporta da valoroso; in una sola notte uccide a sassate tre di loro, poi li sventra, divora i loro cuori e dona le carni al nostro popolo. È un gran giorno e tutti mangiano a sazietà, anche i più piccoli possono bere il sangue dei nostri nemici e leccare i resti delle loro interiora."

    «Quando leggo queste righe inorridisco!» dichiarò la maestra Miranda di fronte a tutta la classe. «Chi di voi prova il mio stesso sentimento?»

    Tutti gli alunni sollevarono un braccio, tutti tranne tre: due adulti maschi e l’autore del tema, un ragazzino di dodici anni di nome Tumata che sembrava più attratto dai colori della sua stuoia che dalle parole della bella insegnante bianca.

    «Ventisette, ventotto con me, contro tre. Direi una discreta media di spaventati. Ora, cerchiamo di capire cos’è che la minoranza approva in una pratica così mostruosa: il cannibalismo», domandò Miranda dopo averli contati e studiati uno a uno.

    La scuola era una grossa capanna ottagonale ubicata nel centro del villaggio. Questa, affiancata da una struttura ancora più grande, era costituita essenzialmente da bambù e ricoperta da un pagliericcio concavo color ocra che dava l’impressione di ritrovarsi al cospetto di un gigantesco e stravagante nido d’uccello. I banchi ricavati dai tronchi di palma da cocco, disposti in semicerchio, erano bassi, tanto che gli scolari sedevano per terra a gambe incrociate, ciascuno sopra una stuoia intrecciata dalle abili mani delle donne anziane.

    «Uinia, Temoe… chi vuole aiutarci a comprendere il vostro punto di vista?» chiese la maestra rivolgendosi ai due adulti.

    Uinia, il gigante del villaggio, si strinse nelle spalle, come a dire: È così che funziona la vita, mentre Temoe faceva una gran fatica solo per tenere gli occhi aperti, tanto che Miranda si domandò se avesse davvero seguito l’argomento della discussione. Gli altri, per fortuna, sembravano sinceramente interessati a una spiegazione.

    Rassegnata dall’ostinato mutismo dei due, Miranda si rivolse quindi al giovane scrittore. «Tumata? Illuminaci.»

    Qualcuno sorrise; comprendere l’ironia non era da tutti.

    «Quelli sono tempi difficili», disse Tumata. «Lottiamo per sopravvivere. Mio nonno racconta che gli Dèi sono in collera con noi, e così Dio acqua va a piovere altrove e Dio sole cresce. Man mano i boschi inaridiscono e le piante seccano; non c’è cibo per tutti, non è mica come adesso… Allora si ruba i maiali rimasti e si sgozza per una noce di cocco. La siccità ci colpisce con tanta violenza che perfino i pesci del mare grande e del mare piccolo ci abbandonano. Meglio mangiarsi tra nemici che tra di noi, se vogliamo vivere.»

    «Io, piuttosto mi sarei lasciata morire d’inedia!» esclamò Miranda. «E comunque non ci sarei mai riuscita, i sensi di colpa mi avrebbero…»

    «Tu parli semplice!» l’interruppe Uinia, scaldandosi. «Ma non ti trovi mai in una simile condizione. La verità è che le belle parole odorano di buono, ma non saziano l’appetito. Hai idea di cosa uno prova in preda alla fame più nera di un cielo notturno ricoperto di nuvole?» Fece una breve pausa e si guardò intorno; cercava negli occhi dei compagni quella piccola luce che si manifesta nel concordare. «Nessuno di noi lo sa. Ma chiedete ai più vecchi: vi dicono che non hanno rimorsi, che allora se non ti nutri ti indebolisci e finisci tu con l’essere cibo! Questo dicono.»

    Miranda si compiacque, non per il contenuto delle frasi di Uinia, quanto piuttosto per il fatto che avesse parlato con un tale trasporto a dimostrazione che il tema lo coinvolgeva. Non era mai semplice ottenere l’interesse dell’intera classe, vuoi per le sostanziali differenze anagrafiche, vuoi per l’ovvia diseguaglianza nell’apprendimento. I più attenti erano quelli tra i nove e i sedici anni, seguiti dai più piccoli. L’ultima ruota del carro era rappresentata dagli adulti, i quali, nonostante i limiti e considerato il contesto, suscitavano in tutti gli altri la più profonda ammirazione. Questi sacrificavano gran parte del loro tempo libero per ampliare la propria cultura, senza considerare il bagaglio di vita vissuta con il quale contribuivano alla crescita della scolaresca.

    Da dieci anni esisteva questa piccola istituzione e da quasi quattro vi insegnava Miranda, aiutata da un paio di professori e dagli allievi più capaci. Ora, però, era giunto il momento di sradicare alcuni strascichi di vecchio pensiero tribale. Colse al volo l’opportunità e disse: «Vediamo cos’ha da dirci in proposito la nostra Hani».

    La diciassettenne al primo banco si alzò dalla sua stuoia e raggiunse la cattedra intenzionata a dire la sua senza dover dare le spalle ai compagni. Anche Miranda si alzò cedendole il posto, un privilegio consentito esclusivamente agli allievi più bravi. Hani le sorrise; sedersi alla cattedra la faceva sentire sempre importante. Quindi esordì dicendo: «Voi credete che c’è un Dio dentro ciascuna stella, e che ci sono un Dio mare, un Dio pioggia, un Dio luna… centinaia di migliaia di milioni di Dèi». La ragazza tirò un sospiro e proseguì: «Quando conosciamo loro, i Merau, figli del mondo sotterraneo», e qui rivolse lo sguardo a Miranda che aveva assunto una posa molto compita, «io ho solo sette cicli di stagioni e, grazie a loro, comincio a farmi domande che altrimenti non mi faccio. I nostri Dèi provano i nostri stessi sentimenti: rabbia, orgoglio, vanità, vendetta… ma chi li crea? E così mi dico che deve esserci un creatore solo, uno che si fa da sé prima di tutti gli altri. E se questo Dio è così immenso, deve essere costituito di una natura diversa: infinito amore. Ma l’amore è il nutrimento dell’anima, non del corpo: Ama il prossimo tuo come te stesso, mi dice qualcuno dei Merau. Come me stessa? Posso io divorare me stessa?»

    Nell’aula-capanna, escludendo qualche ghigno, scese il silenzio. Quasi tutti aspettavano che Hani continuasse, ma questa lasciò la cattedra e riprese il suo posto senza aggiungere altro.

    «Bene così, Hani», l’incoraggiò la maestra. «Altre opinioni?»

    Fuori dalla scuola il sole era allo zenith e faceva un caldo umido; spirava un venticello insufficiente a rinfrescare la pelle e le uniche ombre erano quelle che a quell’ora cadevano quasi perpendicolarmente ai corpi. La capanna, infatti, situava su un’ampia conca di terra battuta dove crescevano pochi alberi, perlopiù dal basso fusto. Tutt’intorno si intravedevano le pittoresche capanne degli indigeni. C’erano quelle che facevano capolino tra le fronde che delimitavano i boschi, a sud; quelle disposte lungo il serpeggiante corso del fiume, ad ovest; e infine quelle che spiccavano per contrasto sul mare piccolo, a nord. Hani, Uinia, Tumata e tutti gli altri l’attraversarono a passo svelto, salvo poi rallentare dove la vegetazione prendeva ad infittirsi e dividersi lungo i sentieri diramanti che li avrebbero condotti a casa.

    Quando Hani scorse il casotto intravide tre estranei agghindati a festa che avevano quasi raggiunto la sua soglia. Due di questi erano avanti con gli anni e portavano con sé due grandi ceste colme di doni, mentre il terzo era un giovane piuttosto robusto, dal colorito olivastro. Sulla sua pelle vi erano incisi diversi tatuaggi: gambe, braccia e torso recavano i classici simboli polinesiani, mentre sul volto un elaborato disegno ne circondava l’ovale, finendo col convergere verso gli occhi spiritati. Reggeva inoltre un nodoso bastone da combattimento che agitava seguendo un preciso schema, come preparandosi a una guerra.

    La ragazza non aveva mai assistito ad un simile cerimoniale, né aveva idea di ciò che comportasse. Tuttavia ebbe uno strano presagio e così decise di nascondersi dietro una folta macchia di felci, aguzzando la vista e tendendo le orecchie in attesa degli avvenimenti.

    «Ranitea, sei dentro?» urlava il giovane dall’aspetto di un guerriero. Alcuni indigeni dai chioschi vicini si affacciavano timidamente.

    «Pace e misericordia a voi, stranieri», esordì Ranitea uscendo dalla sua capanna. «Ditemi, chi siete? Perché questi omaggi?»

    «Il mio nome è Tahitoa. Appartengo al villaggio di Vana’a e vengo a chiedere tua figlia», replicò il giovane. «Questi sono i miei prossimi», aggiunse indicando i due vecchi con il suo bastone, «e ti portano un piccolo omaggio delle nostre terre.»

    I due vecchi, silenziosi, deposero le ceste ai piedi di Ranitea: traboccavano di frutta fresca, erbe mediche e selvaggina. «Ti preghiamo di accettare», ansimò l’uomo, stanco per il lungo viaggio a piedi. «Quando celebriamo le nozze, facciamo una grande festa e ricevi il più bel maialino che possiedo.»

    Ranitea non credeva alle proprie orecchie. Emeriti sconosciuti volevano sua figlia, gioiello e vanto di Whenua.

    Tra le felci, un cuore batteva forte.

    «Pensate che io accetto i vostri regali? Parlate come di cosa fatta», disse Ranitea più imbarazzato che adirato.

    La vecchia coppia arretrò di qualche passo col capo chinato, lasciando le ceste là dove le avevano deposte.

    Nei dintorni c’era chi ormai aveva messo piede fuori dalla propria abitazione rendendosi partecipe dei fatti che andavano svolgendosi.

    «Non vedi il mio nome sul verginale sangue di Hani nella tua capanna? Lei non parla a te?» esclamò il guerriero facendo sì che lo udissero tutti. «Ti ripeto il mio nome: Tahitoa. Tre lune fa penetro nella tua capanna e possiedo tua figlia dinanzi a te e a tuo figlio che dormite. Secondo le usanze, lei mi spetta. Chi la vuole, adesso?» concluse levando alto il bastone.

    Ranitea barcollò sotto il peso di quella notizia; provò a cercare un appiglio, ma non vi riuscì. Alcuni vicini accorsero facendosi spazio tra gli stranieri e lo tirarono su, altri si allontanarono. «Via… via, per favore. Andate e portatevi queste ceste», sussurrò il vecchio con un filo di voce tremolante.

    3

    Whenua… cinque soli dopo

    In una piccola società tribale tutto il sapere viene trasmesso grazie ad una radicata tradizione orale. Dalle gesta degli Dèi a quelle degli avi, da ciò che è buono a ciò che è cattivo, dal commestibile al velenoso. Ma non è tutto. Anche i più futili episodi quotidiani vengono raccontati fino al tedio, essendo il dialogo un mezzo fondamentale per rinsaldare le amicizie ed i rapporti tra le famiglie appartenenti alle diverse tribù.

    Il racconto che vedeva Hani stuprata da Tahitoa era presto finito sulla bocca di tutti; quei quattro testimoni che avevano assistito alla dichiarazione del guerriero dinanzi a

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