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Trabastia: Cent'anni di gente comune
Trabastia: Cent'anni di gente comune
Trabastia: Cent'anni di gente comune
E-book214 pagine3 ore

Trabastia: Cent'anni di gente comune

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Info su questo ebook

Vorrei riuscire a ricordare per lei tutte le cose che ho ascoltato, quelle che mi hanno raccontato, quelle che ho vissuto, e le voci, le vite fermate nelle lettere, nei diari, nei fogli che ho trovato sul fondo dei cassetti.

Vorrei che sapesse le strade che abbiamo percorso per arrivare fino a lei. 






Attraverso cent’anni di vita vissuta Mecconi evidenzia con pennellate di parole, come fossero dipinti, storie e personaggi che di volta in volta prendono forma e luci e ombre e si personificano davanti ai nostri occhi.

È importante, nella vita che stiamo vivendo, recuperare momenti così. L’anima ringrazia.



Mariangela Guandalini
LinguaItaliano
Data di uscita8 mar 2017
ISBN9788899415273
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    Anteprima del libro

    Trabastia - Beppe Mecconi

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2017 Oltre edizioni

    www.oltre.it – www.gammaro.eu

    ISBN 9788899415273

    Titolo originale dell’opera:

    Trabastia

    Cent’anni di gente comune

    di

    Beppe Mecconi

    Marchio editoriale GammaRò edizioni

    diretto da

    Vincenzo Gueglio

    Collana Le opere e i giorni / Letteratura e Storia

    Prima edizione febbraio 2017

    INDICE

    23 dicembre 2000

    1901/1921

    1922/1946

    1947/1961

    1962/1981

    1982/2000

    25 dicembre 2000

    Genealogia dei personaggi

    Ringraziamenti e Note

    mi sono finalmente reso conto che il costo della vita sono i ricordi;

    che ogni legame con la mia giovinezza è ormai affidato solo alla memoria,

    mostro implacabile e impossibile da zittire;

    che esistono cose e persone e avvenimenti e amori e dolori e felicità laceranti

    che non riuscirò mai più a dimenticare

    Edoardo Nesi

    Quando si ama la vita si ama il passato,

    perché esso è il presente sopravissuto nella memoria umana.

    Marguerite Yourcenar

    La memoria è come un cane, si adagia dove vuole.

    Cees Nooteboom

    La vita non è quella che si è vissuta,

    ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.

    Gabriel Garcia Marquez

    A mia madre

    23 DICEMBRE 2000

    Da molti anni non sento più dall’orecchia sinistra e a quella destra porto l’apparecchio che cerco di nascondere con i capelli quasi del tutto bianchi.

    Ho settantatré anni e mezzo e ho fatto soltanto la terza elementare, sono ancora in forze, indipendente, e per un breve periodo della mia vita ho conosciuto la felicità, quella vera, forte, assoluta.

    Per il resto, forse per farmi ripagare quegli anni belli, la sfortuna è stata per me una nemica crudele, e adesso non ce la faccio più, non ho più voglia di faticare, di penare in questa in vita.

    Questa mattina abbiamo accompagnato al cimitero la moglie del mio adorato Polifemo, una ragazza meravigliosa e brava che amavo con tutto il cuore, e lei mi voleva bene come che se fosse stata figlia mia.

    Ho pianto tanto. Chissà da dove escono tutte queste lacrime? Come fanno a non finire mai?

    Proprio come il dolore.

    Troppi morti nella mia vita, forse troppi nelle vite di tutti, ma io conosco soltanto la mia storia, le storie delle mie famiglie.

    Più della seconda che di quella nella quale venni al mondo.

    Ho vissuto tre volte di più qui a Trabastìa che con mio padre, mia madre e le mie sorelle.

    Morti… lutti…

    Mia nipote ha solo sette anni e ha già perso la mamma.

    Piccolina, aveva tutte le amichette intorno, non so se ha davvero capito quello che è successo.

    E tra due giorni è Natale.

    Vorrei essere capace di scrivere per lei, per lasciarle un ricordo di me, e della gente della sua famiglia.

    Vorrei potesse conoscere la sua storia prima che vada dimenticata, come tutto quanto.

    Vorrei riuscire a ricordare per lei tutte le cose che ho ascoltato, quelle che mi hanno raccontato, quelle che ho vissuto, e le voci, le vite fermate nelle lettere, nei diari, nei fogli che ho trovato sul fondo dei cassetti.

    Vorrei che sapesse le strade che abbiamo percorso per arrivare fino a lei.

    1901/1921

    Il nuovo secolo era iniziato da due mesi e sei giorni quando Amerigo Dimare, di anni ventuno, giunse a Trabastìa.

    Le onde quasi sfioravano la chiesa e le case erano attaccate tutte l’una all’altra. Lo trovò un poco più grande di come l’aveva immaginato: un paesino di costa ligure costruito chissà quando da pescatori-contadini a dieci chilometri da Spezia che si poteva però raggiungere solo col vaporetto perché una vera strada carrozzabile ancora non c’era. "Chissà?", si disse scendendo dal pontiletto traballante nella minuscola marina a metà pomeriggio di una giornata pulita: "Forse sarà una di quelle cose che ci faranno fare."

    Quella mattina, dopo avere abbracciato mamma, Vasco e la piccola Licia – che poi baciò e ribaciò ancora dicendole piano all’orecchio di comportarsi bene ed essere ubbidiente che altrimenti sarebbe tornato e l’avrebbe sistemata lui –, insomma, dopo gli addii dinanzi all’uscio perché non gli andava proprio, non aveva cuore, di salutarli alla stazione, Amerigo andò a piedi fino a Porta Nuova dove aspettò quasi mezz’ora. Ne approfittò per mangiare un pezzo dell’ottima scarpaccia salata che sua madre aveva provato a mettergli di nascosto nella sacca, poi prese il vecchio trenino – la caffettiera la chiamavano – e dopo cinque fermate, con le porte sprangate per non fare entrare la puzza e il fumo nero, arrivò a Viareggio. Poco meno di un’ora dopo arrivò l’altro treno, molto migliore di quello della linea di Camaiore; due ore più tardi sbarcava a Spezia.

    La città era tutta un cantiere. Il treno, pieno di ragazzi ma anche di gente meno giovane venuta lì da tutta Italia in cerca di lavoro, si svuotò. Si fece indicare la via, ma non era difficile, tutti andavano al porto.

    Dopo una decina di minuti a piedi di buon passo, scendendo dalla stazione verso il mare e oltrepassando un imponente portale piantonato da militari armati, raggiunse un enorme piazzale. Qui lo fecero entrare in uno stanzone, una specie di corridoio con un’entrata, un’uscita dal lato opposto e quattro scrivanie, due a destra e due a sinistra, e altrettanti addetti in divisa; dopo una lunga coda che gli sembrò stranamente composta e silenziosa fu ascoltato da un sergente toscano, di Livorno, che lo prese in simpatia perché, dopo l’interrogatorio che gli fece scoprì che, come lui, praticava la ginnastica sportiva.

    Amerigo gli fece vedere le referenze scritte dal signor Rizieri, il capomastro che gli aveva insegnato il mestiere. Non erano in tanti ad averne tra quelli che si presentavano alla foresteria, così il sottufficiale chiamò un marinaio e gli disse di portarlo a parlare con un capocantiere.

    Dopo almeno dieci minuti e non senza difficoltà lo trovarono, perché gli spazi all’interno dell’arsenale erano smisurati e ovunque stavano lavorando.

    Il capocantiere era piemontese, di Cuneo, si chiamava Dalmasso, alto, magro, un grosso naso, mani enormi e una testa fitta di capelli neri, bastava uno sguardo per capire che sapeva fare bene il suo lavoro.

    Non fece nemmeno caso alle referenze ma gli chiese cosa sapesse fare: Amerigo rispose che aveva esperienza nel costruire case e muri a secco e a calce, fare impasti e far di conto, realizzare finestre e archi e tenere puliti e in ordine gli attrezzi. Dalmasso lo soppesò con gli occhi, poi, siccome non erano pochi quelli che gli raccontavano storie, lo mise alla prova. Amerigo impastò il cemento e spaccò pietre a misura, poi le murò in un moletto che stavano costruendo dove cominciavano a realizzare un nuovo bacino di carenaggio. Fece presto e bene. Dalmasso sorrise: si fece dire il nome e gli disse di tornare il lunedì puntuale alle 7 del mattino, poi lo rispedì dal sergente che gli prese i dati per il libretto di lavoro come operaio della Marina mercantile. È andata bene mamma, pensò, e la soddisfazione gli dipingeva la faccia: "Di meglio non potevo sperare. Tra pochi giorni comincio e c’è davvero un mondo da costruire."

    Agli inizi dell’800 la prima intuizione che quel golfo fosse perfetto per una grande base navale, quando Spezia faceva parte del suo Impero, era venuta a Napoleone; ma era stato il Conte di Cavour, Presidente del Consiglio del Regno d’Italia e Ministro della Marina, a dare il via al progetto nel 1857 e ancora c’era tanto da fare.

    Anche solo da quel poco che aveva visto, Amerigo lo trovò immenso, più grande di Camaiore tutta. Il marinaio che lo accompagnava gli disse che anche il porto mercantile era bell’iniziato ma c’era moltissimo da ultimare e poi aggiunse con orgoglio, come se parte del merito fosse suo, che in cinquant’anni anni Spezia era passata da seimila a settantatremila abitanti e che c’era gente da tutta Italia che continuava ad arrivare lì per lavorare. "E questa gente, rifletté Amerigo ha bisogno di case e appartamenti, e quindi il lavoro per un bravo muratore come me non mancherà di sicuro. Ho fatto bene a venire mamma, mi spiace di non vedervi, voi, Vasco e la Licia, ma se voglio costruirmi una casa e una famiglia proprio qui dovevo venire."

    Fatte le pratiche col sergente livornese si informò su come arrivare a Trabastìa dove l’aspettava l’amico di suo padre. Lo indirizzarono all’imbarcadero, fece il biglietto e prese il piroscafo Sollievo Operaio.

    Trovò il golfo magnifico, il mare era calmo, il sole non scaldava ma faceva piacere stare allo scoperto e guardare tutto quel blu pieno di vele variopinte perché, gli spiegò un viaggiatore, ogni borgata della costa aveva i suoi colori.

    Davanti a un paese proteso come una freccia verso il mare c’erano due isole, una più grande e una più piccina, si fece dire il nome ma li scordò quasi subito preso com’era dal godersi quella bellezza e le emozioni di quel giorno.

    Il viaggio non durò a lungo ma fece in tempo a finire la scarpaccia, e meno male che l’aveva perché non aveva fatto in tempo a comprare nulla da mangiare e la fame iniziava a farsi sentire.

    Sapeva di casa, aveva gli odori della cucina dove sua madre impastava. Masticava adagio, gustandosi ogni sapore, chissà quando, e se, l’avrebbe riassaggiata. Distingueva il gusto della cipolla bianca, l’origano, la farina di ceci, l’olio di frantoio, il basilico, il pecorino, il pepe. E anche quello delle zucchine e dei loro fiori che sua madre era riuscita ad avere in anticipo grazie alla minuscola serra che Vasco le aveva costruito. Si accorse di avere chiuso gli occhi.

    Arrivato a Trabastìa chiese del signor Giacomo Rossi a dei pescatori che stavano sistemando una barca lì sul molo battibeccando tra loro un po’ per scherzo e un po’ sul serio.

    Parlavano un dialetto singolare, non aveva quasi più nulla del genovese ma non era ancora toscano. Una parlata di confine pensò.

    Rossi lo trovò poco distante, nella piazzetta sotto a un piccolo castello che chiudeva il paesino verso ponente, stava cucendo delle reti vicino alla sua barca. Fu molto cordiale, lo abbracciò forte con affetto e Amerigo ebbe l’impressione che si sforzasse di trattenere le lacrime. Era esattamente come lo descriveva suo padre, senza capelli con gli occhi piccoli, scuri e sorridenti e un bel paio di baffoni bianchi. Gli fece ancora le condoglianze e gli disse di farle anche a sua mamma la prima volta che le avesse scritto.

    Poi lo presentò ad alcuni amici spiegando che quel ragazzo era figlio del suo più caro compagno di bordo; infine lo accompagnò in una stradina stretta stretta chiamata Vicolo d’Oriente dove c’era il piccolo scantinato che lo avrebbe ospitato fino a quando non avesse potuto permettersi di meglio. Si scusò perché non poteva dargli un alloggio migliore, quindi lo salutò dicendogli che sarebbe tornato due ore dopo per portarlo a cena a casa sua.

    Rimasto solo Amerigo si tolse la camicia, versò dalla brocca l’acqua nel catino, entrambi di metallo smaltato e un po’ scheggiato, e si diede una bella rinfrescata – ne sentiva proprio il bisogno – svuotò la sacca, si sdraiò sul lettino e guardando la lunetta sopra la porticina da cui entrava l’unica fievole luce, pensò a quella giornata e a come si stava trasformando la sua vita, poi gli si chiusero gli occhi e si assopì in un sonno profondo dal quale fu svegliato da un leggero ripetuto bussare alla porta.

    Si infilò una camicia pulita ed aprì a Rossi che era venuto a prenderlo per la cena. A casa sua c’era solo la moglie, avevano due figli grandi ma abitavano per conto proprio: una era sposata ed abitava a Spezia e il maschio stava in una casetta con l’orto vicino al camposanto, ancora nessun nipote.

    Amerigo offrì le salsicce di cinghiale che sua madre aveva comperato apposta per loro: le gradirono molto e gli dissero di ringraziarla.

    La cena consisteva in una zuppa di ceci, fagioli bianchi e farro, con olio di frantoio e ben pepata che gli piacque molto, gli dissero che era il più tipico piatto spezzino, mes-ciua si chiamava, l’avevano inventato i lavoratori del porto mescolando insieme quel che recuperavano sui moli dopo avere scaricato dai bastimenti i sacchi dei legumi; per secondo c’erano delle acciughe ripiene. Bevvero un vino rosso che tenevano in serbo per gli ospiti, ma lo trovò leggero.

    Dopo mangiato gli vollero mostrare un dipinto fatto dieci anni prima da uno svizzero sulla parete di una cameretta che affittavano ogni volta che potevano, Boclin gli sembrò di capire, uno famoso gli dissero. Lo trovò bello ma un poco lugubre: c’erano un’isoletta e una barca s’avvicinava, gli sembrava portasse un morto.

    Dopo la forte stretta di mano di lui che gli disse con gli occhi umidi di pianto che assomigliava tanto al suo povero babbo e un abbraccio buono e caldo di lei, piccola e tonda ma decisamente energica, Amerigo tornò alla sua stanza.

    Nel breve tragitto vide due osterie aperte con gente che giocava a carte.

    Nel cielo sereno una bella mezza luna faceva luce e un buon profumo scendeva dalla collina di pini e lecci, olivi e luminose macchie gialle di mimose in fiore. Raggiunta la spiaggia minuscola, di sabbia fine e chiara, si sedette a guardare il mare, che si muoveva adagio e le tremolanti luci di un paese sulla costa di fronte. Gli venne da pensare a casa sua, alla sua stanzetta e al disordine che c’era sempre dalla parte di suo fratello Vasco. Ora potrà combinarne anche di più, pensò sorridendo, con il doppio di spazio a disposizioneL’importante è che non distrugga i miei libri. L’ordine non è certo un suo vanto ma è buono, forte e, anche se tanto giovane, gran lavoratore. Sono sicuro che avrà cura della mamma e di Licia, come e più di me. Spero d’aver fortuna qui e di tornare tra qualche anno a casa con un po’ di denari nelle tasche.

    La rena era fredda, lo prese un brivido, si alzò, si scosse la sabbia dai calzoni e si diresse allo scantinato. Si sedette sulla brandina che sarebbe stata il suo letto per chissà quanto tempo, prese carta e lapis e scrisse una lettera a casa al lume di una candela buona che non faceva né fumo né puzzo.

    … Questa cantina non è umida, si sta bene.

    Non ci sono finestre. Solo una piccola mezza lunetta senza vetro sopra la porta. In un angolo della parete di fronte ci sono una damigiana vuota, due remi spaiati, un attrezzo che non ho mai visto fatto di canne intrecciate, una nassa come quelle che usano anche al Lido e qualche cianfrusaglia. Hanno imbiancato di fresco, credo l’abbiano fatto per ospitarmi dopo la lettera che mi fece scrivere il babbo due mesi fa, quando sentiva vicina la sua ora.

    Povero babbo, quanto ha goduto poco della vita. Sempre in mare. E quando s’è sbarcato per stare un po’ in famiglia, è stato solo per ammalarsi, e in un anno ce l’han portato via.

    Povera mamma mia, così bella, così forte e di nuovo così sola.

    La Licia e il Vasco, ne sono certo, sapranno farvi tanta compagnia, più di me, e svagarvi dai brutti pensieri ché i pensieri ve ne daranno e tanti quei terremoti.

    Vi voglio tanto bene cara mamma e vi porto nel cuore e la benedizione vostra è la cosa più cara per me.

    A presto, spero d’inviarvi un poco di denari fin dal prossimo mese. Un bacio ancora ai miei fratelli e soprattutto a voi mamma adorata.

    Vostro figlio che vi pensa e vi è devoto.

    P.S. Riverite la cara Maestra Bedeschi che vi leggerà questa mia e ringraziatela per me con tutto il cuore.

    §

    La signorina Celide Bedeschi era la maestra di Camaiore e insegnò in quella scuolina elementare per trentatré anni.

    Portava i capelli raccolti in alto, con le orecchie scoperte e senza alcun pendente, indossava sempre una camicia candida con tante piegoline sul davanti ed una gonna scura, in classe indossava un grembiule grigio sul quale aveva ricamato le sue cifre a punto pieno. Non prese mai marito.

    Era minuta e gentile e risoluta. Nella sua abitazione, dove aveva una consistente e varia biblioteca, amava accogliere i migliori alunni coi quali conversare e offrire loro un’istruzione più ampia e approfondita.

    Ogni sera scriveva il suo diario (che lasciò in eredità ad Amerigo, prediletto tra quegli allievi).

    Era nata a Firenze alle sei di sera del 27 aprile del 1859.

    In quella stessa ora il granduca Leopoldo II lasciava la città attraverso la porta di Boboli per evitare al popolo e a se stesso i drammi di una guerra fratricida. Per trentacinque anni aveva governato la Toscana, e pure a Leopardi e a Manzoni aveva dato asilo, ma nell’ultimo decennio aveva fatto gran fatica a barcamenarsi tra austriaci e Regno di Sardegna.

    Il padre di Celide, stimato stampatore ed eccellente rilegatore di atti e documenti, possessore di una salda e potente fede asburgica ritenne perlomeno singolare quella coincidenza: la

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