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Your Will: Figlio del Fabbro
Your Will: Figlio del Fabbro
Your Will: Figlio del Fabbro
E-book766 pagine10 ore

Your Will: Figlio del Fabbro

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Info su questo ebook

“Gli uomini si interrogano sempre su quale sia il modo migliore per uccidersi a vicenda. Ferro, acciaio, legno, fuoco, pietra… sono innumerevoli i mezzi che possiamo brandire con le nostre mani. Noi riflettiamo solo su ciò che è possibile sfiorare, ciò che si può vedere, ciò che si può udire.”

La stagione delle nevi infine è giunta, ma la vita di ognuno procede senza indugi, attraverso interminabili addestramenti e quanto si confà a fratelli in arme che della noia non san che farsene.
Per costoro, e per chiunque altro, la quiete non persisterà a lungo, affatto.
LinguaItaliano
EditoreDj
Data di uscita18 apr 2023
ISBN9791222402857
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    Anteprima del libro

    Your Will - Davide Zamboni

    Davide Zamboni

    Your Will

    Figlio del Fabbro

    UUID: 1bd0aee5-edcf-41c8-b1f0-0ca12ef542ec

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    EPILOGO

    Ringraziamenti

    I

    " Dannazione!" imprecò tra sé e sé.

    Ancora una volta il suo fiero trotto era stato bruscamente interrotto.

    E perché?, perché tanta sfortuna?

    Non era certo stato per colpa di una svista o dimenticanza, si disse, dopotutto aveva solo riposto la propria fiducia nell’uomo sbagliato e quello, seppur ignaro dei desideri altrui posti sulle larghe spalle, aveva tradito tutti, e per primo se stesso.

    " Guarda un po’," esultò trionfante un uomo alle sue spalle, quel bastardo non è neppure riuscito a sbilanciare l’altro, ah ah. Te l'avevo detto che era solo un fantoccio. , annegando poco dopo le grasse risate in un torrente di birra rancida, la stessa che in quegli istanti calava copiosa dal boccale dello sfortunato scommettitore, troppo assorto nello scorgere bei sogni svanire dinanzi al naso per dare bado a quanto pronunciato da quello spala letame. Era inevitabile: il vincitore sorride, facendosi vanto di aver veduto più lontano di chiunque altro contente, mentre ciascuno sconfitto non può fare molto di più di osservare l’oggetto del proprio odio. Il suo giaceva laggiù, riverso nella polvere ormai impregnata di sudore, urina, sangue e cervella fresche.

    Sfortuna, ribadì con convinzione nella propria testa, nient’altro che una folata di aria passeggera. Con ogni probabilità avrebbe tenuto il broncio fino all’alba e per allora ogni sventura passata sarebbe rimasta come un mero ricordo, uno dei tanti presto dimenticati.

    Rincuorato da un’amichevole pacca sulla spalla destra, l’uomo si rallegrò e bevve un paio di sorsi dal boccale, prima di versare tutto il contenuto sul legno marcio sopra cui poggiava i logori calzari di cuoio. Giunto alla fine, emise un rutto profondo e si stropicciò gli occhi pesanti, notando che nell’arena la grossa porta in legno aveva appena sputato due ragazzi vestiti di stracci.

    Eccoli! si gongolò l’altro, appena si fu ripreso dal suo di ruggito. Portano fuori la merda in vista dell’ultimo combattimento.

    " E che si sbrighino." commentò l’uomo, senza rivolgergli alcuno sguardo, poiché intento a scandire un muto augurio di Vaffanculo al combattente sconfitto che, infilzato come un porco allo spiedo da ganci in prossimità delle spalle, iniziò ad essere trascinato con forza mentre più indietro il vincitore della lotta si godeva il suo ben meritato momento di acclamazione. Alle congratulazioni lanciate dall’alto, per lo più impasti di grosse parole e schizzi di bava, quel bestione rispondeva con boati ferini, allargando le braccia come a voler stringere in petto tutti quegli amici e, magari, anche una, se non due, delle dolci signore sapientemente distribuite lungo gli spalti come tante lupe intente a banchettare su un gregge di pecore ignare. E di prede quella notte ce n’erano quante se ne desiderava. Il pubblico era numeroso, ingrossatosi progressivamente con l’incedere della mezzanotte, ovvero il momento in cui si sarebbe svolto l’ultimo combattimento, il migliore, quello su cui le scommesse avrebbero fruttato il maggior guadagno.

    Il momento era ormai prossimo.

    Balzato in cima al proprio piedistallo, un moncone di basamento in marmo posto sulla sommità degli spalti a pianta circolare, un uomo grassoccio proruppe in un richiamo rivolto a tutti gli astanti.

    " Avanti signori… e signore!" decantò, se mai in quella accozzaglia di bifolchi ci fosse qualche donzella che non fosse una puttana di sua proprietà. Il meglio deve ancora arrivare per tutti voi!

    La piccola campana in ottone emise strida ad ogni batter del martelletto, senza che tale azione riuscisse a riscuotere un volto, uno solo, dall’incessante, ed ebbro, trambusto orchestrato dai fedeli sottoposti. L’ora era tarda, ed il più delle menti aveva ormai difficoltà a riconoscere l’uman parlato. Nessun problema, mormorò, che fosse la vista a richiamare la loro attenzione.

    Batté dunque tre volte lo strumento sonoro, in un segnale nitido, che fu subito recepito dai due seguaci di guardia sul limitare dell’area di lotta. I due figuri incappucciati, impugnate le spade corte dal fil di ferro irregolare, aprirono una sorta di recinzione ed invitarono, a parole ed accenni d’affondo, alcune ombre a marchiare la sabbia con le impronte dei loro piedi nudi. Si manifestarono quattro uomini, tutti ricoperti da tuniche lacere, i quali vennero accolti con grida ed acclamazioni gioiose da un po’ tutti gli astanti. La portata principale era finalmente sul piatto, ed ogni sguardo rapace si posò sulla carne, sbavando come alla vista di un bel pezzo di porco salato col rosmarino e salvia. La scelta era ghiotta, e tutti loro sentivano un interrogativo prudere nel petto: Su chi puntare qualche moneta?

    I più scelsero di covare in segreto ogni opinione sui lottatori, altri invece vomitarono tutto quanto.

    " Chi è quel vecchio di merda!" grugnì uno con accento tremolante e voce impastata, spingendo in malo modo chi gli era accanto per avere una vista migliore. Lo spettatore, qualora il suo abbaio fosse stato troppo vago, lanciò un indice accusatore verso il primo candidato, un uomo segnato da numerose cicatrici e peli grigi a contaminare la folta barba bruna. Non aveva una stazza invidiabile e neppure una giovine età, perciò in molti lo scartarono immediatamente, senza soffermarsi sulla possibilità che fosse un vecchio soldato, o persino un mercenario ormai non più in azione. Col suo portamento saldo, le spalle larghe, il fisico tarchiato e robusto, e quegli occhi di pietra, Barbagrigia pareva non essere afflitto da alcun timore, come se avesse visto abbastanza sangue altrui per non indugiare a calpestare la pozza vermiglia lasciata dall’ultimo caduto, né deviare i propri passi per trovare riparo dalle minacciose nubi d’acquazzone ammonticchiatesi al prossimo orizzonte. Non era da ritenersi come carne insomma, conclusero alcuni tra i cosiddetti Spendaccioni Esperti, ma neppure il favorito assoluto. Per dare i verdetti e schiudere i lacci di cuoio bisognava prima valutare i restanti capi di bestiame, in silenzio oppure cercando l’approvazione di amici e conoscenti.

    " Guarda quel porco di merda!" esordì uno dei tanti ubriachi, tanto isolato dalla realtà da ravvisare animali ed altre creature svolazzare dinanzi ai suoi occhi, pieno al punto di perdere l'equilibrio e finire insieme alla propria donna, della serata, sulla schiena con grande divertimento dei presenti.

    Il Porco di Merda era un individuo dalla mole generosa, che per sembianze ravvisava un grosso bue. La statura era ben superiore alla media di quei tempi e sarebbe potuto essere additato come favorito se solo il suo atteggiamento fosse stato arcigno, brutale, e meno dimesso. Col costante spostamento del capo, ora rivolto in basso ed ora rivolto in ogni altra direzione, mostrava una forte agitazione che ostentava nel modo in cui stringeva il palmo sinistro attorno all’avambraccio destro, laddove un’incisione indelebile prematura lo avrebbe sempre perseguitato. Ad uno sguardo acuto non era da escludere che, come ogni altro uomo comune, lui avesse difficoltà ad affrontare una folla esagitata ed ingoiare la fiumana di imprecazioni indistinte come dolce miele selvatico. L’inquietudine era comprensibile, ma restava un combattente dell’arena e, come tale, doveva essere impavido, nonché impervio agli schiamazzi di un pubblico che in fondo reclama solo un po’ di sangue. Che sia dell’uno o dell’altro, beh, poco importa. L’organizzatore della lotta probabilmente aveva scelto il malcapitato per arricchire il piatto con carne tenera, tanto per non impiegare le sue bestie più agguerrite tutte insieme ed offrire una buona distrazione, alcuni bocconcelli con cui smuovere la mascella.

    " Avanti Porco!" gridò un astante in tono sprezzante, presto raggiunto da un Fatelo a pezzi! , pronunciato con tanto ardore dal venir ripetuto svariate volte in un coro dalle note aguzze e ben poco armoniose.

    Il Porco, così nominato all'unanimità dei presenti, arrestò i propri passi, incapace di trascinare oltre le gambe, contravvenendo pure ai richiami delle guardie poste sui fianchi.

    La disobbedienza agli ordini da parte di un lottatore non era nulla di grave, del resto taluni esseri avevano parentele più strette ad animali che all’uomo. Erano menti abiette, prone alla violenza ed all’indisciplina. Quando le parole non riescono ad entrare in testa, lacci di cuoio e colpi di bastone possono sempre tornare utili per impartire ordini. Poi, qualora tali utensili si dimostrassero poco efficaci a lenire la dura scorza, sarebbe bastato far cantare il ferro.

    " Guarda questo idiota." farfugliò una voce alle sue spalle dell’inquieto omone, accompagnando il malcelato astio con un calcio abbastanza forte da sollevare un grumo di sabbia che attirò l’attenzione del Porco. Il terzo lottatore aveva il volto sbeccato, non da rughe precoci, bensì da quella che doveva essere un’ustione ormai sepolta da anni. Parte dei lunghi capelli corvini era stata estirpata, ed al posto dell’occhio destro restava solo una piccola fessura. Più in basso, le fiamme avevano mordicchiato in modo diseguale le guance e masticato la punta di un naso in origine a becco d'aquila.

    Cosa avesse da raccontare quel Guercio nessuno lo sapeva, e nessuno glielo avrebbe domandato.

    Chi gli stava nei pressi restò in silenzio, e così quello poté continuare a parlare.

    " Tu sarai il primo a cadere, e non preoccuparti, sarò rapido."

    Il Porco deglutì a vuoto, sostenendo coi due suoi specchi d’acqua tremolanti il nero sanguigno dell’ometto, e la sagoma massiccia che lentamente si approssimava a loro. Una grossa mano calò sulla spalla del Guercio, spingendolo di lato quel tanto che bastò a farlo ruzzolare sul fianco sinistro, tra la polvere e le sue imprecazioni. Tra i merda e gli stronzi , il malcapitato non restò il solo a cantare.

    " Che hai fatto?" abbaiò con voce sdegnata una delle guardie, innalzando la punta di ferro al quarto combattente, in alto, ben oltre la fronte, considerato che quella testa bruna era distante quasi due piedi dalla propria.

    " Era in mezzo." rispose burbero l’omaccione, quasi stizzito dal doversi giustificare per quanto fatto.

    " Volevo solo chiedergli di farsi da parte." ribadì, dondolando la testa tra l’interlocutore allibito e il suo sfidante, in quel momento pervaso da un furore indomito, esploso improvvisamente dopo essere stato colto alla sprovvista. Balzato in piedi col fare di un gatto selvaggio, il Guercio scalpicciò rumorosamente fino a raggiungere quel figlio di puttana, desideroso di restituire il favore che tuttavia restò solo nella propria immaginazione.

    La seconda lama si era mossa alla sua gola con agilità sufficiente per impedirgli di balzare sul colosso.

    " Lui non ha ancora detto di cominciare."

    Non sordo alle minacce reali, il Guercio accettò di stare immobile e tenere i pugni lungo i fianchi, senza che ciò ponesse limiti alla bocca ed alla grossa boccata d’aria appena ingoiata.

    " Figlio di puttana!" ruggì adirato, stimolando tra gli astanti un guizzo di diletto, ed alcune domande che di bocca in bocca presto compirono due, se non tre o quattro, giri completi degli spalti. In breve si scatenò un ronzio di voci confuse. Tutti si chiedevano tra loro chi dei due avesse le maggiori probabilità di prevalere. C’era discordia e nessuna risposta certa, condizioni ideali per introdurre diverbi accesi e, se qualcuno avesse atteso oltre, zuffe senza prospettiva di profitto.

    " I miei uomini sono pronti a spargere sangue caldo da un momento all’altro, e temo di non poterli trattenere troppo a lungo" sentenziò il Banditore, seguendo ciascuna parola con un forsennato scatto delle braccia, che col suo strano copricapo piumato gli dava la parvenza di un pollo grassoccio impegnato a sgambettare per distanziare una volpe al suo inseguimento.

    " Fate dunque le vostre scommesse, almeno finché vi avanza del tempo." e qualche moneta in più.

    Non vi era altro da proclamare, dopotutto quello era il momento più atteso dello spettacolo, l’attimo fondamentale nel quale era necessario profondere il massimo impegno nell’arte dell’accattoneria e spillare ogni altrui moneta rimasta in tasca. Come una puttana poteva con moine e qualche assaggio dei maturi frutti garantire piacere, lui avrebbe stuzzicato fantasie, solleticato palmi rigidi e mordicchiato ogni raziocinio per garantirsi la propria parte. Alla fine un brav'uomo come lui doveva saper intrattenere gli astanti e convincerli a disfarsi delle proprie zavorre lucenti senza, quando possibile, far ricorso alla violenza.

    " Con calma, con calma!" rimbrottò allietato il Branditore quando si trovò dinanzi il promesso, e nutrito, nugolo di scommettitori impazienti.

    Tre monete di rame, altre cinque, poi due… ognuno dei giocatori mise quanto avanzava sul piatto nella speranza di poter afferrare le curve prosperose della Dea Seduttrice. Tra il baccano di voci ed il cozzare di corpi agitati, aveva a che fare con un branco di cani randagi, ciascuno preoccupato ad agitare il palmo, oppure il pugno. Furono ben poche le parole di senso compiuto che giungevano alle sue orecchie, e non se ne turbò, sebbene sulla propria persona non portasse armi ed armature. Previdente ed esperto com’era, si era circondato coi propri figli: ragazzetti forzuti raccolti qua e là nei bassifondi a cui spettava la sua salvaguardia. Quegli orfani facevano parte di una grande famiglia, la sua, nella quale si trovava una sola mente al comando d’una dozzina di braccia da adoperare nel modo più consono. Se poi ciascuno sgherro aveva con sé del ferro lucido, ebbene, porre in ordine la feccia era cosa da poco. Bastarono infatti qualche spintone ed una buona dose di improperi per disperdere lo sciame di mosche, così da lasciare al Banditore il tempo di fare due conti.

    " Giornata buona?" chiese il giovane che in quel momento lo stava assistendo a segnare i nomi degli scommettitori e le rispettive monete.

    " Eccome." replicò solerte l’altro, mentre soppesava il piatto con l’impiego di entrambe le mani paffute.

    " Da quando sono state indette nuove tasse da quel coglione di Carlo e le sue campagne militari contro Tarcona e Vilmercato, non rimangono che briciole per noi. Possiamo dire che oggi sono favorito da un qualche Dio" aggiunse rinfrancato, mentre la mente si perdeva a tempi più prosperi, quando allora la città non era in mano a guerrafondai e promessi eroi.

    C’era forse una ragione perché i Nobili sentissero il bisogno di farsi la guerra ad ogni cambio di stagione?

    Non potevano piuttosto dilettarsi con le proprie ricchezze e sperperare monete d’oro in favore di donnicciole sapienti?… magari le sue.

    Persosi in congetture reali frammiste a sogni di grandezza, il Banditore dal cappello piumato fu d’improvviso ridestato quando udì rintoccare due duri tintinnii sul tavolaccio senza che i suoi occhi avessero colto la sagoma slanciata giunta con passo svelto.

    " Due monete d’argento sull’Orso!"

    Tale affermazione giunse come un tuono, e persino il giovane aiutante restò sbigottito per come l’estraneo fosse apparso senza esser tradito dal picchiettio deciso dei suoi stivali.

    " Cosa?" borbottò il Banditore. Quale orso?.

    " Il quarto lottatore, quello che ha gettato nella polvere il piccoletto dal volto bruciato." ripeté l’uomo incappucciato, gesticolando in modo accentuato, qualora non fosse stato abbastanza convincente. Quello grande e grosso.

    L’altro aveva capito, tuttavia ad interessargli era il volto sfuggente di quell’ombra danzante. Provò a scorgerne i contorni, ma fu inutile, poiché le lanterne non erano abbastanza vicine dal mostrare altro che non fosse il suo mantello color cremisi, con cui era avvolto l’intero corpo ad eccezione della mani dove invece spuntavano candidi guanti lanosi.

    E che potevano importare a lui le fattezze di un suo cliente?

    Nulla, si rispose, del resto quel tale era divenuto in un attimo il cliente più importante, e forse il più stolto.

    " Due monete sull’Orso" rispose infine, porgendo lo sguardo ai due cimeli argentati che, con un po’ di fortuna, avrebbe messo in sacco entro la fine dello spettacolo. La fatica nel cogliere la puntata richiese ben poco lavoro di mano, perciò, siccome in quel fugace attimo di quiete si sentiva pure magnanimo, volle offrire qualche parola incoraggiante all’estraneo prima di lasciarlo assistere alla lotta.

    " Temo tu abbia commesso un azzardo. Quel Guercio è un osso duro. Anche se più basso del tuo Orso, può facilmente ucciderlo. Vanta ben venti vittorie ed alcuna sconfitta, mentre l’altro è appena un principiante raccolto dalle campagne."

    Al suono della sua voce il cappuccio fremette, nel tentativo goffo di, forse, trattenere una risata sommessa. Nel mezzo di quell’inconsueto ballo ne uscì: Sarà un’ottima iscrizione da apporre sulla sua lapide.

    Il Banditore in risposta scosse il capo, infastidito sì e per nulla desideroso di approfondire la discussione.

    Le parole avevano fatto il loro corso.

    Adesso sul letto del fiume avrebbe strisciato la morte, lenta ed inesorabile, affinché tutti fossero gratificati: gli Dei, ed i suoi astanti.

    Il Banditore zampettò allegro fino alla recinzione in ferro, sporgendosi quel che bastava per garantire agli occupanti degli spalti una buona vista della propria persona, al fine di raccogliere ogni orecchio e portarlo alle sue labbra. Con studiati, e confusi, movimenti delle braccia prese tempo per immagazzinare quanta più aria potesse azzannare, ed infine sbraitò: Miei ospiti!.

    Il suo grido discese come il canto di un’aquila solitaria. Ogni preda levò il capo in alto, pronta ad accogliere la sua arringa.

    " E’ tempo che il sangue scorra un’ultima volta, e quale modo migliore se non uno scontro selvaggio tra i nostri quattro contendenti?"

    " Sì!" abbaiò qualcuno, interrompendo in malo modo il suo discorso per un poco, abbastanza perché il Banditore potesse rifiatare. Non c’era altro da dire, rifletté, se non…

    " Combattete!"

    Dalla cima degli spalti, gli sguardi si unirono in una pioggia battente, piombando sulla sabbia all’inseguimento delle quattro sagome mossesi insieme al richiamo ricevuto. Ognuno dei combattenti aveva soppesato nella lunga attesa quali avversari presentassero un’insidia e quali era bene togliere di mezzo senza perdere troppo tempo. Il Guercio, di mole inferiore alle tre prede, scattò sulle punte dei piedi in direzione del Porco, ritenendolo troppo lento per poter evitare il suo assalto, e tanto inebetito dalla paura nel sembrargli fermo come una statua di fieno rinsecchito. Tra loro li separavano due pertiche, una distanza percorribile in poche falcate e non sufficiente perché l’idiota potesse spostarsi, o resistergli. Con uno slancio di muscoli tesi quanto corde d’una cetra l’assalitore si predispose all’offensiva. Doveva finirlo subito, colpendo quella sua testa vuota e farlo crollare al suolo esanime. Balzò allora in alto, ritraendo il braccio destro mentre il sinistro si sarebbe aggrappato al cumulo di carne flaccida, in corrispondenza della spalla, da lui ritenuto un valido appoggio per mantenere intatto l’equilibrio e non capitombolare nella polvere. Solo al tatto degli artigli sulla sua pelle il Porco si accorse del pericolo, quando ormai lo aveva di fronte. Lo sguardo ricolmo d’inquietudine che si contrappose diede lo slancio necessario per sprigionare un violento pugno alla tempia destra, totalmente scoperta.

    Un attimo era lì, ed in quello successivo non più. Qualcosa si era frapposto nel mezzo: una parete non semplice da scavalcare, e tanto meno intenzionata a farsi sgretolare per così poco.

    L’impatto sull’ampio petto fece singhiozzare le falangi, minacciando di spezzarle se fosse stato tanto stolto da ripetere l’attacco con la stessa veemenza. L’omaccione vacillò appena, ma non indietreggiò di un singolo passo, né emise più di uno sbuffo rancoroso. Restò immobile, come un monte indifferente a quanti stolti cercano di risalire i suoi pendii scoscesi, mentre il Porco, ancora stordito da quanto accaduto, si avvicinava alle spalle dell’improbabile salvatore per porgere parole di gratitudine, indesiderate.

    " Se non sei qui per combattere, buttati a terra e prega!" ruggì l’Orso in tono possente, il quale si accorse, grazie alle grida dall’alto, che Barbagrigia incombeva sul suo fianco destro. La vecchiaia aveva sì mangiucchiato l’elasticità di gambe e braccia, tuttavia la mole di quel cinghiale non era da sottovalutare. Una spallata di corsa avrebbe mandato in pezzi un fascio d’erba rinsecchita senza doversi fermare, rifletté, e non avrebbe sbattuto senza lasciare scorno sulla corteccia di una grossa quercia. Il grosso pugno destro si sollevò sopra la spalla. Doveva togliersi di dosso ogni indugio, anche se ciò avrebbe richiesto l’uso sconsiderato del proprio braccio.

    Andava fatto, e basta!

    Ricevuto il pugno allo sterno il Porco si rimangiò ogni ringraziamento e crollò all’indietro, battendo poi la nuca contro il solido muro in pietra che quantomeno gli avrebbe concesso una caduta meno gravosa di quanto meritasse. La rapida esecuzione dell’Orso riscosse un miscuglio indistinto di voci. Alcuni pretendevano di vedere il sangue scorrere in buone quantità, ed egli era stato rapido, forse sin troppo precipitoso nel abbattere il primo dei suoi avversari. Incurante delle lacrime emerse dalle nocche offese il colosso ritrasse il braccio destro, senza abbassarlo sotto il mento, pronto a ricevere il vecchio incalzante. Quel suo pugno era ancora pronto a colpire con tutta la sua forza. Doveva solo farlo per primo, e così non fece.

    Una lingua di fuoco divampò dal basso ventre, strisciando attraverso i gonfi muscoli, in quel lungo momento inservibili, divenuti pietra.

    Aria, aveva bisogno di aria, eppure la bocca, seppure spalancata, non riusciva a raccoglierne abbastanza, poiché molta era quella che doveva abbandonare.

    Che stolto!, aveva creduto che quella fosse una lotta imbrigliata da regole, onore e rispetto?

    Il Guercio ci aveva visto giusto: farsi scudo per un debole, quando neppure si è in grado di stringere salda la propria vita, è un peso sotto il quale schiacciare molti benefattori.

    Col suo calcio preciso aveva inciso il muro e con l’aiuto del suo nuovo amico l’Orso sarebbe finito al suolo come una carcassa pronta per la libagione.

    Barbagrigia, dotato di una solida costituzione e gambe ancora robuste, accentuò la carica per dare il massimo impatto al tronco sbeccato. La spalla destra, destinata ad affondare nella sezione ancora ferita, impattò duramente, come se a contendersi fossero due tori avvampati. Sotto lo schianto venne sepolto il più piccolo sussurro, lasciando che a parlare fossero i due uomini, o -meglio dire- i loro corpi.

    Il dolore riempiva il petto di ciascun contendente, anche per chi sino a quel momento non aveva subito percosse. Un brivido si inerpicò lungo la schiena ricurva del Guercio. Non era l’estasi della battaglia, piuttosto il terrore che purtroppo può essere scorto solo da chi possiede un occhio acuto. In quello che era un insolito abbraccio, Barbagrigia era rimasto avvinghiato con una rudimentale presa a due braccia volta a stritolare i visceri e mozzare il fiato. Su un uomo come tanti altri forse avrebbe funzionato, ma non su un tronco pieno di vita, sorretto da fonde radici. A rammentare ogni timore ci pensò un sordo rintocco della logora schiena. Il pugno destro, quello che era rimasto appollaiato sulla sommità della montagna, era calato d’improvviso, spinto da un getto d’aria rovente e schizzi di pioggia. Come il maglio del Fabbro l’Orso percosse le vertebre due, tre volte, trascinandosi dietro sussurri ed incitamenti che parevano quasi alleggerirne gli sforzi, nel desiderio comune che lo spettacolo non avesse una brusca conclusione. Quale che fosse il proprio eletto, di scommettitori timorosi ve ne rimaneva uno che in tutto ciò poteva perdere ogni cosa, il solo ad aver messo sul piatto ben altro di due lucide monetine.

    Doveva intervenire, ed in gran fretta. Il Guercio corse rapidamente alle spalle del colosso, conscio di doversi intromettere prima che Barbagrigia esalasse il suo ultimo respiro. Arrestare il braccio nerboruto era futile, se non pericoloso, pertanto scelse di impiegare la sua esperienza in una tattica predatoria. Incurvato in avanti, per meglio battere il ferro caldo sull’incudine, quel bastardo aveva offerto un’opportunità, e lui non esitò a coglierla.

    Servendosi di un breve balzo, il Guercio afferrò le larghe spalle, risalì dunque la schiena come un gatto aggrappato ad una corteccia di quercia, cingendo sull’enorme cassa toracica le gambe e le braccia attorno al collo, spingendo ogni suo muscolo al limite pur di creare due anelli impossibile da spezzare. Per quanto possente e forte potesse essere quell’uomo, persino lui poteva essere vinto. Con la gola stritolata e le costole trattenute in una tenaglia, era solo una questione di tempo prima del meritato trionfo. Da spettatore aveva osservato la lotta, atteso il momento opportuno, ed agito come un rapace in picchiata, bramoso di banchettare sui corpi martoriati di due belve feroci. Barbagrigia aveva fatto abbastanza, e finalmente poteva accasciarsi. Di lui non aveva altro da chiedere, se mai gli fosse sorta l’idea di esser collaborativo, e non di profittare della forza altrui per disfarsi di un valido lottatore.

    Presto, molto presto, avrebbe camminato sopra l’avversario più ostinato che da tempo avesse incontrato, anche a costo di spezzarsi le braccia. L’Orso, accecato dalla collera, si era lasciato sorprendere alle spalle, ed ora stava pagando caro la sua seconda distrazione. L’ampio petto era in preda a fitte lancinanti, come se in esso affondassero ripetutamente stiletti infuocati, ogni respiro gli era proibito e ciò lo costrinse a tentare di liberarsi in ogni modo. Dopo aver agitato le braccia in vani affondi di gomito e pugni a vuoto, afferrò l’anello di braccia del Guercio, avvalendosi della sola forza scaturita dalla disperazione.

    Non servì a nulla.

    Presto le dita si intorpidirono, e così accadde anche alle braccia, che dopo molti stenti dovette abbandonare lungo i fianchi come radici strappate alla madre terra.

    " Sei finito. Dannato bastardo!" continuava ad inveire l’ombra alle sue spalle, in un insieme di parole mal masticate, indistinte dalle altre disperse lungo gli spalti.

    " Uccidi! Uccidi! Uccidi!" ripetevano le voci dall’alto, quelle mortali e quelle Immortali.

    Chiunque stesse osservando voleva la sua morte, e lui li avrebbe forse accontentati, se solo il suo animo non fosse il più cocciuto tra tutti gli uomini.

    Anche se percosso da ogni male,

    anche se odiato da ogni uomo,

    anche se stretto nell’abbraccio della morte,

    lui avrebbe detto…

    " No!" sbraitò l’uomo, prima di sgambettare all’indietro fino alla parete più vicina, lasciandosi condurre dall’odio verso un mondo che lo aveva sputato sul piatto solo per calpestarlo.

    Il Guercio vide il pericolo con chiarezza, ed immediatamente dovette abbandonare la presa di gambe e braccia, altrimenti sarebbe finito schiacciato tra due pareti di roccia. Balzò in tempo, ma non con la destrezza sufficiente per evitare la caduta al suolo sulla spalla destra. L’intero braccio mandò un aguzzo strepito a tutte le altre membra. Il Guercio ringhiò intensamente, mentre la saliva in bocca si mescolava al terriccio madido di sangue e sudore. Sputò fiato arroventato ed a lungo restò sdraiato a boccheggiare, provando a scrollarsi di dosso tutte le fatiche accumulate in quell’incerta lotta. Il solo occhio rimase a guardare dinanzi a sé, senza mai sbattere una singola volta le ciglia tra loro, per non smarrire quella sagoma massiccia adagiata contro il muro. Restava un solo ostacolo, e quel bastardo ancora si ostinava a lottare, per il solo piacere degli astanti che nel vedere il dolore altrui non erano mai sazi.

    " Uccidi! Uccidi!" non facevano che ripetere. Ormai delle monete scommesse poco importava. Assistere ad un combattimento spietato era quanto di più prezioso loro potessero desiderare, quanto di più avrebbero mai veduto.

    Volevano un vincitore, e lo avrebbero avuto.

    Il Guercio si rialzò, pur mal celando l’intenso bruciore dell’arto offeso. Dapprima strinse i denti, poi fece altrettanto con le dita escoriate, infine scattò innanzi.

    Nessuna tecnica lo avrebbe aiutato, nessuna esperienza passata, solo la forza di volontà più grande avrebbe deciso la vittoria… la sua!

    Come compiuto in precedenza, doveva raggiungere la sommità e colpire forte, anche al costo della mano se necessario.

    L’Orso era immobile, intento a riprendere fiato, con le spalle al muro e le braccia afflosciate.

    Non aveva nulla con cui difendersi, nulla con cui coprire quel suo ghigno beffardo.

    Il rintocco d’ossa spense gli entusiasti incitamenti. Nessuno esultò, né ci fu chi ebbe l’ardore di lanciare parole grosse. Tutti preferirono trattenere il fiato, ed attendere.

    I due contendenti stettero immobili a lungo: la fronte del primo separata di due spanne dall’altra, gli sguardi avvinghiati l’uno all’altro. Le braccia stavano a penzoloni, prive di forza per porgere più alcuna offesa, e le gambe, pure quelle ormai, erano senza forze.

    Non restò che osservare il primo cadere all’indietro nella polvere, ed il secondo cozzare la schiena contro la dura pietra.

    La notte calò sull’occhio del Guercio, mentre l’avversario si accasciava lentamente al suolo, servendosi della parete per non rovinare a terra sulle gambe malferme. Questi era ancora vigile, seppure intontito per l’acuto dolore sprigionatosi sulla fronte insieme a qualche zampillo di sangue caldo.

    " Ecco il vincitore!" ruggì il Banditore, sbracciandosi come un grasso volatile che vorrebbe spiccare il suo primo volo, mentre attorno c’era chi esultava per la vincita e chi rivolgeva agli Dei epiteti tipici dell’epoca.

    Lo spettacolo era stato concepito per dare un po’ di sangue, ed era riuscito a tenere alla gola ogni astante. Per i bassifondi si sarebbe raccontato di quella lotta, e ciò avrebbe garantito nuovi clienti, altro denaro, per lui.

    Messosi a sedere sulla sua poltrona il vecchio doveva ora sistemare i conti: dare ai vincitori la giusta parte, ed agli sconfitti qualche parola incoraggiante, così da non farli fuggire insieme alle loro monete.

    Anche quella notte era stata soddisfacente, perciò, dopo aver allontanato chiunque di troppo, non gli restava che lasciarsi andare nei suoi sogni d’oro ed argento, nei quali i buoni guadagni di oggi sarebbero decuplicati già il dì seguente. Prima di coricarsi, tuttavia, occorreva procedere passo a passo. Mise dunque tutte le monete al proprio posto e, dati alcuni colpi con le nocche, approvò la solidità del suo forziere. Scrutati attentamente i dintorni, riconobbe solo volti frastornati dal troppo bere, che probabilmente avrebbero richiesto una qualche chiara sollecitazione per ritrovare la strada verso l’uscita. Per tali mansioni gli restava qualche giovanotto dai duri calli sui polpastrelli, e l’importante, come rammentava sempre, era la necessità di non spezzare troppe ossa, altrimenti la milizia cittadina avrebbe presentato una protesta, o persino la confisca di beni preziosi.

    " Tu!" disse con voce impastata al ragazzo che gli stava accanto, il medesimo impiegato fino a quel momento a tenere i giusti conti. Quello, seppure indispettito dal tono perentorio usato dal padrone, si voltò rapidamente e tese l’orecchio, in tempo per ascoltare: Bada a quel gregge sperduto.

    Così il Capo assicurò l’ordine nel proprio dominio, allontanandosi senza attendere neppure un cenno della testa in risposta.

    Iniziò a camminare tra le decine di sagome contorte, stando attento ad evitare i boccali che avrebbero potuto infradiciare i suoi abiti ed il copricapo piumato, così come le numerose bocche spalancate e rivolte ai calzari. Con passo un po scomposto e barcollante, talvolta costretto a compiere brevi saltelli, il vecchio si orientò grazie alla memoria, finché non scorse l’ingresso ed il fantasma incappucciato che sostava sotto la luce della lanterna affissa sull’architrave.

    " Un bel combattimento." disse l’estraneo, troppo occupato a guardare qualcosa dinanzi per rivolgere all’interlocutore la luce dei suoi occhi.

    " Specialmente per chi ha distinto il lottatore giusto." rispose il Banditore, accortosi che quello era il solo a non essersi presentato per ricevere la vincita, nonostante la sua fosse superiore a tutte le altre. Di certo voi avete occhi da lince, o aquila… per grande vostra fortuna.

    Annusando l’olezzo del ricatto intuì che quel bastardo avrebbe domandato un equo compenso, una somma che avrebbe in parte infangato la sua buona nottata, ed i dolci sogni che già iniziavano a dissiparsi oltre la punta del suo grosso naso.

    " Per quanto concerne il denaro posto sul piatto…" disse quello, affondando l’indice affusolato nell’aria appesantita dal fiato pesante di chi gli stava accanto, considerala una piccola donazione per il tuo buon lavoro svolto.

    Tali parole posate erano quanto di più grato potesse ricordare il vecchio da che avesse modo di comprendere la lingua dell’uomo. Stava per convincersi ed abbracciare il suo nuovo amico con un abbraccio, ma immediatamente scacciò ogni buon proposito. D’altra parte, rifletté a labbra socchiuse, saper leggere una buona frase sono abili in molti.

    " Parole caritatevoli, ma ditemi…" balbettò con intonazione affabile, come posso esservi d’aiuto? Lo spettacolo è finito per oggi.

    Il Banditore percepì appena un lieve stropiccio della lunga veste, accompagnato da un mormorio simile al verso d’un gatto che fa le fusa.

    " Vorrei parlare con uno dei tuoi lottatori." disse il cliente, senza muoversi neppure d’un passo dalla posizione in cui l’aveva scorto, prima che avvenisse la loro chiacchierata.

    " Naturalmente. Favore per favore."

    Condotto nelle viscere del grande edificio, l’ospite seguì il giovanotto e la torcia in suo pugno. Vedere qualcosa in quell’oscurità era possibile forse per i ratti che sentiva schiamazzare accanto ai pesanti stivali, ed in tutta onestà non covava il desiderio di scoprire cosa fossero le sparute ombre immobili adagiate lungo le pareti, e tantomeno aver risposta per il costante singhiozzare del viscido pavimento. Il tanfo di morte ed escrementi era soffocante, a ricordo di quanto siano trascurabili le cure per chi con la propria vita ha deciso, volente o no, di scommetterci sopra. In tale luogo ogni merito andava al vincitore del giorno, e poco importava se l'indomani fosse stato un altro. L’uomo saggio non corteggia mai la stessa puttana.

    Camminarono ancora un poco, finché non giunsero alle celle dove erano confinati i vari lottatori, suddivisi tra schiavi e uomini liberi.

    " Questa è la sua stanza." disse il ragazzo dopo essersi fermato accanto ad una spessa porta in legno di quercia malandata.

    " Attendi pure all’imboccatura del corridoio. Vorrei discutere da solo con lui." propose l’Ospite Stimato, o come lo aveva chiamato il Padrone al momento di affidargli la sua sicurezza e sorveglianza. Nessuna morte ingiustificata, gli aveva raccomandato.

    " Ne sei convinto?" rispose la guardia, portando la mano destra al pomolo della spada corta.

    " Non hai visto cosa è capace di fare quell’animale?" aggiunse in tono torbido, non abbastanza affilato da celare ogni suo timore dietro al ghigno sghembo. L’uomo scosse il capo energicamente e gli poggiò una mano sulla spalla, percependo il tremore che il battere di denti trasmetteva ad ogni sua membra.

    " Qualora lo facesse…" rispose in tono untuoso, mentre indicava con l’altra mano un leggero gonfiore sotto il mantello, ti pregherei di prendere la mia borsa di monete ed uscire da questa fogna. Cammina lontano, finché puoi.

    Una risata bassa, e dalle note stridule, si fece largo tra le sue labbra, ed il giovane comprese di doversi fare da parte. Distolto lo sguardo solo dopo una breve riflessione, s’incamminò con passo incerto verso il corridoio da dove erano arrivati senza voltarsi indietro. Lasciato solo, l’ospite aprì la porta ed entrò nell’angusta stanza, venendo assalito dai languidi lampi di vita delle candele disseminate sopra alcuni mobili infestati da ragni ed altri inquilini dalle molte zampette. Dovunque guardasse c’era gran disordine, ad eccezione di alcuni manoscritti impilati l’uno sull’altro, con buona mano, a formare una sottile colonna. Non ebbe modo di scrutarli da vicino, siccome in quel momento, avendo strizzato gli occhi per abbastanza tempo nelle ombre, riconobbe la sagoma del suo uomo. In mezzo alla stanza, seduto sopra un giaciglio posticcio composito da povere coperte ammassate alla rinfusa, stava immobile il vincitore della lotta, il Campione per il dì ormai tramontato. Benché sommerso dall’ombra, ravvisò che era rimasto con gli stessi laceri indumenti indossati alla sua entrata nell’arena, e dall’odore pungente di sudore non pareva essersi dato una ripulita. Il volto era mantenuto distaccato, distante dalle luci che lo accerchiavano da tergo, come se non si fosse accorto del nuovo arrivato, o non gliene importasse alcunché. L'estraneo chiuse la porta alle sue spalle, senza sollevare troppo chiasso, sbattendo subito i palmi tra loro per levare la polvere dai guanti.

    " Perché sei qui?" domandò l’anfitrione, con voce roca, stropicciata dopo le molte fatiche patite dopo la sua ultima estenuante lotta.

    " Un consiglio." rispose l’altro in tono pacato, compiendo un paio di passi verso l’interno, intrecciando le mani dietro la schiena.

    " Un consiglio, eh?" rumoreggiò il colosso, sinceramente divertito dal suono di quella parola. Io mi accontento di una donna dalle natiche sode. Non so che farmene di buoni consigli.

    Sconforto e alterigia correvano affiancate, ma quale tra le due avrebbe prevalso infine?

    " Considerate le tue condizioni credo potresti accettare una buona parola o due. Sempre che tu non sia lo stupido di cui ho scorto l’ombra."

    Uno stropiccio d’ossa annunciò una risposta vaga, a lungo masticata.

    " Non capisco. Spiegati meglio."

    Un lieve bubbolio emerse dal cappuccio, mentre il capo oscillava prima a destra e poi verso sinistra. Quando il movimento si arrestò, egli esclamò: Certo che non capisci. Tu la testa la usi solo per sbatterla contro oggetti e persone.

    Il grosso pugno sinistro sbatté con forza sul pavimento. Era un consiglio per l’ospite indesiderato, eppure quello non si mosse, né reagì nel modo più consono per un uomo faccia a faccia con una belva feroce. Il lottatore sbirciò allora indietro, vedendo solo una cappa cremisi ad incorniciare una sagoma slanciata, nella quale spiccavano sulla sommità due grandi occhi radiosi. La scoperta di quale fosse l’aspetto dell’intruso instillò in lui un senso di diletto, e poco più che un risolino trattenuto dalle labbra serrate. Con calma si alzò in piedi, stando attento a non dissolvere quello spettro di carne ed ossa con la propria sbadataggine.

    " Mi domando se la tua possa resistere senza sbriciolarsi." mormorò, protendendo il palmo aperto verso quello sguardo vorace che con ostinazione seguiva ogni movenza del proprio arto. Le dita squittirono l’una dopo l’altra finché non si unirono a formare un grosso pugno. Lo porse al mento di fronte, nel rabbioso tentativo di togliersi di dosso l’ultimo fastidio do un’interminabile notte insonne. L’uomo, tuttavia, non si mosse. Non era impressionato e tanto meno inquieto. Sul suo volto non traspariva nulla, se non un lieve ghigno malizioso, appena sbocciato.

    " Perché rivolgi a me il tuo pugno debole?"

    Il lottatore strabuzzò i neri occhi, incredulo della noncuranza scaturita dalle due file di lame argentate.

    " Forse non hai assistito alla lotta, o forse dimentichi come ho percosso quel vecchio caprone." pronunciò, facendo scorrere sangue rovente attraverso il dorso rigonfio.

    " Con la destra." precisò il suo interlocutore, dopo che ebbe indicato l’altra mano, tenuta dietro la schiena. Quella che credo sia la tua mano dominante, la stessa che quasi sei riuscito a spezzare.

    Non ottenne risposta, almeno non a parole. Un mugugno intelligibile gli suggerì di aver trovato finalmente un consenso, o almeno un timido cenno d’assenso. Era poco, ma pur sempre qualcosa.

    L’ospite batté la punta dello stivale al suolo, inclinando di lato il capo, a sinistra.

    " Vista la tua mole ti consiglio di fare uso di gomiti e ginocchia. Con quelle puoi facilmente abbattere un uomo forzuto alle tempie oppure sconquassare gli intestini. Sono buoni strumenti, anche nelle mani di un giovane incosciente."

    " Io non sono un ragazzino." replicò col petto tronfio di collera il lottatore, voltatosi indietro per cogliere dell’acqua con cui detergere la fronte madida di sudore e fuliggine. Visto di spalle l’uomo poté osservarlo meglio, e distinguere tra le molte cicatrici quali fossero i retaggi di un passato lontano e quali i doni del presente. Probabilmente, si disse, era quello il suo travestimento.

    " Forse per aspetto, ma non basta farsi crescere qualche pelo in faccia e ruggire come un porco selvatico per chiamarsi uomo."

    Ancora una volta il rimprovero attecchì la dura scorza e penetrò in profondità. Dai denti digrignati emerse dapprima un groviglio di suoni gutturali, seguiti da uno Stronzo pronunciato a stento, e con ben poca convinzione.

    " Dimmi qualcosa che non conosca già" lo rimbrottò con accesa superbia l’ospite. Da dove provieni?, ad esempio.

    " E perché dovresti saperlo?" lo aggredì l’altro, prima di gettare il panno tra schizzi d’acqua sudicia e saliva.

    " Vorrei che il tuo corpo venisse sepolto con cura, anziché essere gettato in qualche angolo di questo mattatoio per diventare pasto di topi ed altro."

    Il giovane masticò qualche parola insieme ad un boccone di risate, e si mise a sedere.

    " Io non muoio facilmente, credo tu l’abbia visto oggi!" esclamò con un guizzo di boria, battendo il palmo sul petto come fosse un ampio tamburo. L’estraneo annuì col capo, e confidò: E’ vero, quest’oggi la fortuna ti ha soccorso. Domani chissà…

    Il lottatore sorrise, e rispose: Questa è la vita dell’uomo. Meglio che sia così, almeno non rischio di annoiarmi.

    Era pronto a ricevere un qualche rimbrotto per la propria insofferenza, del resto riteneva quasi divertente il suono di quella voce sapiente e voleva udirla ancora un poco prima che l’estraneo venisse cacciato dalla stanza, in piedi, carponi, o persino trascinato supino.

    Meditabondo riguardo a quale forma di addio dovesse profondersi di lì a poco, scrutò meglio l’ospite, non capacitandosi del perché, per la prima volta dall’iniziale lancio di parole, lui si fosse voltato altrove, e per giunta a giocherellare col lume d'una candela morente. Tra piccoli e grossi sospiri la fiamma ondeggiò in ogni dove, dibattendosi come poté per sopravvivere un momento di più.

    " Sentire queste parole da un figlio smarrito offre ben poco conforto." disse quello, spegnendo la minuscola luce con brusco turbinio della mano destra. Il giovane attese il proseguo pazientemente, ma l’altro, accortosi di avere la sua completa attenzione, decise di concedersi una lunga pausa di prolisse congetture, solo per spiegare infine: Un uomo deve spingersi oltre, e non attendere paziente che il destino lo raggiunga.

    " Quello che dici non ha senso." mormorò irretito il suo interlocutore.

    " Non certo nella tua ottusa testa, e neppure in quella dell’uomo che ti ha comprato."

    " Io sono qui perché ho scelto io!" ringhiò feroce il giovane, esibendo gli avambracci ancora non baciati dal ferro arroventato.

    " Non ho alcun marchio sulla mia pelle." ribadì con alterigia, mentre l’uomo rimuoveva i guanti in lana spessa per mostrarne il contenuto.

    Le pupille d’ossidiana corsero lungo i candidi polpastrelli, salendo e discendendo lentamente ciascuna nocca levigata. Quelle erano due mani perfette, estratte dal marmo più pregiato e lavorate da scultori di illustro valore. Non vide alcuno screzio, neppure un graffio a lenire la pelle soda, come se mai adoperate prima in lavori manuali. Indugiò ancora un poco a quella vista magnifica poi, passato lungo i dorsi ed i torrenti vermigli appena accentuati, giunse ai polsi, dove per un attimo credette di vederci male. Sbatté svariate volte le palpebre, irretito come se un pugno di sabbia gli fosse stato lanciato sulla fronte. Non c’era nulla, o meglio, restava ben poco.

    Come spiegarselo?

    Gli parve d’intravedere profonde cicatrici nere lacerare la carne lungo l’intero segmento di avambraccio che la manica rialzata gli permetteva di osservare. Cosa potesse aver provocato simili ferite non aveva neppure modo di immaginarlo, e tantomeno desiderava chiederselo. Deglutì un groppo di saliva e ritrasse lo sguardo, portandolo alla polvere che contaminava il suolo.

    " I miei li porto sempre appresso," enunciò l’ospite, un momento prima di celare nuovamente le mani dietro la propria ombra, a ricordo di cosa attende chi preferisce lasciarsi trascinare dal destino, piuttosto che affrontarlo.

    Il giovane scosse il capo e sospirò, poi, quasi per caso, innalzò gli occhi verso la decorazione ricamata sul petto del suo interlocutore, al pugno sospeso su di un braciere incandescente.

    Dalla memoria apparve un lampo, presto soffocato dalle molteplici sagome deformi che ad ogni notte percepiva inghiottire qualche nuovo frammento della sua mente.

    " Tu un giorno potresti diventare un buon allievo per il Fabbro. Ma chi può dirlo, del resto io non dovrei neppure essere qui."

    L’uomo aprì la porta della cella senza quasi emettere alcun suono.

    " Fermati!" disse invano la voce.

    Così come era apparso, egli scomparve, come uno spettro della mente.

    II

    Le fauci spalancate ammisero l’ingresso di altro nutrimento, e la grossa mano le accontentò, poggiandovi all’interno alcuni ceppi di legna secca, affinché il fuoco divenisse grande e forte per ciò che quella testa composita di ingranaggi aveva deciso, dopo lunghe ed estenuanti riflessioni.

    " Mangia piccolina." borbottò il Fabbro, dopo che una lingua di fuoco per poco non gli lambì la mano destra, ritratta con non molta fretta.

    " Oggi c’è molto da fare."

    Concesso un ultimo sorrisetto, o ghigno che fosse, al piccolo costrutto in mattoni rossi, egli scostò lo sguardo altrove, su un’ombra che avrebbe sperato fosse solo un’allucinazione partorita dalla danza di luci che divampavano all’interno della sua fucina. Non si era ancora mosso, e non l’avrebbe fatto fintanto che non si fosse raggiunto un accordo grato ad entrambe le parti.

    " Io sono molto impegnato." ammise Gerone, mentre con un panno ripuliva i polpastrelli dalla fuliggine.

    " Non lo saresti se avessi ancora braccia forzute di scorta." ribadì in tono ordinato il suo interlocutore, muovendo solo gli occhi e null’altro, come sempre faceva nei suoi confronti quando impartiva concetti di logica, consigli assennati e rimproveri, rimescolandoli minuziosamente prima di porgerli sul piatto.

    " E’ così che li chiami?, giovani impazienti, pettegoli, proni all’ozio. Di tali braccia posso farci ben poco io."

    E mentre il Fabbro si lagnava, le sue mani gettarono lontano il panno inzuppato del proprio sudore.

    " Un uomo deve sapere cosa tenere e cosa disfarsi." sentenziò, un momento prima di prendere il proprio posto allo sgabello di fronte a quello del suo scomodo ospite.

    " E chi accettare senza pregiudizio alcuno." proseguì l’altro, iniziando a tamburellare il polpastrelli su di un elmo a becco di passero colto dal tavolo accanto. La bocca di Gerone rumoreggiò senza aprire le imposte, e lo fece per un lungo momento durante cui il suo sguardo vitreo rimase a fissare il riflesso dipinto sulla lucida calotta metallica.

    " Mi conosci da tanto." rifletté a voce alta.

    " Abbastanza."

    " E sai bene quanto sia sospettoso." asserì, affilando la tonalità dell’ultima parola.

    " Nonché benigno, e ragionevole quando decidi di aprire le orecchie." replicò lesto l’ospite, il quale non avrebbe concesso tempo all’amico per rifiatare, e disporre con calma ciascuna risposta nella propria faretra prima di incoccarla.

    Abbastanza accorto dal riconoscere quando parlare e quando tacere, Gerone colse un lembo di tessuto composto da molti, e piccoli, anelli d’acciaio, tanto per rilassare la mente e piegarla verso questioni a lui discordi.

    " Tu chiedi molti favori, troppi, ed offri ricompense esigue." redarguì, rabbuiandosi in fronte.

    " Ciò di cui non abbiamo bisogno." proseguì cauto, è peso superfluo e bocche da sfamare. L’inverno è arrivato, e per un po’ saremo costretti a mangiare minestra, prima di dare la caccia ai ratti che infestano la casa del nostro Signore.

    " Un vero guaio quello."

    " Sì, eccome!" inveì turbolento il Fabbro, stritolando il panno di metallo tra le unghie sbeccate. Quelle piccole creature…

    " Quei ratti riescono ad infilarsi ovunque, che sia una porta in legno spessa mezzo braccio, o di ferro. Tra un poco potrebbero oltrepassare i mattoni, e poi la pietra".

    " Ti occorre un gatto." rispose l’altro, venendo immediatamente controbattuto da borbottio astioso che suggerì invece: Da buttare in pentola.

    " Abbiamo abbastanza cose pelose che scorrazzano in questi edifici, e dal pessimo carattere." spiegò Gerone, gettando, contro il muro, il costrutto in anelli d’acciaio e, verso l’ospite, un avviso: Una l’hai di fronte.

    Terminato di effondere parole insieme a fiato rancido egli scelse di tacere. Trascorse dunque un lungo silenzio, spezzato unicamente dal tamburellio incessante delle unghie affilate sull’elmo, e dal mormorio della bocca chiusa accanto.

    " Ebbene…" esordì Gerone, che di pazienza non aveva certo la dispensa piena. Cosa proponi di fare?.

    " Fare un passeggiata."

    " Certo certo… nulla di più semplice."

    " Conversare con chi ti sta accanto."

    " Già lo faccio!"

    " Temo non sia sufficiente." ribatté contrariato l’ospite. Devi ricordare quello che sei, non per te stesso, ma per i molti che rammentano il tuo nome. Mostrati a loro.

    Per un poco tra i due corsero solo i sospiri delle fornaci, ed il crepitio delle fiamme straripanti.

    " Ebbene?" domandò spazientito l’ospite, conscio del rischio di scottarsi quando si apre lo sportello con eccessiva foga.

    Gerone però non reagì come previsto. Restò calmo, o si sforzò tanto per sembrarlo.

    " Va bene," bofonchiò, ma non ti garantisco nulla che io possa fare alcun bene.

    Avvertita tale risposta sincera, l’altro scoppiò a ridere, sbigottito nell’aver intravisto un nostalgico spiraglio d’umiltà sbocciare tra le marcate rughe. La sua risata riecheggiò con vigore sulle pareti, contagiando pure i molti strumenti di ferro ed acciaio disseminati per tutta la stanza, e non si spense finché un pugno non sbatté forte sul tavolaccio.

    " Perdonami." si scusò l’ospite.

    " Troppo tardi," rispose Gerone, ma d’altra parte non credo di avere scelta, giusto? E suppongo tu lo sapessi sin dall’inizio. Magari hai pure interpellato l’altro, prima di venire qui?

    Ora spettava a lui ridacchiare, pago almeno di avere riconosciuto il tranello nel quale era inciampato. L’ospite sorrise in un semplice gesto di assenso, lasciando sfuggire un lungo sospiro, come se fosse rimasto a trattenere il fiato dagli albori della loro trattazione.

    " Lo sai bene cosa accadrebbe se…" provò a pronunciare, senza averne modo poiché interrotto da un grosso palmo aperto passatogli a meno d’una spanna dal naso con l’intenzione, iniziale, di dargli un ceffone. Tra i due scese il silenzio, e persino il trotto di dita cessò di esistere. Restarono solo lunghi respiri e pensieri slabbrati, almeno finché Gerone, balzato in piedi con uno scatto repentino, annunciò: Lo sai bene cosa farò allora.

    Chi è quell’uomo?

    Nessuno, solo uno dei tanti figli dispersi, uno dei tanti che lui abbandonò sulla terra mortale.

    Aver donato loro la vita era sufficiente.

    Che pensassero con la loro testa su come utilizzarla. Egli aveva altro a cui badare, e troppo poco tempo immortale per dedicarsi alla sua progenie, specialmente per uno dei suoi prodotti meno pregiati.

    Fosse dipeso da un capriccio lo avrebbe abbandonato in quel buco per molto tempo, e laggiù si sarebbe consumato, senza alcuno a ricordarne il suo nome.

    Così aveva creduto anche il figlio.

    Era quello il destino scelto per lui: obbedienza, rispetto della volontà altrui, muta approvazione di ogni parola calata dall’alto…

    " Fanculo!" ruggì infervorato, dopo che uno starnuto improvviso quasi compromise il precario equilibrio dei calzari sul manto cosparso di brina. L’asta di legno si conficcò nella fanghiglia, concedendogli una migliore presa sul terreno, e qualche istante per rifiatare.

    Un’altra alba stava facendo il suo corso, lentamente, come se faticosamente spinta oltre i neri flutti della lunga notte. La stagione delle nevi era giunta e con essa un dispettoso vento pungente capace di infilarsi in ogni anfratto di legno o pietra: un fastidio per qualunque uomo, donna o bambino, ed un piccolo dono per lui.

    Asserragliato nella pesante armatura sentiva il corpo gemere come se abbandonato troppo a lungo su un letto di braci guizzanti.

    E come rimproverare il suo disappunto?

    Quella testa ottusa era poco amica del dolce ozio, preferendo fatiche senza fine, come del resto gli era stato insegnato tempo addietro.

    Era un’idiota, pertanto doveva comportarsi come tale.

    Vi era forse qualcuno su quell’isolotto che avrebbe contestato una sua scelta?

    No!, poiché il solo spettatore era un corvo di merda intento ad imprecare perché ogni sua piccola preda se ne stava nascosta a causa dell’interminabile starnazzare di quell’uomo, lui, che ogni volta veniva ad arrecare disturbo, picchiando ieri il tronco sulla destra ed oggi quello sulla sinistra. A nulla servirono i suoi rimproveri acuti. Quello non ascoltava alcuna parola, che fosse in verso di bestia o lingua corrente, eppure ne ripeteva poche con ostinazione.

    " Fendente lacerante".

    Il bastone rintoccò violento contro l’albero, mandando un fremito alle fronde ed al nido dove stava riposando il volatile.

    " Stoccata!"

    " Mezzano!"

    " Trazione strappante!"

    Quella voce ingrata ricominciò col suo canto sprezzante, e con essa i legni tornarono a cozzare come zoccoli di un destriero da guerra lanciato alla carica sulla fanteria in rotta. Oltre a ciò, i continui e repentini movimenti dell’energumeno producevano un sferragliare stonato, come se l’armatura non riuscisse a contenere le molte risa causate dall’integerrima dedizione del suo stupido padrone. Resistito quanto poté, il corvo scelse dunque di spiccare il volo e fare ritorno non prima del tramonto, nella speranza che per allora dell’umano fossero rimaste solo le impronte nel fango. Due battiti d’ala e superò le fronde in tumulto, tanto da trovarsi in pochi attimi ad un’altezza sufficiente per far sembrare quel cumulo di ferro ed acciaio grande quanto una piccola formica. Riservatogli un ultimo colpo d’occhio virò a destra, verso la possente struttura rossa dove spesso riusciva a racimolare qualche briciola di pane. Laggiù, forse, avrebbe quantomeno riempito la pancia, che in quei giorni brontolava di continuo. Con agilità volò dall’altra parte dell’isolotto, laddove un ponte era stato edificato come congiunzione per consentire a quei bastardi di raggiungere la sua dimora. In quel momento, seppure fosse difficile anche per la sua vista acuta, notò una macchia rossa farsi strada sul costrutto in solido castagno. Era un altro intruso, di costituzione simile ad un grosso scoiattolo, uno di quei cosiddetti bambini. Forse era amico del primo estraneo, oppure un suo nemico. Se fosse nata una lotta tra i due, al ritorno avrebbe avuto di che festeggiare per la cena. Emise una risata, mentre la sua ombra si tuffava nelle acque del lago, e la sua sagoma scompariva all’orizzonte.

    " Un altro!" inveì l’Orco, ormai ansimante e senza più forze residue. Un altro ancora.

    L’asta balzò nuovamente in aria, inerpicandosi oltre il becco di passero, pronta a calare in un ultimo fendente risolutivo, il solo movimento che ancora riteneva possibile eseguire senza finire bocconi a terra. La corteccia increspata stava dove stava, a quasi una pertica dal suo piede più avanzato. Due passi, rifletté, e avrebbe calato l’arma per l’ultima volta, come farfugliato molte altre ultime volte prima.

    Il roncone vacillò per qualche lungo istante sopra il suo capo, poi ricadde sul legno, in una picchiata imprecisa che finì solo per sfiorare il bersaglio, e trascinare nella rovinosa caduta l’artefice di quell’insensato piano. La testa dai molti volti non trovò una solida presa sul terreno smunto e ciò costrinse l’Orco a protendersi in avanti, andando lui ad impattare addosso il solido tronco, con la spalla destra.

    Il dolore acuto venne in parte assorbito dall’imbottitura della maglia imbottita di lana, in parte dalla molta stanchezza accumulata. Impiegò alcuni istanti a comprendere l’errore commesso, e, sbattute le palpebre, comprese di poter fare poco altro per trovare un rimedio. Restò dunque avvinghiato al proprio avversario, servendosene per mantenere un equilibrio ormai perduto. Brutto idiota, ammise a sé stesso, conscio di quanto la sua mente ostinata spesso sovrastimasse la prestanza del suo corpo possente. Si era spinto oltre ogni limite, come fatto ieri, l’altro ieri, ed ogni giorno passato. Ora spettava il riposo, e poi…

    Qualcosa lo distrasse.

    Non era il canto d'un uccello, e tanto meno lo sciabordio dell’acqua increspatasi per lo scatto di un grosso pesce emerso all’aria fresca. Dal vento dispettoso giungeva infatti un aroma delicato, ben distinto. Gli sarebbe venuto incontro, magari anche compiendo qualche balzo felino, tuttavia era appesantito da un’armatura di cui solo ora riconosceva l’ingombro non indifferente. Le braccia erano lasciate a penzolare lungo i fianchi e persino le gambe si erano spente. Poté al più ruotare il capo verso sinistra e scorgere la sagoma sottile approssimarsi a passo leggero, e cauto, considerato il pantano in cui era ridotto il bel prato verde, reso irriconoscibile dopo che una moltitudine di calzari pesanti lo aveva percosso per giorni e giorni nella recente memoria.

    Il nome di quella ragazza gli restò incastrato all’interno della visiera, impastato insieme a molta bava. Ponderando quanto fosse spossato, ritenne opportuno schiarire la voce ed inghiottire tutto il

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