Santo Marchese Cantamessa
Di Nando Bocca
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Anteprima del libro
Santo Marchese Cantamessa - Nando Bocca
Parte prima
1926-1937
1) Nomen Omen
Santo Cantamessa aveva dedicato l’intera esistenza per fare dell’usura un’arte. Era un talento naturale, così portato che, nel volgere di qualche decennio, aveva saputo trasformare le sofferenze dei suoi affezionati clienti in una meravigliosa cascina: la Giunona. Un feudo con più di duecento giornate di terra, vigneti, vacche e mezzadri a perdita d’occhio. Era un uomo parco, avido e cattivo, era orgoglioso del suo lavoro e pensava che quella del prestasoldi fosse una professione nobile almeno quanto il medico o il notaio. Sulla porta di casa avrebbe volentieri affisso una targa in ottone con scritto Santo Cantamessa, strozzino dal 1889
, ma con suo sommo rammarico, la morale comune non gli riconobbe mai il giusto merito. Ormai anziano guardava alla sua vita con soddisfazione, un crescendo di successi con un solo grande cruccio: la raggelante sensazione di idiozia che leggeva nello sguardo bovino dell’unico figlio: Benedetto. Colpito da infarto, sul letto di morte, le sue ultime ispirate parole furono per l’erede, estremo tentativo di inculcargli una sana regola di vita: «Ricorda: prestagli un soldo e prendigli tutto... Tutto».
Il figlio - Benedetto Cantamessa - da sempre imprigionato in un quotidiano senza emozioni da un genitore avaro anche di sentimenti, poté a quel punto disporre della propria esistenza. Si persuase fin da subito di volersi affrancare dal ruolo di piccolo strozzino di campagna, per il quale non si sentiva affatto tagliato, e cominciò a sognare di entrare nei salotti cittadini dell’alta società. Avendo ormai da tempo passato i quaranta, pensò fosse opportuno dotarsi di una famiglia e viste le sue floride disponibilità economiche, non gli fu poi troppo difficile trovar moglie. Sposò una contadinotta di bell’aspetto, tale Italia Pesce, ragazza che gli parve ben formata e amabilmente condiscendente.
Quando seppe di aspettare un erede - a suo modo di vedere non poteva che essere un maschio - il suo più grande tormento divenne quello di trovare un nome adeguato al nascituro. Da sempre i Cantamessa erano stati paladini dei più nobili ideali religiosi - nonno era Pio, papà era Santo, lui Benedetto - ora però serviva un cambiamento, serviva un nome importante, altisonante, capace di introdurre il figlio con autorevolezza in quel mondo della borghesia cittadina, presso il quale lui stesso stava faticosamente cercando di accreditarsi. Cercò quindi tra nomi di condottieri, di re, di scrittori famosi; pensò a Benito, ma gli sembrò troppo comune in quei tempi. Lesse cento volte il calendario dei santi, da gennaio a dicembre e viceversa. Chiese perfino consiglio al giovane parroco del paese, Don Donato, che non afferrando a pieno la gravità del problema, lo turlupinò con una fitta coltre di citazioni latine, perlopiù errate, certo che il suo interlocutore nulla avrebbe capito. Gli tradusse giusto nomen omen
- un nome un destino - per non urtarlo al punto da perdere la misera donazione che ogni anno, in occasione della festa patronale di San Bellino, i devoti Cantamessa erano soliti elargire a beneficio dei poveri della comunità. Persone che peraltro ben conoscevano in quanto tutti loro clienti.
Finalmente un mattino, battendo una feroce testata contro l’anta di una credenza, che suo padre aveva preso in pegno da un nobile squattrinato, ebbe la soluzione al suo rovello.
«Lo chiameremo Marchese!», comunicò a Italia e spiegò «Quando la domenica lo incontreranno in piazza, diranno: buongiorno signor Marchese. E nei circoli in città si domanderanno: di chi è quella magnifica automobile? Ma è quella del signor Marchese Cantamessa, naturalmente!»
Lei tacque. Nei pochi mesi di fidanzamento la giovane donna, una forestiera arrivata in paese per la campagna del grano, aveva mantenuto un atteggiamento remissivo e mansueto, ma dopo il matrimonio il suo carattere era andato gradualmente cambiando, facendosi di giorno in giorno più fermo e risoluto. Lo guardò con compatimento e nel profondo si compiacque del fatto che fosse così smisuratamente ricco.
Il giorno fatidico, divenuto padre, andò egli stesso all’anagrafe a registrare la nascita del primogenito: un maschio, proprio come da lui previsto. In quel torrido pomeriggio di un’estate senza vento, così caldo da piegare la volontà e uccidere le idee, un gatto nero attraversò stancamente la strada deserta. Benedetto prestò la massima attenzione a non incrociarne il cammino, muovendosi in parallelo come un pantografo. Ballarono alcuni istanti la coreografia di un tango figurato e finirono con l’entrare all’unisono in municipio. L’uno si accomodò nel cortile sui freschi marmi baciati dall’ombra, l’altro di fronte all’altrettanto gelida espressione di Severo Lamorte, impiegato dell’ufficio anagrafe. Severo, orfano di entrambi i genitori, era stato cresciuto dalla zia Addolorata nell’osservanza del più totale rigore oscurantista: nessuno l’aveva mai visto accennare un sorriso.
«Come volete chiamare il bambino?» chiese Severo Lamorte senza distogliere lo sguardo dagli incartamenti, con un tono monocorde, totalmente privo di qualsiasi empatia.
«Marchese» rispose Benedetto con l’enfasi di chi si aspetta un moto di ammirazione incondizionata per l’evidente genialità del concetto espresso.
«Marchese? Ma… Ma quando qualcuno lo incontrerà per strada, cosa dirà? Buongiorno signor Marchese?» chiese stupito l’impiegato, alzando la testa e pulendosi gli occhiali.
Benedetto sorrise gratificato. Severo Lamorte, trovando la cosa meravigliosamente stupida, scoppiò in una risata sguaiata e irriverente. Fu allora che, come se avesse scoperto l’umorismo all’improvviso, si sentì pervaso da una sensazione esaltante a lui del tutto sconosciuta. Più rideva e più ne godeva e più ne godeva e meno riusciva a trattenersi. Benedetto rimase incredulo a fissarlo per qualche istante e poi si adirò cominciando a battere i pugni sul bancone, paonazzo. Urlava, sbraitava, voleva parlare col direttore, col podestà, col vescovo in persona.
Lamorte si ricompose a fatica, cercò di scusarsi, ma le sue scuse non vennero accettate. Così, forte di uno spirito tenace, forgiato nelle trincee del Carso, certo dell’idiozia della richiesta che gli era stata fatta, galvanizzato dall’incredibile scoperta dell’umorismo, passò al contrattacco e iniziò a citare e a inventare codici e codicilli che dimostravano in modo incontrovertibile come non fosse possibile usare un titolo nobiliare come nome di battesimo.
All’altro angolo, fiaccato dal caldo afoso, trafitto dall’offesa insanabile, ma soprattutto appesantito da uno stile di vita troppo sedentario e da una dieta ricca di grassi saturi, attizzato da quell’idiota di uno scribacchino che si ostinava a sputargli addosso numeri di leggi misti a saliva, il Cantamessa fu colto da un attacco di cuore e si accasciò. Non perse conoscenza, divenne bianco e muto. Il dolore lancinante gli tolse ogni velleità di argomentare oltre.
Venne chiamato immediatamente il medico del paese e nell’attesa del suo arrivo, Severo Lamorte fece qualcosa che mai aveva fatto prima.
«La legge non lo consentirebbe, ma vista la situazione vi concedo di chiamarlo Marchese. Però solo come secondo nome. Se non vi va bene, lo chiameremo... Benito. Noi, d’ufficio».
Benedetto, sofferente, annuì con un cenno del capo e biascicò «Benito no… Santo... Come il babbo buonanima: un infarto, anche lui… Come me».
«Va bene, lo registreremo col nome di Santo Marchese. Ora però calmatevi».
Benedetto Cantamessa sopravvisse all’agguato dell’anagrafe - come era solito chiamarlo - ma il suo cuore ne uscì irrimediabilmente compromesso. Pochi anni dopo, il primo luglio del 1931, leggendo sul giornale che il Codice Rocco reintroduceva il reato di usura, per punire chi, come i Cantamessa, si era sempre prodigato per aiutare indigenti e bisognosi, venne colto da un secondo infarto e morì.
Severo Lamorte, scosso nel profondo dall’accaduto, abbandonò il lavoro di impiegato comunale, lasciò zia Addolorata e cambiò vita. Si unì a una compagnia di rivista itinerante e in pochi anni divenne capocomico, ottenendo brillanti successi nei più importanti teatri italiani. Con il nome d’arte di Gegè Sganascia fu ricordato a lungo per la sua irresistibile e contagiosa risata.
Santo Marchese Cantamessa nacque il 23 agosto 1926, in una cascina nei pressi di un piccolo paese del Piemonte chiamato Roccavilla, un giorno caldo come pochi, senza una nuvola in cielo.
2) Senza quartiere
Santo Marchese era un bambino bellissimo, quando sua madre lo vestiva per la festa sembrava una bambola di pannolenci. La domenica, prima della messa, non c’era persona che non si fermasse a guardarlo e a complimentarsi. Italia era orgogliosa di mostrarlo al mondo: era il suo vanto. Ma, proprio come una bambola di pezza, aveva uno sguardo privo di personalità, non era curioso e vispo come tutti i bambini di quell’età, cresceva timoroso e introverso.
Italia rimase alla Giunona per alcuni anni. Scoprì di avere un talento innato per comandare e seppe gestire la cascina meglio di quanto avrebbe potuto fare il marito. Quando il figlio iniziò la scuola, cominciò a valutare l’ipotesi di trasferirsi a Roccavilla. Nell’estate del 1934 ruppe gli indugi e con la scusa di evitare al bambino il disagio dei sei chilometri di tragitto quotidiano, fuggì da quella prigione bucolica fatta di vacche, vigneti e mezzadri. Le serviva una nuova vita che la traghettasse oltre la vedovanza.
Affidò la gestione della cascina ad un fattore di provata esperienza, un certo Rocco Castagna, e acquistò Villa Rana: una bella casa su due piani con un giardino interno che stava giusto al confine tra le due contrade in cui era diviso Roccavilla. Nel fondovalle, vicino al fiume, c’era un gruppo di case malmesse che era chiamato Cantone del Basso. Il Cantone del Basso aveva il pregio di essere ben esposto e in inverno godeva del tepore di ogni singolo raggio di sole, ma d’estate era flagellato da nugoli di fastidiosissime zanzare. Dal Cantone del Basso partiva una strada che si inerpicava per la collina e dopo una decina di minuti di faticosa salita, arrivava al Cantone del Poggio. Il Cantone del Poggio, detto anche Poggio di Roccavilla, godeva di una posizione panoramica, con una vista meravigliosa, soprattutto dalla piazza antistante al duomo che si affacciava sulla pianura. D’altro canto però, il clima era molto più rigido del fondovalle: in inverno il sole si vedeva assai di rado e il ghiaccio rendeva insidiosi i vicoli in pendenza.
Villa Rana, che stava giusto a metà della salita, era nella posizione ideale per godere del giusto clima in ogni periodo dell’anno. Questo Italia aveva valutato quando l’aveva acquistata, ma una posizione così felice lasciava irrisolta una apparentemente piccola e insignificante domanda: Villa Rana era parte del Cantone del Basso oppure del Poggio? E di rimando: Santo Marchese, abitando lì, era da considerarsi un ragazzino del Basso o uno del Poggio? Perché se è vero che non poteva essere ritenuto del Poggio, visto che viveva appena oltre la curva che ne marcava il confine, non poteva neppure essere del Basso, in quanto la sua casa era, senza ombra di dubbio, troppo in alto.
Tra gli abitanti delle due contrade non correva buon sangue e men che meno tra i più giovani, divisi in due fazioni perennemente in guerra tra loro. Guai a farsi trovare in territorio nemico: quando i ragazzini del Poggio sconfinavano, venivano puntualmente affrontati da quelli del Basso e allo stesso modo se uno del Basso si faceva trovare da solo per le vie del Poggio, finiva per passare un brutto quarto d’ora. Santo Marchese era sempre e comunque fuori posto. Sia che scendesse al Basso, sia che salisse al Poggio, immancabilmente si trovava davanti qualche piccolo teppista pronto a farlo scappare a gambe levate.
Italia decise di intervenire.