L'assassino immortale
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L'assassino immortale - Luca Marchesi
1
15 novembre
ore 17.45
La porta gemette in modo stridulo, lamentandosi. Era vecchia e malconcia, gonfia di pioggia e sole, cosparsa di fori di tarli. Zelmira, come al solito, dovette lottare per chiuderla.
«È malandata come me» borbottò l’anziana docente di matematica. Uscì di casa e rabbrividì. Una nebbia umida e pesante le si aggrappò a vestiti e capelli. La donna imprecò contro la bruma, il tempo che passava troppo veloce, le porte malandate, la Commissione medica che l’anno precedente non le aveva rinnovato la patente, e anche la sua crescente sbadataggine che la costringeva fuori in quel gelido pomeriggio autunnale per acquistare la cena.
Con andatura incerta, avanzando a piccoli passi, si incamminò verso l’unico supermercato del paese. Si fece largo a gomitate attraverso la nebbia sempre più fitta. Zelmira si arrestò un attimo guardandosi intorno. Per un istante temette di essersi persa. La fumana si divertiva a nascondere il mondo, confondendo i contorni delle cose e fagocitando i punti di riferimento. Vie percorse decine di volte diventavano all’improvviso sconosciute in quel grigiore indistinto.
Una tenue luce si fece largo a fatica nella bruma. Era l’insegna del supermercato, un faro in mezzo al nulla pulsante. La donna puntò risoluta in quella direzione, accelerando un po’ il passo.
Fu in quel momento che le sembrò di essere seguita. Avvertì il familiare pizzicore alla base del collo che provava quando ancora insegnava e qualche allievo faceva il furbo mentre lei era girata di spalle, alla lavagna. Si voltò indietro. Solo nebbia. Ma ci vedeva poco ed era diventata un po’ sorda. Per questo non le avevano rinnovato la patente.
Cercò di aumentare ancora di più il passo, ma la sua schiena le inviò un paio di segnali molto eloquenti e rallentò. Si girò di nuovo. Non vedeva nulla. Si convinse che nessuno la seguiva anche se quella fastidiosa sensazione non la abbandonava.
Intanto era arrivata al supermercato. Prima di entrare scrutò di nuovo la nebbia dietro di lei. Quando era così arrogante, la fumana le ricordava il mare: una sconfinata distesa che valicava i confini del mondo conosciuto, ben oltre i Barchessoni di San Martino Spino e che nascondeva orrori e meraviglie, mostri e tesori. Certe notti poi, si intrufolava nelle case, strisciando attraverso stipiti e fessure e non era semplice, al mattino, cacciarla fuori con la scopa.
«Buonasera prof, ci ha portato un po’ di nebbia?» la salutò sorridendo uno dei commessi dell’esercizio. Era stato uno dei suoi ultimi allievi, prima della pensione. Non si ricordava il cognome, sapeva solo che l’aveva fatta dannare in classe e le sembrava persino di avergli messo un sette in condotta, ma non era del tutto sicura e forse si confondeva con qualcun altro. Troppi anni e troppi visi aveva visto passare dalla cattedra. A volte l’ex studente si offriva di accompagnarla a casa portando la spesa, quando la sporta era troppo pesante per un’anziana signora dalle gambe malferme.
Zelmira estrasse dalla borsetta il dépliant con le offerte della settimana e cominciò a ispezionare gli scaffali alla ricerca dei prodotti scontati. Indossò un paio di occhiali che teneva fissati intorno al collo con una catenina e si addentrò nelle corsie del supermercato. Incrociò altre sue allieve, alcune delle quali erano diventate addirittura nonne. Si salutarono con calore. Altri ricordi affiorarono come lampi, la risata di una ragazzina, un astuccio rosa scarabocchiato dimenticato su un banco, l’intenso odore dei tigli che entrava dalle finestre della classe in maggio.
Eppure, quella fastidiosa sensazione non la abbandonava. Si guardò intorno per l’ennesima volta, quasi temesse di ritrovarsi alle spalle il biscione del bosco della Saliceta che, nelle gelide e nebbiose nottate invernali, rubava il latte alle mucche nelle stalle e i sogni ai bambini che dormivano. Rabbrividì ripensando alle fole sulle fantastiche creature che abitavano la Bassa. Così deliziosamente spaventose. Raccontate dai vecchi nel tepore della stalla, il luogo più caldo della casa, dove si riunivano nelle lunghe sere invernali quando lei era piccola e la fumana bussava contro le finestre per farsi aprire.
«Comunicazione interna. Alessia in cassa due» gracchiò l’altoparlante.
L’anziana docente si riscosse. Uscì dalla stalla della vecchia colonica persa nei campi, dove si smarriva sempre più spesso ultimamente, e si ritrovò nel supermercato cittadino con un dépliant in mano che pubblicizzava il costo sensazionale della carta igienica, in offerta quella settimana. Continuò ad aggirarsi per le corsie del negozio, curiosando tra gli scaffali. Non aveva fretta di tornare alla fredda solitudine di casa sua, visto che per risparmiare teneva il riscaldamento basso.
Con la coda dell’occhio le parve di vedere un movimento alla sua destra, nei pressi di un alto frigo pieno di surgelati. Si girò e scorse un’ombra che scivolava via furtiva. Zelmira andò in quella direzione con la stessa determinazione con cui apriva il registro per mettere una nota disciplinare. Solo un po’ più lenta. Ma non c’era nessuno.
Si guardò intorno perplessa e poi riprese la sua accurata ispezione. Riempì la borsa di stoffa che si era portata da casa con alcuni dei prodotti in offerta e con le uova per la cena.
«Ha bisogno di una mano, prof?» le chiese premuroso il commesso ex studente.
«No, grazie. La borsa non è pesante. Stavolta faccio da sola.» Gli sorrise mentre cercava di ricordare il suo cognome.
Pagò e si diresse verso l’esterno. Le porte automatiche del supermercato si aprirono per farla uscire e subito la nebbia, con grande opportunismo, ne approfittò per entrare.
Zelmira Apparuti si incamminò verso casa fendendo la bruma. Un’ombra scivolò silenziosa dietro di lei e, nascosta nella fumana, continuò a seguirla.
15 novembre
ore 15.30
Nerina stava impastando la sfoglia di farina e uova per i tortellini. I movimenti delle sue mani erano veloci e sprigionavano tenui bagliori di luce bianca. Era una piccola magia che rendeva i suoi tortellini i più buoni dell’intera Emilia-Romagna e forse del mondo. Nel ripieno aggiungeva poi la noce moscata e altri ingredienti segreti secondo un’antica ricetta che si tramandava da secoli nella sua famiglia della Bassa modenese.
Nerina sbuffò. Cominciava a essere troppo vecchia per preparare la pasta. Così vecchia da non sapere nemmeno quanti anni avesse. La sua memoria cominciava a vacillare e sempre più spesso sogni e realtà si confondevano. Scosse la testa sconsolata. In quel momento bussarono alla porta.
Nerina si diresse con cautela verso l’ingresso della vecchia casa colonica. Era una donna imponente e negli ultimi tempi le gambe facevano fatica a reggere il suo peso considerevole. Inoltre, lo sforzo di tirare la pasta l’aveva stancata più del solito. Brutta roba diventar vecchi, brontolò.
Non andava nemmeno più nei campi a cercare le erbe, che solo lei conosceva così bene e con le quali era stata capace di preparare qualsiasi pozione: per guarire raffreddore, mal di gola, emorroidi, reumatismi, il verme solitario. «Le erbe curano, ma possono anche uccidere, come la cicuta» le aveva spiegato sua nonna Iolanda, un giorno che erano andate da sole nei campi, mostrandole una pianta erbacea dai fiori bianchi raggruppati a ciuffi a forma di ombrello che cresceva vicino a un fosso e puzzava di piscia di topo. Le lezioni orali erano il suo modo di trasmetterle il sapere perché ci voleva sempre qualcuno che conoscesse e ricordasse. «Ma ci puoi fare anche un ottimo ripieno per tortelloni e ravioli» aggiunse la nonna indicando le ortiche che crescevano poco distante.
Nerina aprì la porta. Era Giovanna Paraluppi che doveva farsi segnare una storta e acquistare sei etti di tortellini. Nerina la fece accomodare, pulendosi le mani sporche di farina sul grembiule.
L’anziana donna abitava in una casa al centro della vasta pianura, circondata da campi di barbabietole e granoturco e da chilometri di frutteti e pioppeti che affettavano la campagna, dritti come rotaie, perdendosi all’orizzonte.
Giovanna entrò zoppicando nell’ampia cucina. Al centro della sala c’era un tavolo malandato con le gambe bucherellate dai tarli, su un tagliere la sfoglia impastata dall’anziana con il mattarello. Di fianco un’intera parete era occupata quasi del tutto da un enorme camino. Il fuoco era acceso con sopra un grosso paiolo fumante.
«Stai preparando qualche pozione magica?» scherzò Giovanna.
«No, il brodo di cappone per i tortellini» rispose Nerina. «Siediti.»
Con il grembiule spazzolò frettolosamente una sedia, su cui l’ospite si accomodò con cautela, dato che non sembrava solidissima.
«Tranquilla, regge il mio peso…» Nerina uscì dalla sala e tornò poco dopo con un vassoio su cui aveva messo due bicchieri del servizio buono e una bottiglia di Lambrusco di Sorbara. Poi si accomodò su un’altra sedia che scricchiolò dolorosamente ma riuscì a resistere, benché schiacciata dalla mole dell’anziana. Le due donne bevvero in silenzio.
«Allora, cosa vuoi oltre ai tortellini? Ho visto che non zoppichi sul serio» chiese Nerina.
Giovanna divenne paonazza e cercò di mascherare il rossore facendosi vento con le mani. Sospirò, si arricciò nervosamente con un dito una ciocca di capelli grigi. Guardò il soffitto in cerca delle parole giuste. Notò una grossa ragnatela in un angolo della parete.
«Un incubo… mi perseguita da alcune notti. Sempre quello. La mia vicina di casa, la professoressa Zelmira Apparuti, viene trascinata via da un vento impetuoso. E sparisce. Un sogno di un realismo sconcertante, ripetuto per cinque notti di fila, sempre verso le tre. La prof sta tornando. Percorre via Caduti, passa davanti casa mia e mi saluta come fa sempre quando mi incrocia… Una persona così educata… Poi quando ormai è arrivata, viene avvolta da un fulet, un piccolo tornado che la risucchia verso l’alto e scompare. Mi sveglio in un lago di sudore… Cosa significa secondo te?» Giovanna parlò in fretta e poi rimase in silenzio. Si era tolta un macigno dallo stomaco.
Nerina impallidì sentendo quel nome. Avvertì un lieve tremito delle mani.
«Perché non ne hai parlato con Paola? Anche lei interpreta i sogni.» La sua voce era incerta, per colpa del magone che le era salito in gola.
«Troppo bella, troppo giovane. Non mi fido. Sai cosa dicono di lei in paese. Poi domenica ho degli ospiti e voglio fare bella figura con i tuoi tortellini.»
«Ti preparo i tuoi sei etti.» Nerina si alzò a fatica dalla sedia e si diresse nell’altra stanza dove c’era il freezer con i tortellini surgelati.
«E il mio sogno? Che succede?»
«Finisci il tuo lambrusco. Al resto penso io. Potevi venire prima, però…» Le lanciò un’occhiata di rimprovero.
«Ho avuto tanto da fare, sai com’è…»
Nerina si chiese cosa avesse da fare tutto il giorno una donna sola, vedova e senza figli, salvo spettegolare senza sosta sulle vite altrui, spiandole dalla finestra del suo appartamento.
Giovanna bevve il vino rosso e frizzante tutto d’un fiato. Prese i suoi tortellini, li pagò brontolando un po’ sul prezzo e se ne andò senza più zoppicare. Adesso ci avrebbe pensato Nerina, non era più un suo problema.
L’anziana donna osservò dalla finestra Giovanna che se ne andava, guidando lentamente lungo lo stretto stradello non asfaltato che portava in paese. Una malandata Fiat Tipo blu che si allontanava nei campi arati, svanendo nella nebbia. Ripensò a quell’estate di tanto tempo fa, quando aveva visto la madre di Zelmira Apparuti percorrere in bicicletta la stessa strada per andare da lei… a quello che l’acqua allora le aveva mostrato, con una nitidezza sconcertante.
Sempre più preoccupata si avviò verso il camino. Tolse il paiolo con il brodo dal fuoco, appoggiandolo sul secchiaio. Il tegame rovente sfrigolò. Non sapeva cosa fare. Poche volte in vita sua si era sentita così impotente. Doveva essere certa, fugare ogni dubbio… Ma chi le avrebbe creduto? A quello avrebbe pensato dopo.
Scese le scale ansimando ed entrò nella lavanderia. C’era così poco tempo…
15 novembre
ore 12.15
Nessuno sapeva da dove fossero arrivati. Con il loro volo silenzioso avevano attraversato la notte, e una mattina i primi assonnati abitanti se li erano ritrovati sui rami spogli dei platani di fronte alle scuole elementari. Una decina di enigmatici e misteriosi gufi. Fissavano dall’alto il fluire della vita sotto di loro, indifferenti allo stupore della gente. Con il passare dei giorni la curiosità era cresciuta e gruppi sempre più numerosi di bambini si erano addossati sotto gli alberi, osservando i gufi a bocca aperta, pensando di trovarsi in un film di Harry Potter. Il Comune aveva affisso cartelli che invitavano a rispettare il riposo diurno dei volatili. Arrivò persino la troupe di un’emittente televisiva di Modena per intervistare un veterinario del posto. L’uomo spiegò che si trattava di un dormitorio invernale detto roost, un fenomeno non insolito, anche in una zona antropizzata come il centro di un paese. L’intervista fu registrata più volte perché alcuni ragazzini si erano piazzati dietro il veterinario, accompagnandone le parole con urla, gesti osceni e grasse risate, finché la giovane giornalista non aveva minacciato di chiamare i carabinieri e il gruppo di facinorosi si era disperso con riluttanza. I gufi erano rimasti impassibili a tutto quel trambusto, tanto che l’operatore era stato sfiorato dal sospetto che fossero finti, collocati sull’albero da qualche burlone.
«I gufi sono qui per una ragione» si intromise il Maestro, un pensionato così soprannominato per le vaste conoscenze che millantava in ogni settore dello scibile umano. Trascorreva le sue giornate pontificando nei bar del paese.
Giornalista, operatore e veterinario lo fissarono perplessi.
«Quale sarebbe questa ragione?» chiese la giornalista, guardando platealmente l’orologio. Dovevano rientrare in fretta a Modena e montare il servizio se volevano che fosse trasmesso durante il tg delle 14.
«Quando cala la sera» rispose il Maestro abbassando la voce, diventata quasi un sussurro «si alzano tutti in volo, e prima di partire per la caccia notturna vanno a posarsi sulla cancellata di un’abitazione in via Caduti, dove vive una